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Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa?
note da un convegno sull'arte contemporanea

 

A seguito di un convegno sulle nuove ricerche artistiche tenutosi al Link di Bologna nel novembre 1997, sotto il pittoresco titolo Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa?, Salvatore Falci, Eva Marisaldi, Giancarlo Norese, Cesare Pietroiusti, Anteo Radovan, Cesare Viel e Luca Vitone hanno raccolto le impressioni, i dubbi e gli interessi di un folto gruppo di artisti, accomunati dalla voglia di lavorare insieme, in una fertile e spregiudicata apertura all’altro – sia esso l’amico, un passante, il vicino, il collega, l’esperto o, semplicemente, la realtà. Il libro ha il piglio del manifesto, ma senza proclami generazionali né sfrontati protagonismi; è piuttosto una riflessione a più voci sul significato delle relazioni umane e artistiche, in barba a chi ci vuole schiavi dell’immateriale tecnologico e della "società dello spettacolo".

Ai lettori di Trax offriamo un estratto dall’intervento di Cesare Pietroiusti, che inquadra il problema di un’arte di relazione; e una delle due interviste realizzate da Eva Marisaldi – un esempio abbagliante di come trascinare il quotidiano, la relazione, l’altro nei territori privilegiati dell’arte.

Il volume è edito da I Libri di Zerynthia e da Charta.

Cesare Pietroiusti

Cosa e come mettere in comune

Cosa significa comunicare

«Un individuo non comunica: partecipa ad una comunicazione o diventa parte di essa. Può muoversi o fare rumore ma non comunica. Parallelamente può vedere sentire odorare gustare avere delle sensazioni, ma non comunicare. Un individuo non produce comunicazione, vi partecipa».
(Ray L. Birdwhistell, 1959, cit. da Paul Watzlawick e altri in Pragmatica della comunicazione umana).

Nella accezione antica il termine «comunicare» aveva un significato piuttosto diverso da quello che gli attribuiamo noi. Il latino communicare veniva usato per significare «partecipare» (per esempio a un piano di azione), «condividere» (per esempio un’opinione), «invitare» (per esempio a un banchetto). Lo slittamento verso il senso di «trasmissione unidirezionale di messaggio» (con o senza relativa risposta in direzione opposta) da una fonte a un ricevente appartiene alla modernità ed è forse legato al prevalere, con il mercantilismo, di istanze competitive su istanze cooperative. O, più probabilmente e precisamente, è dovuto a quell’evento rivoluzionario individuato da McLuhan nell’invenzione dei caratteri mobili di stampa e nella conseguente produzione del primo vero oggetto di serie, il libro; produzione evidentemente caratterizzata da trasmissione direzionale, impersonale e non partecipata, di messaggio. L’«ostendere», il «vendere», il «dare disposizioni», l’«informare» nel senso mediatico contemporaneo del termine, sono più vicini a questo significato.

