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B r e t E a s t o n E l l i s
Glamorama

anticipazione

 

Meno di zero ha creato il fenomeno del minimalismo chic losangeleno, American Psycho ha portato Musil sul set del Silenzio degli innocenti (Spagnol, il signor Longanesi-Garzanti, rifiutò di partecipare all'asta per l'edizione italiana dicendo: "Sarà anche un capolavoro ma non voglio avere niente a che fare con quel libro"). Con Glamorama l'ex enfant prodige Ellis torna in testa alle classifiche disegnando un'affresco (lucido e spietato, si dice in questi casi) del mondo della moda newyorkese. Eccovi l'anticipazione di un capitolo del romanzo.

Less than Zero started the LA-chic-minimalist phenomenon file, American Psycho brought Musil on the set of The Silence of the Lambs. With Glamorama the former enfant prodige Bret Easton Ellis paints his own portrait of Dorian Gray - that's what they all say - as a young NY fashion victim.

© 1998 Bret Easton Ellis. Tutti i diritti riservati.

Una jeep nera, la capote sollevata, i finestrini diatermici, mi si mette in coda sulla 23a e mentre sfreccio attraverso il tunnel di Park Avenue chiunque stia al volante accende i fari e mi si avvicina, il paraurti della jeep che sfiora il parafango della Vespa.

Piego sulla linea continua, il traffico che mi arriva addosso nel senso opposto mentre supero la fila di taxi che mi stanno a fianco, e poi punto sul wraparound di Grand Central. Salgo la rampa in accelerazione, schizzo in curva, sterzo per evitare una limo in sosta davanti al Grand Hyatt e poi sono di nuovo sulla Park senza rotture di coglioni fino alla 48a, dove mi guardo indietro e vedo la jeep a un isoltato di distanza.

Non appena il semaforo sulla 47a diventa verde, la jeep scatta in avanti e parte all’attacco.

Quando il mio semaforo cambia colore schizzo nella 51a, dove il traffico nel senso opposto mi costringe ad aspettare per svoltare a sinistra.

Mi guardo alle spalle, giù per la Park, ma non vedo la jeep da nessuna parte.

Quando mi volto di nuovo, la trovo ferma dietro di me.

Caccio un urlo e mi lancio immediatamente su un taxi che sta muovendosi lentamente sulla Park nel senso di marcia opposto, quasi cado dallo scooter e il rumore diventa un vortice sfuocato, tutto ciò che riesco a sentire è il mio respiro affannato e quando sollevo lo scooter mi infilo nella 51a davanti alla jeep.

La 51a è completamente bloccata dal traffico e io mi lancio con la Vespa sul marciapiede ma la jeep se ne frega e continua a seguirmi, sulla strada solo per metà, le due ruote di destra sul marciapiede e io urlo alla gente di spostarsi, le gomme dello scooter che sparano salve di sassolini addosso ad avvocati e uomini d’affari che mi minacciano con le loro ventiquattr’ore, a taxisti che urlano oscenità e mi sfiniscono addosso i loro clacson, un effetto domino.

Il semaforo successivo, all’incrocio con la Quinta, è arancione. Mando su di giri il motore della Vespa e volo giù dal marciapiede proprio mentre le auto che sgorgano dalla avenue mi stanno per venire addosso, il cielo scuro e turbinoso alle loro spalle, la jeep nera bloccata dall’altro lato dell’incrocio.

Il Fashion Café è a un isolato di distanza e tra il Rockefeller e la 51a salto giù dallo scooter e tenendolo al mio fianco corro sotto le corde di vinile – perlopù inutili – che stanno davanti alle porte: non tengono lontano nessuno, perché non c’è nessuno da tenere lontano.

Col fiato corto chiedo a Byana, che oggi fa da portiere, di lasciarmi entrare.

«Ma l’hai visto?» urlo. «Quei pezzi di merda hanno cercato di uccidermi.»

