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  A r t h u r C r a v a n
Poeta e boxeur

 

Nato a Losanna il 22 maggio 1887, Fabian Avenarius Lloyd si sbarazza del proprio nome e si battezza Arthur Cravan. Alto due metri, fisico possente, una passione smodata e confusa per gli pseudonimi, Cravan si autoproclama nipote di Oscar Wilde e del cancelliere della regina, rischia di finire ammazzato per una recensione non troppo simpatica alla mostra degli Indipendenti di Parigi nel 1914. Viaggia tra New York, Parigi, Monaco, Barcellona e Berlino, spesso con passaporti falsi. Pubblica, da solo, la rivista "Maintenant". Nel 1916 sfida il campione di box Jack Johnson: l’incontro è truccato, Cravan cade alla prima ripresa, intasca la ricompensa e scappa a New York. Nel 1917 Duchamp lo invita a tenere una conferenza alla Grand Central Gallery: Cravan si spoglia davanti alla folla, ubriaco, spacca una tela e viene arrestato. La cauzione la paga il miliardario Walter Arensberg. Nel novembre del 1918 salpa dal Messico su una zattera che si è costruito da solo: parte alla volta di Buenos Aires per raggiungere la moglie, ma trova solo la morte.

Born in Lausanne on the 22nd of May 1887, Fabian Avenarius Lloyd got rid of his name and started everything over as Arthur Cravan. Two meters high, as big as tree, lost in a forest of alter egos, Cravan claimed he was Oscar Wilde’s nephew and Grandson of the Chancellor to the Queen. In 1903, he moved to New York but soon returned to Europe, often carrying fake passports. He hopped from Lausanne to Berlin, Munich, Paris. In France he edited the magazine "Maintenant", written, produced and printed all by himself. 1916 found him in Spain where he fought against the box champion Jack Johnson: he lost but made a little money, enough to return to the States. In 1917 Duchamp invited him to hold a conference at the Grand Central Gallery in New York: Cravan got naked in front of the crowd, insulting everyone, ruining a few paintings. He finally got arrested till Walter Arensberg, the noted collector and millionaire, got him out of prison. In 1918, he sailed from Mexico on a small boat, apparently trying to meet his wife in Buenos Aires: he disappeared. His body was never found.

© Arthur Cravan

Whoo.eee! Via, verso l’America in trentadue ore. Sono rimasto a Londra solo due giorni di ritorno da Bucarest prima di imbattermi nella persona che cercavo: l’unico disposto a coprire tutte le spese di un tour di sei mesi. Nessun contratto, naturalmente! Non che me ne freghi qualcosa. Dopo tutto non è che lascio mia moglie per questo viaggio, no? Merda! E non vi immaginerete mai cosa mi è toccato fare: organizzare incontri di box usando lo pseudonimo di Il Misterioso Arthur Cravan, il poeta coi capelli più corti del mondo, Nipote del Cancelliere della Regina, naturalmente, Nipote di Oscar Wilde, scontato ovviamente, no?, Nipote di Lord Alfred Tennyson, ancora una volta, signori miei, è naturale (eh, sì, mi son fatto sveglio ormai). Gli incontri sarebbero stati completamente nuovi, cose mai viste: regolamento tibetano, il più scientifico che sia dato conoscere all’uomo e più spietato dello ju-jitsu – la pressione più leggera su un qualsiasi nervo o tendine, e, splat, non importa dove e come, il vostro avversario (che naturalmente non era affatto stato corrotto, comprato, no, non proprio, anzi forse sì giusto un poco); comunque splat l’avversario cade a terra come un uomo colpito da un fulmine. E se questo non vi sorprende che mi dite di quest’altro: se i conti li ho fatti giusti, questa storia degli incontri dovrebbe far girare un po’ di soldi e se tutto va secondo i piani dovrei fare circa 50.000 franchi con questo affare, naturalmente a patto che nessuno scopra l’inghippo. Ma comunque vada, sempre meglio di quel racket spirituale al quale lavoravo prima.

Avevo diciassette anni e tutto bello e carino e me ne stavo tornando al mio albergo per raccontare tutto alla mia dolce metà nella speranza di cavarle qualche soldo – come sempre io ero in compagnia di un paio di perdigiorno che non avevano di meglio da fare, uno una specie di pittore, l’altro una razza di poeta di quelli tum-te-tum-te-bu-co-di-cu, che chissà perché mi ammiravano a morte (che folli!) e che mi annoiavano a morte per ore e ore raccontandomi aneddoti e storielle su Rimbaud, il verso libero, Cézanne, Van Gogh, oh Gesù, oh Renan (mi pare) e dio solo sa che altre storie insomma tornavo all’albergo dalla mia dolce metà.