La seconda metà del XX secolo è però segnata da una (ri)comparsa di tematiche di interdipendenza e di correlazione (teoria dei sistemi, modelli cibernetici, epistemologia della complessità, psicologia relazionale ecc.) e al ritorno di modelli polidirezionali nella diffusione del sapere: la rete piuttosto che la traiettoria, l’orizzontale piuttosto che il verticale, il multiplanare piuttosto che il piramidale, il complesso piuttosto che il semplice. Di conseguenza la «comunicazione» è sempre di più intesa come «sistema» in cui meccanismi come la retroazione, l’autoadattamento, la flessibilità e la imprevedibilità degli effetti diventano importanti o essenziali. Molti sono i motivi alla base dell’emergere di questo nuovo-vecchio paradigma (in epistemologia come in economia, in psicologia come in informatica), e non tutti, ancora, palesi (almeno a me). Mi sembra però evidente che nella rete ipercomplessa in cui circolano, sempre più indissolubili, il sapere e il potere contemporanei non è più così chiaro chi ha detto cosa a chi e quando e come, poiché ogni «cosa» (ogni messaggio) proviene insieme da più fonti, si arricchisce di imprevedibili aggiunte, si modifica e giunge, moltiplicandosi e «molteplicizzandosi», in luoghi da dove ripartirà; cioè dovunque. Non penso soltanto a Internet, che di tutto ciò è la lampante, didascalica, evidenza. Credo, soprattutto, che sia (e sarà) così negli ambiti specifici di conoscenza, nelle subculture, nelle relazioni interumane.
Da questa convinzione ne discende un’altra: il progressivo restringersi del campo d’azione del soggetto-autore. L’autore è colui al quale la modernità attribuisce (di diritto) il testo, l’opera, e riconosce una espressività individuale. L’autore propone una «comunicazione» direzionale (dal sé al pubblico), basata su una modalità verticale di fruizione, in cui i punti di arrivo e partenza del messaggio, nonché i suoi tempi, sono chiaramente fissati. In questo mio intervento vorrei proporre – forse una ipotesi di lavoro, più che una convinzione – l’idea che la «comunicazione» in quanto trasmissione direzionale di informazioni-cultura da un «autore» a un «fruitore» non esiste più, essendo andata dispersa in una rete in cui risulta sostanzialmente impossibile rintracciare tutti i canali (il percorso) e risalire a uno specifico soggetto-autore.

A quella figura di «autore» vorrei opporre una figura di «artista» (il termine è usato con parzialità e un po’ per comodità) che, più che produrre oggetti-opere, lavora per attivare e favorire la circolazione del sapere, con la consapevolezza che è nella relazione che si produce la conoscenza. Egli tenderà a rinunciare progressivamente alla paternità su idee e manufatti, alla pretesa di considerare il suo lavoro secondo momenti finiti (la mostra, la pubblicazione ecc.), alla distanza di ruolo e di esperienza con l’altro da sé (l’osservatore, il pubblico).

Idee per una comunicazione artistica non autoriale

La comunicazione artistica, nell’accezione che qui viene proposta, ha una caratteristica essenziale: l’autonomia (ovvero la libertà) dai sistemi di attese condivisi. Anche a costo di dire una banalità, voglio ricordare che ciò che differenzia una campagna pubblicitaria da un’operazione artistica è il fatto che nella prima è inevitabile – anche con tutta l’intelligenza, l’autoironia e la raffinatezza di tecniche retoriche che la pubblicità talvolta sfoggia – individuare uno scopo. Il cittadino che viene sottoposto alla continua stimolazione da parte dei messaggi pubblicitari sa (e lo sa senza bisogno di pensarci, lo sa per scontato, anche quando il senso del singolo messaggio gli sfugge) che essi, tutti, servono a qualcosa di preciso, a convincere a comprare, a consumare. Nel suo sistema di attese la pubblicità, anche quella più strana o scandalosa, trova sempre un suo posto fisso, una conferma rigida.
L’artista invece ha il privilegio di poter lavorare in una zona franca, dove gli usuali sistemi di attese non arrivano. In realtà ci sono dei sistemi di attese che individuano, nel pre-concetto comune, l’arte in quanto attività dell’artista; essi sono: il bisogno di denaro («l’artista fa arte perché così guadagnerà dei soldi»); il desiderio di autoconferma («l’artista fa arte per avere successo»); la necessità di esprimere contenuti altamente soggettivi («l’artista fa arte per dire qualcosa di profondo di sé»).
I primi due sono, come è ovvio, comuni a molte altre attività; il terzo è quasi specifico dell’arte. È chiaro che molte persone – grandi artisti o arrampicatori, artigiani o sbandati – rispondono e offrono conferma a questi sistemi di attese, quando si orientano verso: il prodotto-merce; la tendenza-moda; l’autoespressione-narcisismo.