«E con questo?» scrolla le spalle Byana. «Adesso lo sai anche tu.»

«Senti, questa me la porto dentro» indico lo scooter. «Lasciamela tenere nell’ingresso per una decina di minuti.»

«Victor» dice Byana. «Cosa mi dici di quell’intervista con Brian McNally che mi avevi promesso?»

«Dammi solo dieci minuti, Byana» boccheggio portandomi dentro lo scooter.

La jeep nera si ferma all’angolo e io mi chino per sbirciare attraverso le porte di vetro del Fashion Café, la guardo voltare e scomparire.

Jasmine, la hostess, sospira quando mi vede passare attraverso la lente gigante che funge da hall ed entrare nella sala principale del ristorante.

«Jasmine» dico alzando le mani. «Solo dieci, baby.»

«Oh, Victor, dai…» dice Jasmine restando dietro il suo podio con il cellulare in mano.

«Lascio soltanto qui lo scooter.» Indico la Vespa appoggiata a un muro vicino al guardaroba.

«Non c’è nessuno» si arrende lei. «Fai pure.»

Il locale è deserto. Qualcuno dietro di me fischietta distrattamente The Sunny Side of the Street e quando mi volto non c’è nessuno e capisco che potevano essere le ultime note della nuova canzone dei Pearl Jam diffusa dallo stereo ma mentre aspetto che inizi un’altra canzone mi è chiaro che aveva un suono troppo chiaro, il fischio era troppo umano e io con un’alzata di spalle non ci penso più e mi sposto in un punto più centrale del Fashion Café, passo davanti a qualcuno che sta aspirando dei sassolini dal pavimento e a una coppia di baristi che si danno il cambio e a una cameriera che fa il conto delle mance al separé Mademoiselle.

La sola persona seduta a un tavolo è un tizio giovanile con un taglio di capelli alla Giulio Cesare che assomiglia a un Ben Arnold sulla trentina, porta occhiali da sole e quello che parrebbe un completo nero a tre bottoni di Agnès B, seduto al separé Vogue dietro il falso Arc de Triomphe che troneggia nella sala da pranzo principale. DJ X ha l’aria un po’ troppo affilata quel pomeriggio – e al tempo stesso abbastanza svaccata.

Si alza con aria interrogativa, abbassa gli occhiali da sole e allora io faccio un giro semiarrogante per la stranza prima di spostarmi al suo separé.

Si toglie gli occhiali e dice «Ciao». Mi porge la mano.

«Ehi, dove hai lasciato i baggy pants?» sospiro io infilandomi nel separé e tirandogli un colpetto leggero alla mano. «E la maglietta oversize col disegno a zigzag? E l’ultimo numero di Urb? E dove l’hai messa la ciocca incrostata di capelli decolorati?»

«Mi dispiace.» Alza la testa. «Mi dispiace ma cosa

«Io sono qui» dico allargando le braccia. «Esisto. Hai intenzione di farlo o no?»

«Fare cosa?» Ripone un menu violetto a forma di macchima fotografica Hasselblad.

«Uno dei DJ che abbiamo intervistato oggi ha voluto a tutti i costi mettere su Do the Bartman» mugugno. «Ha detto che era "inevitabile". Ha detto che quella canzone era la sua "firma". Da non credere che mondo del cazzo abbiamo intorno.»

Il tizio allunga lentamente una mano in una tasca del suo giubbotto e ne tira fuori un biglietto da visita e me lo porge. Io lo guardo, intravedo un nome, F. Fred Palakon, e sotto a quello un numero di telefono.

«Okay, baby» dico inspirando. «La tariffa massima per un DJ il giovedì sera a Manhattan è di cinquecento ma visto che sono in un vicolo cieco e a sentire tutti i miei amici gay tu sei la cosa più alla moda dai tempi di Astolube e abbiamo proprio bisogno di te ti daremo cinquecentoquaranta.»