Trovai la signora Cravan da sola, e le raccontai cosa era successo, mentre preparavo i miei bagagli non c’è un solo secondo da perdere. Nello stesso istante, e con solo tre movimenti, ripiegai la mia maglieria di seta, dodici franchi al paio, che fa di me un degno compare di Raoul il Macellaio, e la mie camice sulle quali ancora restavano gli avanzi delle nottate brave. Il mattino seguente, consegnai solennemente alla mia fedele moglie la mia lenza da pesca screziata e cinque astrazioni da cento franchi, belle nuove e ancora croccanti. E me ne scappai via per andare a fare una gigantesca pisciata. Quella sera, strimpellai un paio di tristi melodie sul mio vecchio violino, sbaciucchiai i tirabaci della mia piccola e mi comportai da perfetto padre con i miei bambini. Quindi, in attesa della partenza, sognando la mia collezione di francobolli, camminai avanti e indietro con i miei piedoni da elefante e il naso immerso nell’aroma onnipresente e irresistibile delle scoregge. 6.16 p.m. Vrooooom! Giù dalle scale di corsa. Dritto nel taxi. È l’ora dell’aperitivo. La luna, gonfia come una moneta da un milione, tradiva una certa somiglianza con una tavoletta digestiva contro i reumatismi. Avevo trentaquattro anni, nel fiore dei miei anni.

E mi accorgo che il pavé della strada riflette arcobaleni rosso vermiglio screziati di verde bistecca, il nucleo solare dei bipedi trafitti; e infine i passanti del sesso adorato con le loro frangette e chiappette si dispiegano come paesaggi sentimentali e, di tanto in tanto, tra una fitta al culo e l’altra mi par di vedere uno stormo di fenici che si alzano in volo.

Come da accordi, il mio impresario mi stava aspettando al binario otto alla stazione e appena lo vedo, subito saluto con affetto la sua volgarità familiare, le sue guance allo stufato di fegato – che aveva già avuto modo di assaggiare – i suoi capelli che pullulano di giallo e vermiglio, il suo cervello da scarafaggio e, accanto alla tempia destra, un neo affascinante quanto i pori radianti del suo orologio d’oro.

Mi cercai un angolino in prima classe e mi misi subito a mio agio. Cioè abbassai la guardia e distesi le gambe così, per essere il più rilassato del mondo.

E dall’alto del mio cranio da aragosta gettai un’occhiata delle mie, da campione del mondo

Come per studiar la folla, radunatasi quasi per caso,
e all’improvviso noto questo gentiluomo, un farmacista o un avvocato,
che puzzava di bidello o pellicano.
Aha aha! Ecco che mi piaceva di lui: le sue propensioni
si manifestavano un po’ come fanno gli erbivori,
mentre la sua testa mi ricordava piuttosto distintamente
di quando da piccolo mi arrotolavo ben bene attorno al manubrio della palestra e ci passavo la notte,
e, devo confessare, mantenendo sempre una certa adorazione
Per non parlare di quella cosa difficile da spiegare
Soprattutto lì, di fronte a quell’egoista tirato a lucido
Che misi subito sotto con il mio sguardo atlantico
Adoravo il suo avambraccio come un piatto sacro
E il suo stomaco suscitava in me la stessa attrazione di un bel negozio,
Biglietti, prego!

Cristo santo! Son certo che la voce del controllore avrebbe rovinato la digestione a 999 persone su 1000. Ne son proprio sicuro, ma posso anche dirvi che a me invece non fece alcun effetto. Anzi, nello scompartimento tutto in ordine, il tono della sua voce brillava e splendeva della luce musicale di uno stormo di uccellini cinguettanti. La bellezza delle panche del treno era, se non altro, così affinata da insinuarmi il dubbio di essere vittima di qualche disturbo motorio, in particolare perché mi ritrovavo a fissare quella bestiaccia borghese, il buco di culo più tenero dell’universo, chiedendomi che ci fosse di così affascinante in quel grassone seduto di fronte a me e che sembrava felicemente addormentato. Me ne stavo lì e pensavo: mai e poi mai un paio di baffi ha emanato tanta intensa corporeità e, soprattutto, mio dio quanto ti amo:

