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G i d e o n B a c h m a n
Perché andiamo al cinema?

alla ricerca dell'identità culturale perduta

 

Dal convegno The Cinema of Tomorrow, un saggio sul futuro del cinema come arte sociale.

From the symposium The Cinema of Tomorrow, some random thoughts about the future of the cinema as a public art.

© Kinema & Gideon Bachman

Oggi siamo testimoni di una quantità mai vista di congressi dedicati al tentativo di salvare il dispositivo cinematografico tradizionale dalla totale industrializzazione. In un’epoca sempre più caratterizzata da un’economia mondiale basata esclusivamente sul profitto – nonché da quello che chiamerei Nuovo Pragmatismo derivante dall’esplosione demografica – potrebbe di fatto essere comprensibile che i criteri artistici mostrino la corda. I monopoli industriali centralizzati e intensivi sono possibili grazie al livellamento del gusto medio a un comune denominatore infimo. In altre parole: la macchina cinematografica americana dipende dalla popolarizzazione della mediocrità.

Cresce allora la tentazione di rinunciare alla qualità semplicemente per mantenere il cinema come forma di cultura popolare. Ma ci si dimentica che non sempre "cultura" e "popolare" vanno a braccetto. L’accettazione della massa diviene l’unità di misura, e tutti gli altri criteri sono un lusso.

Quando ci ritroviamo per discutere su come "salvare" il cinema – pur consci dell’imposizione della commercialità e del suo potere – diamo per scontato che certi meccanismi di visione cinematografica siano assiomatici.

Diamo per scontato, per esempio, che la gente scelga quale film andare a vedere. Diamo anche per scontato che escano di casa per andarlo a vedere, o almeno continuiamo a sperare che lo facciano, nonostante il fatto che l’elettronica abbia portato il cinema in casa. E diamo per scontato che certi film abbiano più traino sul pubblico di altri.

Ma il dato che diamo quasi sempre per scontato è soprattutto che quando qualcuno esce di casa per un’esperienza cinematica, è il film che glielo fa fare. Anche se tutte le esperienze di esibizione moderna dovrebbero aiutarci a dubitare di questo "fatto".

È proprio su questo concetto – l’esperienza cinematica – che è necessaria una grande ricerca. Per definire e promuovere il cinema di domani dobbiamo capire appieno in cosa consiste – oggi – questo concetto. Dobbiamo capire meglio perché la gente va al cinema.

Quando la televisione iniziò a succhiare spettatori ai cinema, noi ci dicemmo che il cinema aveva da offrire un’esperienza sociale che lo scatolone casalingo non poteva dare. Per molti anni ci illudemmo che questo semplice fatto avrebbe salvato il cinema. Oggi abbiamo capito che quando si tratta di vedere un film in particolare, la gente si accontenta tranquillamente del proprio salotto.

Ma la gente continua ad andare al cinema. Meno numerosi, ma ci vanno. Sembrerebbe però che quella che chiamiamo "esperienza sociale" sia rilevante solo per un decimo del numero totale di persone che guarda film, se contiamo anche gli spettatori casalinghi. I bisogni sociali di questi pochi sono diversi da quelli delle persone che restano a casa, nel loro nido elettronico?

Se desideriamo aumentare questa percentuale, o anche solo mantenerla come è oggi, dobbiamo innanzitutto capire il significato specifico dell’esperienza sociale. Dobbiamo capirla non solo come stimolante alla frequentazione delle sale cinematografiche, ma anche come drive sociologico. Perché l’andare al cinema è solo una forma di esperienza sociale. La scienza che studia il bisogno dell’uomo di radunarsi non ha mai visto pienamente la luce nelle strutture della comunità moderna. Quelle che abbiamo definito come strutture di comunità moderna sono sistemi di coabitazione che tendono a isolare l’individuo. L’auto, il telefono, la radio e la televisione, Internet, anche la danza moderna, rendono possibile all’individuo una separatezza ancora più marcata. Li chiamiamo "mezzi di comunicazione", ma in realtà sono strumenti che ci separano.

Tuttavia, da un punto di vista etologico, l’uomo è un animale tribale, non solo dipendente dagli altri per la sussistenza, ma anche psicologicamente vincolato al proprio riflesso nello sguardo altrui per conservare un proprio senso d’identità. Per sopravvivere – fisicamente e mentalmente – non possiamo restare soli. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro, punto e basta.