Sicuramente non è possibile rinunciare in modo assoluto a questo triplice orientamento, soprattutto perché un certo livello di riconoscimento sociale è indispensabile per motivare a un lavoro, qualsiasi esso sia. Certamente però soltanto una comunicazione autonoma dai sistemi di attese condivisi può determinare una condizione di incertezza e, invece di aggiungere una conferma, creare un movimento di domanda, un bisogno-desiderio di conoscenza.

Propongo quindi di privilegiare: l’orizzontalità del processo, la creazione o il riconoscimento di condizioni di un qualche percorso possibile (rispetto alla puntualità del prodotto e alla verticalità della sua fruizione come «opera»); l’utilizzazione strategica del riconoscimento sociale (rispetto al successo come obiettivo in sé), per farne uno strumento atto a creare un ulteriore moto di diversione dei sistemi di attese; l’imprevedibilità dei contenuti relazionali, e degli aspetti organizzativi, comunitari o conviviali (rispetto alla espressione di una soggettività individuale)...

 

Eva Marisaldi

Due interviste

Presenterò quanto mi è stato detto in sede di intervista a due insoliti collezionisti. Può considerarsi un esempio di come il «quotidiano» entra nel mio lavoro: interesse ascoltato a lungo e poi affrontato con una distanza opportuna. Distanza obbligatoria perché a volta vendo il lavoro (esistono lavori che penso che non pongano alcun problema). Questo potrebbe considerarsi materiale preparatorio per un lavoro. Non sempre i lavori prendono forma. La precarietà mi porta a conoscere altri ambienti. Esiste un cambiamento nell’idea di durata delle «opere» anche in persone che non sono addette ai lavori (mia madre per esempio).

Come è iniziato l’interesse? Come è iniziata la raccolta? La spesa è un limite? Qual è un pezzo a cui sei affezionato? A chi mostri la collezione? A chi cedi un pezzo? La collezione continua?

"È iniziato da tossicodipendente. Il collezionismo è una perversione. Come tutte le fissazioni, le cose che si architettano per dare ordine ai pensieri… per non guardare alla realtà concreta. Il collezionismo è il fatto di crearsi un proprio mondo in cui entrare per distrarsi. Quando in un marasma di pensieri in successione anarchica c’è un sintomo di malessere, di non «essere in bolla», a quel punto ci si proietta in un altro universo. Il collezionismo è un mondo meno fantasioso, banale, è l’antitesi della creatività (creatività è produrre). Il collezionismo ti porta a conservare, che è l’anticamera della distruzione. Conservare e accumulare e poi che te ne fai? Niente. Quando ero scombinato ho preferito avvicinarmi all’inerzia, nessuno sforzo creativo, e il progetto era come si sarebbe potuto ampliare. Le macchinine che hai [non li chiama modelli, nda] non le guardi perché ne vorresti avere mille… le bruceresti. È dipendenza virtuale nella dipendenza anche se cerchi di tradurla in piacere, piacere stupido. È una rincorsa delle probabilità, un gioco perverso di illusioni che a mio avviso non aiuta a portare a niente di buono. Ma invece che dare giudizi è meglio vedere con distacco. Io frequentavo il negozio di via delle Moline (mio fratello costruiva aeroplani, era incasinato anche lui). Lui costruiva, io non avevo voglia di sbattermi. Mi andava di sognare a occhi aperti. All’inizio volevo solo i modellini che avevo da piccolo (che erano quelli vecchi, fuori mercato). Dopo poco con la mentalità da tossico tiravo su un po’ tutto. È il «canalone» da collezionista: avere tutto quello che c’è in catalogo. Ho fatto la collezione sputtanando della pilla e fregandone a man bassa.
Ma il progetto del collezionista è scrupoloso. Altri collezionisti che ho conosciuto tenevano tutto in armadi chiusi senza vedere le macchine nemmeno dalle finestrelle [delle confezioni]. Un collezionista le teneva chiuse e di fronte perché ce ne stessero di più. Pensavo che non se le godesse, avevo un nervoso furibondo, gliele volevo rubare, era anche collezionista di macchine fotografiche, veniva in negozio.
La lucrosità del progetto… Mio padre collezionava francobolli ma io al momento della vendita ho preso solo un decimo del valore. Si cerca di speculare perché dire investire è una esagerazione senza precedenti, alimentata da miti (X ha venduto un modellino per cinquecentomila lire). Esiste il fascino di tenere le cose per bene, non le puoi neanche guardare. Io le aprivo le scatole, così prendevano la polvere, poi perdevo un pezzo come un matusalemme senza energia. Questo è quanto. Poi è finita, come sono finiti i soldi e tutto… fermo restando che le cose partono dalla passione. Una persona meno attenta a quanto accade nel cervello non ci pensa, ma guardarle in vetrina e in casa che differenza fa? Una passione relativa.