«Grazie, Mr Johnson… mi scusi… Mr Ward… ma io non sono un DJ.»

«Lo so, lo so. Volevo dire music designer

«No, temo di non essere nemmeno quello, Mr. Ward.»

«Be’… voglio dire… chi sei allora e perché me ne sto seduto insieme a te a un tavolo del Fashion Café?»

«Sono settimane che cerco di parlarle» dice lui.

«Settimane che cerchi di parlarmi?» chiedo. «Tu cerchi di parlare con me? Non è che la mia segreteria telefonica abbia fatto favile questa settimana.» Faccio una pausa. «Hai un po’ di erba?»

Palakon si guarda in giro per la sala, poi torna lentamente a puntare gli occhi su di me. «No, non ce n’ho.»

«Allora, qual è la storia, qui?» Guardo distrattamente il remake di Nikita su uno dei monitor appesi vicino all’Arc de Triomphe. «Sai, Palakon, che hai proprio l’aria di uno di quei tossici per bene, ricchi, che magari hanno anche studiato, amico, se non c’è l’hai tu quella roba» scrollo disarmato le spalle. «Be’, amico, per come la vedo se non ce l’hai tu dell’erba, tanto vale che te ne stai a succhiare un cono in una latteria dell’Idaho, magari tra un lavoretto di pittura e un altro, un fienile o un silos magari, no?»

Palakon si limita a fissarmi dall’altro lato del tavolo. Gli porgo uno stuzzicandenti alla cannella.

«Ha frequentato il Camden College nel New Hampshire negli anni dal 1982 al… ummm… 1988?» chiede educatamente Palakon.

Lo guardo a mia volta e rispondo meccanicamente «Mi sono preso sei mesi di riposo.» Pausa. «Tutti e quattro, a dire la verità.»

«Il primo è stato nell’autunno del 1985?» chiede Palakon.

«Può essere» scrollo le spalle.

«Conosceva una certa Jamie Fields al Camden College?»

Sospiro, appoggio le mani al tavolo. «Senti, se non hai una foto non c’è storia, amico.»

«Sì, signor Ward» dice Palakon prenendo una cartella lì accanto. «In effetti ho delle foto.»

Palakon mi porge la cartella. Io non la prendo. Tossisce educatamente e la appoggia sul tavolo davanti a me. La apro.

La prima serie di foto sono di una ragazza che sembra un incrocio tra Patricia Hartman e Leilani Bishop, sta camminando lungo un corridoio, le lettere DKNY vagamente riconoscibili sullo sfondo, foto di lei con Naomi Campbell, una con Niki Taylor, un’altra mentre beve Martini con Liz Tilberis, diversi scatti di lei svaccata su un divano in quello che sembrerebbe uno studio di Industria, due in cui porta a passeggio un cagnetto nel West Village e una, che pare scattata con il teleobiettivo, in cui attraversa il parco di Camden, diretta verso l’estremità del prato prima che inizi a scendere verso la valle che gli studenti che soffrivano di vertigini avevano soprannominato Fine del Mondo.

La seconda serie di foto la piazzava improvvisamente davanti alla Burlington Arcade di Londra, sulla Greek Street di Soho, al terminal dell’American Airlines di Heathrow. La terza serie fa parte di un servizio. Ci siamo io, lei, Michael Bergin e Markus Schenkenberg che posiamo con addosso dei costumi stile anni Sessanta. Io sto per tuffarmi in una piscina, indosso un costume bianco e una canotta Nautica e lei mi guarda tenebrosamente sullo sfondo; noi tre che giochiamo con degli hula-hoop; un’altra con noi che balliamo in un patio; in una sono su un canotto in mezzo alla piscina e sputo uno zampillo d’acqua mentre lei si china sul pelo dell’acqua e mi fa segno di avvicinarmi. Non mi ricordo affatto di questo servizio, guardo più da vicino, incapace di guardare altre foto. La mia prima reazione: non sono io.