Questo bisogno è il nostro istinto principale. Alla faccia di Freud, il desiderio d’appartenenza è più forte del desiderio di sopravvivenza (andiamo in guerra, pronti a morire, per partecipare del senso d’identità del nostro gruppo), e il sesso è ovviamente solo una funzione del bisogno d’appartenenza. Nel corso della storia – in tempi recenti come nella preistoria – l’esclusione dalla comunicazione era una punizione gravissima, e il potere solo una suprema modalità d’appartenenza.

Oggi siamo ancora più soli, isolati dalle famiglie sempre più piccole, da una tradizione individualista, dall’ossessione industriale della competizione, dall’hubris, dalla teoria della supremazia dell’uomo, dalla scomparsa della natura. Viviamo – in quest’era moderna – con degli istinti che non possiamo più soddisfare. Il conflitto tra la nostra biologia e la nostra realtà è evidente in tutto ciò che facciamo. Abbiamo inventato il conflitto tra l’indivduo e la società per rimpiazzare il conflitto tra i nostri bisogni e la nostra vita reale.

Faremmo di tutto per non essere soli.

Il bisogno di riunirsi è un’energia immensa. Se lo comprendessimo correttamente, se analizzassimo con cura le sue componenti, se applicassimo le nostre capacità intellettive e analitiche all’abitudine di andare al cinema, potremmo non solo capire perché qualcuno se ne va a vedere un film, ma anche qualche modo per spingerlo a farlo più spesso. Cos’è, in termini pratici, che vuole la gente quando si riunisce?

Non sono un sociologo, e nemmeno un etologo, e le mie osservazioni devono restare personali e soggettive. Ma cos’è che ci colpisce quando vediamo un gruppo crescere progressivamente di numero, come in un bar, a una festa, a una partita di calcio o in una famiglia italiana?

Primo: in tutti questi casi il volume della conversazione si alza. La gente in gruppo è più rumorosa di quando sta a coppie. Secondo: si stabiliscono in fretta delle gerarchie. Un singolo – o un piccolo gruppo all’interno del gruppo più grande – diviene il leader, la colonna centrale. Spesso aumenta la violenza e diminuisce la considerazione reciproca. L’autoesaltazione va alle stelle: la gente inizia a dire agli altri quanto è brava a fare questo e quello. Si tira fuori l’orgoglio. Cresce la superficialità. La sensazione generale è quella dell’"Anch’io! Anch’io!". Per la maggior parte del tempo non è un passo in avanti, insomma.

Tutto questo probabilmente significa che le persone sono dispostissime a rinunciare alle loro migliori qualità per sentirsi parte di un tutto. Sempre meglio essere un po’ superficiali che soli, no? Il prezzo da pagare è l’accettazione dei valori del gruppo. È un po’ come comprare un vestito alla moda che non c’entra nulla con la nostra personalità (idea che sta peraltro alla base dell’intera industria della moda). E allora ce ne andiamo a vedere Rambo perché ci vanno anche i nostri amici. La paura della solitudine è la base del monopolio cinematografico americano.

Questi elementi negativi prodotti dall’assembramento di esseri umani non possono essere il solo sintomo del nostro desiderio di socializzazione. Secondo Robert Ardrey imparammo a cooperare quando imparammo a cacciare in gruppo – il solo modo di sopravvivere in un mondo in cui gli animali avevano denti, pellicce, velocità, forza e un altro milione di armi naturali e a noi invece era toccata solo l’intelligenza. La cooperazione divenne un istinto, grazie al quale sopravvivemmo e – forse – continuiamo a sopravvivere. Siamo una specie che collabora per natura. L’isolamento ci uccide.

Parrebbe allora logico che vedere un film non può essere l’unica cosa che metta le persone alla ricerca di un’esperienza sociale. Delle ricerche svolte di recente in Germania dall’Istituto Europeo del Cinema di Karlsruhe sembrerebbero indicare che la gente sceglie il film che vuole vedere sulla base della situazione in cui è presentato, e non del singolo film. Non è una cosa da poco.

A Locarno, nel corso del festival del cinema, vengono proiettati dei film in Piazza Grande, e davanti allo schermo all’aperto più grande d’Europa si radunano ogni sera 9000 persone; per vedere il film, certo, ma anche per incontrare gli amici, cenare, fare quattro chiacchiere, per prendere parte insomma al potentissimo impatto di una proiezione pubblica di quelle dimensioni. E ci vanno tutte le sere, a prescindere da quale film sia in programma.

