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  E d m u n d W h i t e
La sinfonia dell'addio

intervista di Ron Hogan

 

Edmund White ha scritto uno dei migliori romanzi americani degli anni Novanta: La sinfonia dell’addio, tradotto in italiano solo alla fine del 1998, racconta in 566 pagine la vita di White, che si intreccia con quella della cultura gay new yorkese, dai magnifici e sfrenati giorni passati nelle dark room o sul molo del Meat District, fino alla tragedia dell’AIDS. Nessun compiacimento morboso, né autocommiserazione: White guarda in faccia alla vita, la spreme e strizza in ogni dettaglio, con una vista che non si lascia scappare niente, né le feste mondane degli scrittori americani rifugiati a Parigi o a Venezia, né l’odore dei primi leather bar del Greenwhich. Loschi figuri che armeggiano con la patta di qualche ragazzino, ma anche amanti elegantissimi con completi di lino e case nel New Hampshire: colazioni da Peggy Guggenheim, discussioni letterarie, lotte di classe e cordate, amicizie, sentimenti, amorazzi e sensazioni descritte con il passo sicuro e pesante che si addice a un romanzo storico dell’Ottocento. Una vita, più o meno violenta, più o meno poetica: 3600 amanti, non so quanti amplessi, ma soprattutto le sfumature più leggere e i drammi più soffocanti compressi in un libro che ha quasi il peso e l’autorità di un Balzac.

The Farewell Symphony is the third title of Edmund White’s trilogy, probably one of the most interesting chapters in contemporary American literature. Written with the authority and the depth that would suit Balzac, The Farewell Symphony is a brilliant mixture of autobiography, conversational novel and romance. Here is an interview with the author, about gay literature, biography and life.

(m.g.)

© Ron Hogan

Ron Hogan is online at Beatrice.com

“Genet ha scritto quattro romanzi autobiografici” mi dice Edmund White, che dello scrittore francese ha ricostruito la vita in una precisissima biografia “e quando è arrivato al punto che si cominciavano a pubblicare i suoi romanzi, Genet ha smesso di scrivere del tutto. È come se l’idea di essere pubblicato non facesse parte del suo concetto di scrittura e della sua identità”. Arriviamo a parlare di Genet, mentre discutiamo il nuovo romanzo di White, The Farewell Symphony, il terzo titolo di una serie di romanzi autobiografici cominciata con A Boy’s Own Story seguito da The Beautiful Room is Empty. In quest’ultima opera, che per dimensioni e respiro narrativo è grande quanto le altre due messe insieme, White racconta in forma romanzata i tentativi di diventare uno scrittore nel mondo gay della New York degli anni Sessanta e Settanta. Ma si spinge anche molto più là, ben oltre la data di pubblicazione del suo primo romanzo, per arrivare fino alla crisi dell’AIDS e alla morte di molti amici e amanti (il titolo del romanzo è ispirato a una sinfonia di Haydn che si conclude con l’uscita di scena di tutta l’orchestra, a eccezione di due violini). White non chiede perdono per la passata promiscuità; anzi affronta qualsiasi argomento con una combinazione di franchezza e lirismo, perfetta espressione delle sue passioni intellettuali e carnali. È stato duro, spaventoso, ammette White, ma “se stai scrivendo una serie di romanzi autobiografici e arrivi al momento in cui iniziano a pubblicare i tuoi romanzi, devi ingoiare il tuo orgoglio e decidere se hai il coraggio e la forza di continuare o se preferisci gettare la spugna. Io ho cercato di continuare”.

Ron Hogan
Cominciamo da una citazione dal romanzo: “La vanità dello scrittore gli impone di considerare materiale letterario qualsiasi cosa gli accada. Osserva tutto da lontano, e anche quando gli sbirri lo arrestano mentre succhia un cazzo che spunta dal buco di un peepshow, lo scrittore sorride languido e pensa: ‘Materiale per una storia’. Mentre si immerge nella stupidità della vita quotidiana, nel suo disordine e tedio, lo scrittore distende il braccio, solleva il pollice e strizza gli occhi, come se studiasse un’inquadratura per ritrarre questo brulicare di non senso. Qualsiasi nuovo incidente offre il materiale per un nuovo finale di qualche storia, alla luce del quale bisogna riscrivere tutto ciò che accade”. Ecco credo che questo paragrafo riassuma l’essenza del tuo romanzo.