«Questo aiuta la sua memoria?» chiede Palakon.

«Wow… epoca pretatuaggio» sospiro notando il mio bicipite accanto al collo di Michael prima di chiudere la cartella. «Cristo, doveva essere l’anno in cui tutti portavano i Levi’s con le ginocchia tagliate.»

«Be’… sì… può essere» dice Palakon un po’ confuso.

«È la ragazza che mi ha iscritto all’Associazione Femminista per i Diritti degli Animali?» chiedo. «L’AFDA?»

«Ummm… ummm…» Palakon sfoglia la propria cartella. «Lei era una…» Guarda un foglio. «È un’antiproibizionista. Questo la aiuta?»

«Non proprio, baby.» Riapro la cartella. «È la ragazza che avevo incontrato alla festa per quarantesimo compleanno di Spiros Niarchos?»

«No.»

«Come lo sai?»

«Be’… io… so che non ha incontrato Jamie Fields alla festa di compleanno di Spiros Niarchos.» Palakon chiude gli occhi, premendosi il ponte del naso. «Per favore, Mr. Ward.»

Io lo guardo. Decido di provare un’altra tattica. Mi chino verso Palakon, e lui si sporge a sua volta verso di me, speranzoso.

«Voglio la tecno tecno tecno» ripeto notando all’improvviso in fondo al tavolo un’insalata di pollo orientale mezza mangiata, dentro un piatto con sopra la faccia di Anna Wintour.

«Io… non l’ho ordinata» dice Palakon allibito e poi, guardando il piatto, chiede «Chi è quella?»

«È Anna Wintour.»

«No.» Allunga il collo. «Non è lei.»

Allontano un po’ di noodles di riso e una fettina di mandarino e metto in mostra l’intero volto, senza occhiali da sole.

«Oh, hai ragione.»

«Un posto davvero anfetaminico» sbadiglio.

Passa una cameriera. Le fischio dietro perché si fermi.

«Ehi, baby, prenderò una birra ghiacciata.»

Annuisce. La guardo allontanarsi e penso due parole: non male.

«Non ha una sfilata alle sei?» mi chiede Palakon.

«Sono un modello, sono ubriaco. Ma va bene, è figo. Io sono figo.» All’improvviso mi viene in mente una cosa. «Aspetta un po’, questa non sarà mica una specie di interferenza?» gli chiedo. «Perché davvero io ho mollato il colpo da – ma deve essere da qualche settimana ormai.»

«Mr. Ward,» ricomincia Palakon: deve aver perso la pazienza. «In teoria lei ha avuto una relazione con questa ragazza.»

«Io ho avuto una relazione con Ashley Fields?» chiedo.

«Si chiama Jamie Fields e a un certo punto in passato, lei, Mr. Ward, ha avuto una relazione con questa donna, sì.»

«Ehi, comunque amico a me di questa storia non interessa proprio niente» faccio io. «Pensavo fossi un DJ, amico.»

«Jamie Fields è scomparsa tre settimane fa, sul set di un film indipendente che qualcuno stava girando a Londra. Jamie Fields è stata vista l’ultima volta al negozio di Armani in Sloane Street e all’Odeon di Regent Street.» Palakon sospira e sfoglia i documenti nella cartella. «Nessuno ha più avuto notizie di lei, da quando ha lasciato il set.»

«Magari non le piaceva la sceneggiatura.» Alzo le spalle. «Forse pensava che non avevano sviluppato bene il suo personaggio. Queste cose capitano sempre, amico.»

«E come…» Palakon abbassa lo sguardo sulla cartella, sembra confuso, «E come fa a saperlo, lei?»

«Procedi, amico, procedi» dico a caso.

«Ci sono certe persone alle quali farebbe molto piacere rivedere Jamie Fields» mi spiega Palakon. «Ci sono delle persone che vorrebbero riportarla in America.»