Quando ero bambino vidi il mio primo film in un "cinema" di Gaza, in Palestina. Fu durante la Seconda guerra mondiale. Il film era diviso in segmenti da dieci minuti, e ne veniva proiettato uno all’ora. Negli intermezzi salivano sul palcoscenico ballerine del ventre, prestigiatori, gruppi musicali e cantanti. La gente andava lì per tutta la sera, per essere parte di quel circo. Il film era solo un elemento di quell’esperienza.

Uno dei grandi successi del cinema moderno è il cinema IMAX, dove su uno schermo gigante vengono proiettati i film nel modo tecnicamente più perfetto che sia stato inventato sinora. La pellicola – da 70mm anziché 35 – scorre orizzontalmente nel proiettore. L’immagine che ne esce è insuperabile. I biglietti costano molto cari, ma la gente li paga e va ai cinema IMAX senza nemmeno chiedere che film è in programmazione. In effetti ci sono pochissimi film in formato IMAX, e continuano a riproiettare sempre gli stessi. Ma la gente continua a tornarci.

In famiglia di solito si chiede "Andiamo al cinema, stasera?", e solo in un secondo momento viene sollevata la questione di quale film vedere. Lo stesso principio (prima l’esperienza, poi il titolo del film) sta ovviamente alla base dei cinema multisala. Nella frase "Andiamo al cinema", l’accento è su "Andiamo", non su "cinema". È quindi abbastanza inutile dire che alla gente non piace un certo tipo di film. Piuttosto ciò che non piace è un certo tipo di situazione. I risultati al botteghino non danno la misura della qualità di un film, ma del modo in cui è stato presentato. Tutto ciò che la storia ci ha insegnato sulle origini dell’uomo ci dimostra che siamo stati – per la maggior parte della nostra storia – cacciatori e raccoglitori. In altre parole, abbiamo vissuto di quanto ci forniva la natura. L’individualità non era di grande importanza per la sopravvivenza del genere.

Con l’invenzione dell’agricoltura, circa 9000 anni fa, il cibo "artificiale" ha dato il via all’esplosione demografica. Un campo divenne o "mio" o "tuo", e la natura non fu più l’unico arbitro della nostra sussistenza. Il contadino più intelligente otteneva le mele più grosse. L’idea del possesso prese a controllare – e ad avvelenare – le nostre esistenze. L’individualità – essere un contadino migliore – iniziò a contare. La sopravvivenza, a quel punto, dipendeva dall’individualità. Per 9000 anni ne siamo stati vittime, elevandone il valore sopra e oltre i nostri istinti naturali. Porsi fuori (e sopra) la massa era all’improvviso importantissimo. E mortale. Non c’era più spazio per tutti, ma solo per quelli intelligenti. O ricchi, o potenti, o crudeli, o intolleranti. Questo è ciò che chiamiamo storia moderna. È vero però che l’individualità ci ha dato la cultura, la civiltà, l’amore, l’arte, il pensiero, la scienza – e il cinema. Magari non siamo istintivamente individualisti, ma l’individualismo ci ha dato tutto quanto abbiamo, nel bene e nel male. Non si può scappare. Dobbiamo vivere con questo conflitto.

Oggi stiamo entrando in una nuova era. Mentre in passato essere individualisti era essenziale per sopravvivere, ora esserlo è via via meno vantaggioso. Probabilmente da un punto di vista evolutivo ci stiamo avvicinando allo status delle api e delle formiche, ci avviamo a essere utili alla sopravvivenza della specie solo rinunciando alle nostre differenze. È già ora "scomodo" socialmente ed economicamente avere troppe nozioni individuali.

Uno dei più felici risultati del conflitto tra l’istinto e la realtà che ha segnato gli ultimi millenni della nostra esistenza, è lo sviluppo della facoltà che chiamiamo fantasia.

In poche parole: quando fu chiaro ai nostri antenati che non potevano vivere come i loro istinti avrebbero preteso, iniziarono a immaginare un’altra forma d’esistenza, più vicina ai loro sogni. Impossibilitati a vivere le loro fantasie nel presente, le catapultarono in quello che presero a chiamare futuro. Praticamente tutta la nostra inventiva, la nostra creatività, la nostra arte, a partire dai dipinti delle caverne, tutta la fantasmagorie dell’immaginazione umana – ma anche tutte le paure (del futuro) e i sensi di colpa (per il passato) sono frutti della più grande invenzione che l’uomo abbia mai fatto: il tempo.

Il tempo è l’arma che abbiamo inventato per sopportare un presente impossibile. Il senso del tempo è ciò che ci separa da tutti gli altri esseri viventi, e così la fantasia – una funzione del tempo – diviene il più centrale dei tratti umani. E la fantasia ci ha dato – oltre a tutto il resto – il cinema. Il cinema: l’arte dell’orchestrazione del tempo. Il cinema: l’arma più potente di cui disponiamo per sopportare un presente impossibile.