E mentre allofago
nella luce del tuo amore,
i nostri panciotti si intrecciano,
Mio caro cavolfiore,
io inseguo la tua vasta vita,
e i tuoi colori,
e in un amalgama
di Jack Johnson, elefanti marini e guardaroba
i nostri stronzi brillano come seta inumidita dall’acqua
fanculo-fanculo! Il battito
dei nostri pantaloni alla zuava
nell’ultimo
spasmo
addominale

"La proprietà è roba da termiti" esclamo all’improvviso, nella speranza di svegliare il vecchio borghese, del quale davvero ne avevo fino a qui, e insomma volevo offrirgli una scusa per cominciare. Quindi, guardandolo dritto dritto nel bianco degli occhi, di nuovo gli dico: "Sì, hai sentito proprio bene. E lo ridico, anche se rischio di farmi arrestare: per la barba della capra e i baffoni della pantegana, la proprietà è roba da ter-mi-ti!". Dal suo sguardo allibito capisco subito che mi ha preso per un pazzo o un coraggiosissimo ruffiano, ma fa finta di non sentire, spaventato com’è, si vede che ha paura che gli tiri un diretto. Io poi son davvero stupido, specialmente conoscendomi, a non essermi manco accorto che una signora americana con figlia se ne stanno sedute quasi proprio in braccio a me. Solo quando la mammina si alza per andare alla toeletta, solo allora mi accorgo di lei, e tutto preso da una specie di sensazione sentimental mi ci lancio dietro.

Con la mente che mi rimbalza dalla borsa della signora alle sue tristezze e depressioni.
E quando torna a sedere, le fisso gli orecchini e penso quanto è bella
con tutti i suoi soldi e malgrado le rughe e la sua carcassa che invecchia a vista d’occhio.
Dopo tutto, nell’assieme, la signora non ha neanche un po’ di fascino punto
col suo cuore guidato solo dall’egoismo e non spenderebbe manco un penny
a meno che ci sia qualche vantaggio anche per lei. E allora mi dico tutto arrabbiato:
Rrrr! Ti andrebbe di fare quattro passi fino al negozio di porcellane, giusto per una sega, vecchia puttana!
Te lo do io quello che cerchi, vecchia zoccola!

Ma la cosa più divertente, e poi così tipica di me, è che dopo un po’ mi metto a studiare un po’ la ragazzina; naturalmente tutto questo avviene solo dopo che mi son messo a studiare ben bene un modo per vivere alla grande rubandole tutti i suoi beni terreni. Deve essere la mia natura maligna: e così sogno di dividere con lei una bella esistenza borghese. Vi giuro che è tutto vero e che non riuscivo a smettere di pensare: "Caro mio, che pesce fuor d’acqua sei. Cara piccola e dolce ragazzina, potresti redimermi. Oh, se solo mi sposassi. Mi prenderei cura di te, usando la più grande dolcezza e considerazione al mondo. E viaggeremmo di qua e di là, lungo tutto i sentieri del mondo, comprandoci la nostra felicità. Per poi far ritorno alla nostra casina, un albergo tres chic a San Francisco. E non me ne importa nulla del mio impresario (e poi quello stupido cagacazzi non ha manco idea di quello che succederà). Passeremo interi pomeriggi ad amoreggiare sui divani dello studio: lì così, a testa china e a cosce aperte. E al tuo primo mugugno chiameremmo il cameriere. Lingue di fuoco e fiamme si alzeranno dai tappeti, proprio lì, di fronte a noi, riesci a vederle, mia cara?

I dipinti di valore, i mobili pesanti;
la cassettiera e i comodini simmetrici,
con le pance arrossate,
a stantuffare fino a far esplodere i nostri organi dorati.
I muri paralitici,
che secernono zaffiri,
eseguiranno per noi esercizi ginnici,
di ibis e tapiri;
su ottomane possedute
con i nostri piedi palmati,
riposeremo i nostri pesanti pettorali
facendo le fusa come gatti
e assaporando
le nostre lingue più gustose di ostriche
e in silenzio scoreggeremo satin sul velluto.
Come se fossero di pasta, i nostri pensieri più banali
ci riempiranno come oche,
pancia contro pancia,
avvinghiati come due scarpe,
e sempre avvolti in un calore fegatoso,
ci bagneremo nelle nostre aurore intestinali". 

"Ragazzo, ci siamo: Liverpool" disse il mio manager.
"Alllllright".

 

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