«Tipo il suo agente e quel giro lì?»

Proprio quando dico questa cosa, Palakon si rilassa, all’istante, come se avesse capito qualcosa all’improvviso, e allora sorride per la prima volta da quando si è seduto e mi dice: «Sì, il suo agente, sì.»

«Okay, figo.»

«Qualcuno pare averla vista a Bristol, notizie non confermate e comunque risalgono a dieci giorni fa» mi dice Palakon. «Praticamente non siamo ancora riusciti a trovarla.»

«Baby?» Mi sporgo verso il centro del tavolo.

«Ehm, sì?» Mi si avvicina anche lui.

«Stai giocando con un concetto che nessuno capisce» gli sussurro io.

«Capisco, Mr. Ward.»

«Allora, è una MDA, giusto?»

«Prego?»

«Una modella diventata attrice.»

«Credo di sì.»
Ci sono modelle che scivolano e sculettano ininterrottamente sullo schermo gigante, poco sopra l’Arc de Triomphe, c’è anche Chloe, compare un paio di volte.

«Hai visto la copertina di YouthQuake? Mi hai visto su quella copertina?» gli chiedo sospettosamente.

«Ehm, sì.» Per qualche ragione Palakon ha qualche problema ad ammetterlo.

«Bene, figo.» Pausa. «Mi presti un duecento dollari?

«No.»

«Bene, no problem, figo uguale. No, lo capisco.»

«Tutto ciò è superfluo» borbotta lui. «Assolutamente superfluo.»

«E cosa vorrebbe dire? Che sono un idiota? Che sono una specie di testa di cazzo? Un ritardato?»

«No, Mr. Ward» Palakon sta sospirando di nuovo. «Non significa nessuna di quelle cose.»

«Ascoltami bene, avete preso il tizio sbagliato» gli dico. «Io me ne vado.» Mi alzo. «Lasciami in pace.»

Palakon mi segue con lo sguardo, una specie di occhiata sognante. «Possiamo darle trecentomila dollari, se la trova.»

Non ci penso nemmeno su. Torno subito a sedermi.

«E tutte le spese di viaggio a nostro carico» aggiunge.

«Ehi, amico, perché io?» gli chiedo.

«Era innamorata di lei, Mr. Ward» mi dice Palakon ad alta voce, un po’ di sorpresa. «Almeno, così dice nei suoi diari del 1986.»

«Come… Dove li avete presi?» gli chiedo.

«Ce li hanno mostrati i suoi genitori.»

«Oh, amico» biascico. «E allora perché non vengono i genitori a parlarmi? E tu chi sei? Il loro tirapiedi? Amico, era dieci anni fa, capito?»

«In pratica» mi dice arrossendo. «Mr. Ward, sono venuto per farle un’offerta. Trecentomila dollari per trovare Jamie Fields e riportarla negli Stati Uniti. Tutto qui. A quanto pare, lei ha significato molto per questa ragazza, anche se lei non sembra nemmeno ricordarsela. Crediamo che lei possa riuscire a… influenzarla, diciamo così.»

Dopo qualche secondo gli chiedo: «Come avete fatto a trovarmi?»

«Suo fratello mi ha detto dove l’avrei trovata» risponde lui senza esitare.

«Amico, io non ce l’ho nemmeno un fratello.»

«Lo so» mi dice. «Stavo solo controllando. Vedi, già mi fido di te.»

Mi metto a studiare le unghie di Palakon – rosa, lisce e pulite. Un cameriere porta un carrello di avocado in cucina. Intanto i filmati delle sfilate collezione autunno continuano a scorrere sullo schermo, a ripetizione, all’infinito.

«Ehi, amico» gli dico. «A me serve comunque un DJ.»

«Ci penso io.»

«Come?»