Edmund White
Penso di essere sempre stato uno di quelli che vive la propria vita come se fosse un romanzo, o come se fosse sul punto di trasformarsi in un romanzo. Quindi cerco sempre di scoprire uno schema, qualche ripetizione, un senso nascosto nel folle brulicare della vita. E nella mia trilogia ho più volte scritto che se c’è un diavolo, non è certo un essere vestito di rosso con tanto di coda: il diavolo è un uomo in maglietta bianca seduto a guardare la TV a mezzogiorno. Ciò che mi fa davvero paura è la noia e l’idea che il mondo sia destinato all’entropia. L’arte si muove in direzione opposta: cerca di iniettare energia, di trovare un significato o una certa vitalità in ciò che sembra più insignificante. Prima di The Farewell Symphony non avevo mai osato parlare esplicitamente di arte e scrittura nei miei romanzi. Era un forma di sfiducia, tutta americana, nei confronti della cultura e pensavo che quegli argomenti potessero interessare solo gli altri scrittori. Ma mi sono ritrovato a rileggere molto Proust ultimamente, perché sto scrivendo una biografia su di lui. La sua vocazione di scrittore è uno dei temi principali del suo lavoro. E chiunque incontri viene paragonato a un dipinto. Così ho deciso di non seguire le mie regole, e di scegliere proprio l’arte come argomento principale del mio nuovo romanzo.

È interessante leggere nel tuo romanzo il passaggio da Edmund White, scrittore alle prime armi, a Edmund White, icona della letteratura gay.

A dire il vero nel mio romanzo il protagonista finisce il suo primo libro e cerca in qualche modo di tenere insieme i pezzi della sua vita, di darle un senso. E la mia vita in fondo non è molto diversa da quella situazione: ho ancora una pessima reputazione, c’è sempre qualcuno pronto ad attaccarmi: mi piace che sia così, dimostra che sono ancora uno scrittore vitale e vivo, altrimenti non irriterei più nessuno. La destra gay ha attaccato il mio libro e naturalmente c’è sempre qualche cattolico estremista pronto a castrarmi.

Ma in fondo i tuoi sono romanzi che ricostruiscono un momento storico, in cui l’etica e la morale erano diverse.

Sì. Ad esempio, prima o poi scriverò un libro su Brice, l’amante che muore di AIDS in The Farewell Symphony. E quando quel libro uscirà, il pubblico sarà sconvolto dal fatto che ci sarà pochissimo sesso. Se il tuo amante è malato di AIDS e sta morendo, non ti viene voglia di fare l’amore con lui, perché sta male e ti sentiresti un bastardo ad andare in giro a farti qualcun altro. Così si entra in una sorta di periodo di castità che dura anche parecchi anni. La gente che ridacchia sfogliando il mio romanzo e dice: “Oh la la, Parigi!” sarà sconvolta quando scoprirà che non ci sarà quasi nemmeno una scena di sesso nel mio prossimo libro. In sostanza, cerco di scrivere cose che siano adatte a ciascuna epoca, a un preciso momento nella mia vita. Credo che sia ridicolo cercare di riscrivere il passato solo per farlo coincidere con la nostra idea di morale e di sesso.

Questa onestà storica è solo un sfaccettatura di una più ampia onestà intellettuale ed emotiva che è cruciale nel tuo lavoro.

