| Come spiegare a mia madre 
            che ciò che faccio serve a qualcosa? | 
| A seguito di un convegno sulle nuove ricerche artistiche tenutosi al Link di Bologna nel novembre 1997, sotto il pittoresco titolo Come spiegare a mia madre che ciò che faccio serve a qualcosa?, Salvatore Falci, Eva Marisaldi, Giancarlo Norese, Cesare Pietroiusti, Anteo Radovan, Cesare Viel e Luca Vitone hanno raccolto le impressioni, i dubbi e gli interessi di un folto gruppo di artisti, accomunati dalla voglia di lavorare insieme, in una fertile e spregiudicata apertura all’altro – sia esso l’amico, un passante, il vicino, il collega, l’esperto o, semplicemente, la realtà. Il libro ha il piglio del manifesto, ma senza proclami generazionali né sfrontati protagonismi; è piuttosto una riflessione a più voci sul significato delle relazioni umane e artistiche, in barba a chi ci vuole schiavi dell’immateriale tecnologico e della "società dello spettacolo". Ai 
            lettori di Trax offriamo un estratto dall’intervento di Cesare Pietroiusti, 
            che inquadra il problema di un’arte di relazione; e una delle due 
            interviste realizzate da Eva Marisaldi – un esempio abbagliante di 
            come trascinare il quotidiano, la relazione, l’altro nei territori 
            privilegiati dell’arte. Il volume è edito da I Libri di Zerynthia e da Charta. | Cesare Pietroiusti Cosa e come mettere in comune Cosa significa comunicare «Un 
            individuo non comunica: partecipa ad una comunicazione o diventa parte 
            di essa. Può muoversi o fare rumore ma non comunica. Parallelamente 
            può vedere sentire odorare gustare avere delle sensazioni, ma non 
            comunicare. Un individuo non produce comunicazione, vi partecipa». Nella accezione antica il termine «comunicare» aveva un significato piuttosto diverso da quello che gli attribuiamo noi. Il latino communicare veniva usato per significare «partecipare» (per esempio a un piano di azione), «condividere» (per esempio un’opinione), «invitare» (per esempio a un banchetto). Lo slittamento verso il senso di «trasmissione unidirezionale di messaggio» (con o senza relativa risposta in direzione opposta) da una fonte a un ricevente appartiene alla modernità ed è forse legato al prevalere, con il mercantilismo, di istanze competitive su istanze cooperative. O, più probabilmente e precisamente, è dovuto a quell’evento rivoluzionario individuato da McLuhan nell’invenzione dei caratteri mobili di stampa e nella conseguente produzione del primo vero oggetto di serie, il libro; produzione evidentemente caratterizzata da trasmissione direzionale, impersonale e non partecipata, di messaggio. L’«ostendere», il «vendere», il «dare disposizioni», l’«informare» nel senso mediatico contemporaneo del termine, sono più vicini a questo significato. La 
            seconda metà del XX secolo è però segnata da una (ri)comparsa di tematiche 
            di interdipendenza e di correlazione (teoria dei sistemi, modelli 
            cibernetici, epistemologia della complessità, psicologia relazionale 
            ecc.) e al ritorno di modelli polidirezionali nella diffusione del 
            sapere: la rete piuttosto che la traiettoria, l’orizzontale piuttosto 
            che il verticale, il multiplanare piuttosto che il piramidale, il 
            complesso piuttosto che il semplice. Di conseguenza la «comunicazione» 
            è sempre di più intesa come «sistema» in cui meccanismi come la retroazione, 
            l’autoadattamento, la flessibilità e la imprevedibilità degli effetti 
            diventano importanti o essenziali. Molti sono i motivi alla base dell’emergere 
            di questo nuovo-vecchio paradigma (in epistemologia come in economia, 
            in psicologia come in informatica), e non tutti, ancora, palesi (almeno 
            a me). Mi sembra però evidente che nella rete ipercomplessa in cui 
            circolano, sempre più indissolubili, il sapere e il potere contemporanei 
            non è più così chiaro chi ha detto cosa a chi e quando e come, poiché 
            ogni «cosa» (ogni messaggio) proviene insieme da più fonti, si arricchisce 
            di imprevedibili aggiunte, si modifica e giunge, moltiplicandosi e 
            «molteplicizzandosi», in luoghi da dove ripartirà; cioè dovunque. 