«A dire il vero, ci ho già pensato io.» Tira fuori un cellulare e me lo passa. Io lo fisso. «Perché non chiama i suoi soci al club, Mr. Ward?»

«Già, perché?»

«Lo faccia e basta, Mr. Ward. Per favore» dice Palakon. «Non ha molto tempo.»

Apro il cellulare e batto il numero del club. Risponde JD.

«Sono io» gli dico, un po’ spaventato dio sa perché.

«Victor» JD sembra senza fiato. «Dove sei?»

«Fashion Café.»

«Vattene da lì.»

«Perché?»

«Abbiamo Junior Vasquez per stasera» mi strilla.

«Come?» Sto fissando Palakon dritto in faccia. «Che è successo?»

«L’agente di Jumior ha chiamato Damien e ha detto che Junior vuole venire da noi. Siamo a posto, capito?»

Spengo il telefono e lo appoggio lentamente sul tavolo. Continuo a studiare la faccia di Palakon, attentamente, e penso, un sacco di cose penso e alla fine gli dico. «Non riusciresti a trovarmi una parte in Flatliners II

«Ne possiamo parlare più tardi.»

«Anche un qualsiasi film: voglio fare la parte di un ragazzino americano che fa l’interrail.»

«Prenderà in esame la nostra proposta» mi chiede Palakon.

«Non mi avete spedito dei fax, vero?»

«Quali fax?» mi chiede, mentre ritira la cartella con le foto in una borsa nera. «Che fax? Cosa c’era scritto?»

«So chi sei e cosa stai facendo.»

«Io so già chi è lei. E so anche quello che sta facendo» mi dice chiudendo la borsa.

«Wow, ma chi sei?» gli chiedo un po’ impressionato. «Un cazzo di cane da punta?»

«Sì, potremmo dire così.»

«Ascoltami» Do un’occhiata all’orologio. «Be’, parleremo più tardi, immagino. C’è troppa merda qua, non possiamo far finta di niente, baby.»

«Speravo mi potesse rispondere subito.»

Lo fisso, mi sento perso. «Vuoi che me ne vada a Londra a cercare una ragazza che non mi ricordo nemmeno?»

«Quindi ha capito quello che le ho detto» mi dice Palakon, sembra sollevato. «Per un secondo ho temuto che non avesse registrato niente.»

Lo fisso dritto in faccia, mi sento stranamente contemplativo. «Sembri quel tipo di persona che si mangia le proprie croste» sussurro. «Lo sai? Che sembri quel tipo di persona lì?»

«Mr. Ward, mi hanno chiamato in molti modi. Ma mangia croste è la prima volta che lo sento.»

«Ehi, al diavolo, amico, c’è sempre una prima volta, giusto?» gli dico, spingendomi indietro, lontano dal tavolo, cercando di alzarmi. Palakon continua a fissarmi e mi fa sentire nervoso, mi fischiano le orecchie, ho brividi che non ho mai avuto in vita mia.

«Ehi, guarda c’è Ricki Lake che abbraccia un riccio.» Indico il video alle spalle di Palakon.

Palakon si gira.

«Ah, ah, ci sei cascato.» Comincio ad allontanarmi.

«Palakon si alza. «Mr. Ward…»
«Amico» gli grido dall’altro lato della stanza. «Ho il tuo biglietto da visita, ti chiamo io.»
«Mr. Ward, io…»

«Amico, dai, ci parliamo dopo. Pace e bene, amico.»

Il ristorante è ancora completamente deserto. Non vedo nemmeno Byana o Jasmine o la cameriera che mi ha portato la birra ghiacciata. Quando mi avvicino al mio scooter ci trovo un gigantesco fax che qualcuno ha appiccicato al manubrio: SO CHI SEI E SO QUELLO CHE HAI DETTO. Lo strappo dal manubrio e corro subito verso la soffice luce della stanza principale per mostrarlo a Palakon, ma anche quella stanza è vuota ormai.

 

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