Esiste una cultura intorno di intenditori. Uscendo da me, ci sono i collezionisti a trecentosessanta gradi, di tutte le cose che piacciono, dischi jazz, orologi, macchine fotografiche, si interessano a pubblicazioni specifiche, hanno una cultura didascalica. Ho conosciuto questo fenomeno che si poteva espandere a tutto. Si tratta di una vita che cerchi di inventare, di un universo nuovo dove più dai, più riempi l’universo. Hai letto Ubik? Sempre nello stile di Dick. Un personaggio, un uomo anziano, crea un mondo che riproduce tutto quello che era l’America degli anni Quaranta. Anche nelle collezioni di riviste. Io credo il seme sia lo stesso, se si parla di letteratura può essere diverso l’inizio, poi prende la predominanza qualcosa che non è leggere, diventi malato se ti manca il n. 7 anche se sai già cosa c’è scritto. Alla base del collezionismo c’è il proiettare all’esterno, cercare di ordinare gli squilibri cerebrali che potrebbero essere un campanello d’allarme utile per cambiare atteggiamento o cose. Ma tu te ne strasbatti, con un meccanismo di fantasia oleato.
Quando vado e le vedo, sono in una casa di campagna, sono contento, poi invece penso (meno di sei minuti, il tempo di due sigarette) ancora: perché sono così poche? È ancora in agguato. Poi immaginati il consiglio… essere libero da tutto, anche dai legami… figurati se è il biglietto giusto, un carriolo con trecentocinquanta macchinine, per essere a posto. Mio fratello ha una vetrinetta con ripiani in vetro dove teneva gli aeromodelli. Uscendo dal bagno ha dato una manata che sballottando ha fatto uscire tutte le mensole di sede, e i pezzi di aereo sono diventati più piccoli del cous cous. Lui ha reagito come a un grande evento, con l’espressione delle persone che hanno vissuto il terremoto.
Sono affezionatissimo a una del progetto iniziale, la mg che è stata anche la mia macchina vera, che ho cercato in modello ma non ho mai trovato. Ne ho avuto uno rifatto Mebetoys, verde inglese, come quella comprata col portellone apribile Dinky Toys, una rifatta, ma non è lei.
Io le mostro a chiunque viene, a tutti.
Ne ho regalate ai bambini. Quelle meno importanti, quelle recenti, più dozzinali.
C’era il fratello di un amico tossico che aveva una vetrina alta dieci centimetri che correva attorno alla stanza, piena di auto, duecento modelli, allora nell’82, tutti d’epoca anni ’60/’70. Gli feci delle proposte, ma non andò in porto. Nei progetti serali vedevo la mia collezione ampliata con i duecento pezzi e avrei cominciato a sentirmi realizzato. È un pensiero fisso che ti catapulta in un universo finto. Quello che capita veramente sfugge. Credi che attraverso i pensieri ci sia soluzione a quello che sta accadendo, ignori attraverso il film, il tuo da collezionista, la stanza dove le metti ed esci dal mondo non senza lasciare pilla e pilla."

 

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