            Non penso soltanto a Internet, che di tutto ciò è la lampante, didascalica, 
            evidenza. Credo, soprattutto, che sia (e sarà) così negli ambiti specifici 
            di conoscenza, nelle subculture, nelle relazioni interumane. A quella figura di «autore» vorrei opporre una figura di «artista» (il termine è usato con parzialità e un po’ per comodità) che, più che produrre oggetti-opere, lavora per attivare e favorire la circolazione del sapere, con la consapevolezza che è nella relazione che si produce la conoscenza. Egli tenderà a rinunciare progressivamente alla paternità su idee e manufatti, alla pretesa di considerare il suo lavoro secondo momenti finiti (la mostra, la pubblicazione ecc.), alla distanza di ruolo e di esperienza con l’altro da sé (l’osservatore, il pubblico). Idee per una comunicazione artistica non autoriale La 
            comunicazione artistica, nell’accezione che qui viene proposta, ha 
            una caratteristica essenziale: l’autonomia (ovvero la libertà) dai 
            sistemi di attese condivisi. Anche a costo di dire una banalità, voglio 
            ricordare che ciò che differenzia una campagna pubblicitaria da un’operazione 
            artistica è il fatto che nella prima è inevitabile – anche con tutta 
            l’intelligenza, l’autoironia e la raffinatezza di tecniche retoriche 
            che la pubblicità talvolta sfoggia – individuare uno scopo. Il cittadino 
            che viene sottoposto alla continua stimolazione da parte dei messaggi 
            pubblicitari sa (e lo sa senza bisogno di pensarci, lo sa per 
            scontato, anche quando il senso del singolo messaggio gli sfugge) 
            che essi, tutti, servono a qualcosa di preciso, a convincere a comprare, 
            a consumare. Nel suo sistema di attese la pubblicità, anche quella 
            più strana o scandalosa, trova sempre un suo posto fisso, una conferma 
            rigida. Sicuramente non è possibile rinunciare in modo assoluto a questo triplice orientamento, soprattutto perché un certo livello di riconoscimento sociale è indispensabile per motivare a un lavoro, qualsiasi esso sia. Certamente però soltanto una comunicazione autonoma dai sistemi di attese condivisi può determinare una condizione di incertezza e, invece di aggiungere una conferma, creare un movimento di domanda, un bisogno-desiderio di conoscenza. Propongo quindi di privilegiare: l’orizzontalità del processo, la creazione o il riconoscimento di condizioni di un qualche percorso possibile (rispetto alla puntualità del prodotto e alla verticalità della sua fruizione come «opera»); l’utilizzazione strategica del riconoscimento sociale (rispetto al successo come obiettivo in sé), per farne uno strumento atto a creare un ulteriore moto di diversione dei sistemi di attese; l’imprevedibilità dei contenuti relazionali, e degli aspetti organizzativi, comunitari o conviviali (rispetto alla espressione di una soggettività individuale)... 
 Eva Marisaldi Due interviste Presenterò quanto mi è stato detto in sede di intervista a due insoliti collezionisti. Può considerarsi un esempio di come il «quotidiano» entra nel mio lavoro: interesse ascoltato a lungo e poi affrontato con una distanza opportuna. Distanza obbligatoria perché a volta vendo il lavoro (esistono lavori che penso che non pongano alcun problema). Questo potrebbe considerarsi materiale preparatorio per un lavoro. Non sempre i lavori prendono forma. La precarietà mi porta a conoscere altri ambienti. Esiste un cambiamento nell’idea di durata delle «opere» anche in persone che non sono addette ai lavori (mia madre per esempio). Come è iniziato l’interesse? Come è iniziata la raccolta? La spesa è un limite? Qual è un pezzo a cui sei affezionato? A chi mostri la collezione? A chi cedi un pezzo? La collezione continua?  "È 
            iniziato da tossicodipendente. Il collezionismo è una perversione. 
            Come tutte le fissazioni, le cose che si architettano per dare ordine 
            ai pensieri… per non guardare alla realtà concreta. Il collezionismo 
            è il fatto di crearsi un proprio mondo in cui entrare per distrarsi. 
            Quando in un marasma di pensieri in successione anarchica c’è un sintomo 
            di malessere, di non «essere in bolla», a quel punto ci si proietta 
            in un altro universo. Il collezionismo è un mondo meno fantasioso, 
            banale, è l’antitesi della creatività (creatività è produrre). Il 
            collezionismo ti porta a conservare, che è l’anticamera della distruzione. 
            Conservare e accumulare e poi che te ne fai? Niente. Quando ero scombinato 
            ho preferito avvicinarmi all’inerzia, nessuno sforzo creativo, e il 
            progetto era come si sarebbe potuto ampliare. Le macchinine che hai 
            [non li chiama modelli, nda] non le guardi perché ne vorresti 
            avere mille… le bruceresti. È dipendenza virtuale nella dipendenza 
            anche se cerchi di tradurla in piacere, piacere stupido. È una rincorsa 
            delle probabilità, un gioco perverso di illusioni che a mio avviso 
            non aiuta a portare a niente di buono. Ma invece che dare giudizi 
            è meglio vedere con distacco. Io frequentavo il negozio di via delle 
            Moline (mio fratello costruiva aeroplani, era incasinato anche lui). 
            Lui costruiva, io non avevo voglia di sbattermi. Mi andava di sognare 
            a occhi aperti. All’inizio volevo solo i modellini che avevo da piccolo 
            (che erano quelli vecchi, fuori mercato). Dopo poco con la mentalità 
            da tossico tiravo su un po’ tutto. È il «canalone» da collezionista: 
            avere tutto quello che c’è in catalogo. Ho fatto la collezione sputtanando 
            della pilla e fregandone a man bassa.  Esiste 
            una cultura intorno di intenditori. Uscendo da me, ci sono i collezionisti 
            a trecentosessanta gradi, di tutte le cose che piacciono, dischi jazz, 
            orologi, macchine fotografiche, si interessano a pubblicazioni specifiche, 
            hanno una cultura didascalica. Ho conosciuto questo fenomeno che si 
            poteva espandere a tutto. Si tratta di una vita che cerchi di inventare, 
            di un universo nuovo dove più dai, più riempi l’universo. Hai letto 
            Ubik? Sempre nello stile di Dick. Un personaggio, un uomo anziano, 
            crea un mondo che riproduce tutto quello che era l’America degli anni 
            Quaranta. Anche nelle collezioni di riviste. Io credo il seme sia 
            lo stesso, se si parla di letteratura può essere diverso l’inizio, 
            poi prende la predominanza qualcosa che non è leggere, diventi malato 
            se ti manca il n. 7 anche se sai già cosa c’è scritto. Alla base del 
            collezionismo c’è il proiettare all’esterno, cercare di ordinare gli 
            squilibri cerebrali che potrebbero essere un campanello d’allarme 
            utile per cambiare atteggiamento o cose. Ma tu te ne strasbatti, con 
            un meccanismo di fantasia oleato. |