Sì, ma ci sono anche dettagli che devono passare in secondo piano se non vuoi annoiare i lettori con tutti i dettagli. Nel romanzo ho cercato di lavorare solo su alcuni temi, l’importanza dell’amicizia nella cultura gay, la carriera di scrittore, i rapporti con la famiglia, la nascita dei primi desideri omosessuali... Tutto il resto è rimasto fuori, interi brani della mia vita. In questo senso è stato molto utile scrivere la biografia di Genet, che è stato un lavoro difficilissimo. Genet era un figlio di contadini trasformatosi in un delinquente. Ha passato anni e anni in riformatori e in prigione. La gente che lo conosceva è morta giovanissima, come succede a tutti i delinquenti e ai poveri. Oppure è quasi impossibile trovare i vecchi amici, i testimoni, perché nessuno sa chi sono o perché non vogliono farsi trovare e se li trovi ti chiedono sempre dei soldi o magari raccontano balle. Ci sono voluti sette anni in tutto per scrivere la mia biografia di Genet, ma mi ha aiutato a capire come dare un senso coerente a tutti i pezzi e alle storie che avevo raccolto. La biografia di Genet mi ha insegnato che la vita di una persona è come un appendiabiti: continui ad appenderci vestiti, ad attaccarci cose, e resta sempre un oggetto riconoscibile, con un senso intimo. Così quando mi sono messo a scrivere il mio romanzo sono stato più coraggioso, ho provato ad andare in direzioni diverse, a perdermi in digressioni, tenendo sempre a fuoco lo sviluppo emotivo e intellettuale del protagonista.

E così puoi saltare dal passato al presente, cambiare continuamente argomento. Immagino che l’unico modo per descrivere il tuo romanzo sia l’aggettivo “proustiano”...

Grazie, è molto gentile da parte tua.

Hai paura che non ti resti tempo per sviluppare i tuoi progetti a causa del HIV, del tuo essere sieropositivo?

Be’, ormai ho 58 anni e credo che tutti abbiano quella sensazione a questa età. D’altra parte, il mio idolo, Nabokov ha scritto Lolita quando aveva cinquant’anni più o meno. E il suo libro successivo era altrettanto bello. Quindi ho sempre pensato che i miei lavori migliori sarebbero venuti fuori intorno ai cinquant’anni: per uno scrittore ambizioso come me, sono questi gli anni migliori, gli anni in cui si può mescolare la finzione a problemi teorici e tecnici, di scrittura saggistica, riuscendo a dilatare il respiro temporale del romanzo. È quasi impossibile farlo quando sei giovane: qualcuno ci riesce, qualcuno come Balzac... Gli altri scrittori ci riescono soltanto intorno ai cinquant’anni. Se poi dovessi morire tra un mese, non credo che sarei deluso, non avrei la sensazione di aver sprecato il mio talento di scrittore. D’altra parte morire un po’ mi scoccia, perché mi piace la vita e ho ancora un sacco di progetti. Sto scrivendo un libretto su Proust e il romanzo su Brice. E ho iniziato un’antologia di interviste con gay famosi, David Geffen, Elton John e Cy Twombly.

Ma nei tuoi libri di saggi hai spesso criticato l’idea di un canone letterario gay, di uno stile gay...

L’idea stessa di canone la trovo di pessimo gusto, perché serve solo a chi non legge, a chi vuole avere una lista di nomi, un paio di romanzi da leggere e smettere subito. Quelli a cui piace leggere invece sono sempre a caccia di un nuovo libro, vogliono aprirsi a nuovi talenti. Mi piace scoprire ciò che fanno i nuovi scrittori, cosa pensano, cosa vogliono, poco importa se siano gay oppure no. Non mi interessa costruire un canone che parte da Omero, passa per Dante e Shakespeare con l’aggiunta di qualche scrittore gay. Non voglio una lista sacra: voglio che le nostre letture diventino promiscue, proprio come la nostra nazione.

Altrimenti c'è il rischio di essere segregati in un paio di scaffali di una libreria, con l’etichetta Letteratura Gay...

Mi sono spesso chiesto se un lettore etero potesse trovare il coraggio di entrare nella sezione gay di una piccola libreria in provincia e prendere il mio libro - che ha una copertina un po’ gay - e mettersi in fila con altre dieci persone: si sentirebbe a disagio, sarebbe una sorta di confessione? Non penso che la gente si sentisse così negli anni Cinquanta, quando andava a comprare Gore Vidal o James Baldwin: erano libri come gli altri.

 

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