Potrà sembrare un’idea estrema e semplicistica. Potrà anche parere fuori posto in uno scritto sulle abitudini del pubblico cinematografico. Ma se non cerchiamo le radici profonde del nostro comportamento sociale, non potremo cambiare le tendenze. E la tendenza, al momento, è la perdita dell’individualità, il bisogno di fare ciò che fanno gli altri, il bisogno di essere una formica nel suo formicaio, una pecora nell’ovile.

Una volta deciso che non ci piace quello che potrebbe essere uno sviluppo naturale – e cioè il fatto che la cultura sia un lusso in un’epoca di individualità decrescenti – dobbiamo inventare dei sistemi di sopravvivenza per la nostra cultura individuale, basati su una comprensione dei nostri istinti più profonda di quella che abbiamo avuto in passato. Dobbiamo pensare a chi è l’essere umano, di cosa noi, l’animale umano, abbiamo bisogno per sopravvivere in un ambiente in corso di distruzione. Dobbiamo guardare più a fondo nel nostro passato.

Nel mondo nomade dei nostri antenati avremmo potuto permetterci di essere giudicati dai nostri pari sulla base di chi eravamo. Oggi, in un mondo di possesso, siamo giudicati sulla base di cosa abbiamo. Questa differenza è alla base di tutta l’esperienza sociale moderna. Tutti i nostri incontri quotidiani possono essere in qualche modo definiti da questa dialettica.

Chi al giorno d’oggi non possiede una vasta collezione di film o videocassette? Chi non è tornato a casa dall’india con delle foto del Taj Mahal? Chi è immune dall’illusione dell’indipendenza generata da gadget moderni come la televisione, il computer, le case, i vestiti?

Tutte queste sono solo prove del compromesso di base dei nostri tempi: l’individualità espressa attraverso il possesso. Non esperiamo più i film, li possediamo. Non ci godiamo più la vista del Taj Mahal, ce lo portiamo a casa.

L’auto non ci conferisce uno status sociale perché cambiamo come esseri umani quando la cambiamo, ma perché possediamo i simboli che rappresentano lo status. Compriamo lo status. Industrie da miliardi sono costruite sulla fatale industrializzazione delle emozioni.

Perché diventiamo più rumorosi quando ci troviamo in gruppo? Perché parliamo dei nostri successi, veri o inventati? Perché siamo più disposti a ubriacarci in compagnia e vogliamo sempre che bevano anche i nostri vicini? O che si droghino con noi? O – à la rigeur – che vengano a letto con noi? Perché andiamo in piazza a Locarno senza nemmeno sapere – a volte – che film verrà proiettato? E infine perché non siamo mai veramente felici con quello che abbiamo?

L’etologo – lo scienziato che indaga il comportamento degli animali e applica le sue scoperte all’uomo– ha una semplice risposta a tutte queste domande: avere non è abbastanza. Nel profondo, nonostante le deformazioni di migliaia di anni di valori sconvolti, abbiamo ancora bisogno di essere. E percepiamo il nostro essere in primo luogo essendo accettati dai nostri pari. Per questo parliamo ad alta voce, raccontiamo storie di cui siamo gli eroi, beviamo in compagnia, copuliamo, cerchiamo di esperire la vita sensualmente, di essere in altri termini consci di quanto ci sta attorno e di percepirlo emotivamente. Sensualità è sinonimo di unione.

Naturalmente non andiamo al cinema solo per sfuggire alla solitudine. Ma preferiamo quasi sempre pagare per vedere un film in compagnia piuttosto che prendere la cassetta dalla libreria e vederla da soli. La percezione emotiva è in qualche modo differente. La compagnia fa la differenza. E allora noi vogliamo avere anche questo. Acquistiamo materialmente ciò che bramiamo emotivamente. È così che i nostri istinti di base sono divenuti un grande business.

Ora la fantasia può essere comprata.

La storia non può essere riavvolta come un film, e fermata su un fotogramma. Dovremo probabilmente convivere con mostro che abbiamo creato, a trovare dei modi di utilizzare le nuove energie che la commercializzazione impone. Perché queste energie ci sono, e possono essere manovrate. Una volta accettato il fatto di essere entrati nel commercio delle emozioni, nulla ci può fermare dallo scegliere le emozioni che vogliamo vendere. La salvezza è in questa direzione.

Se insieme alla proiezione di un film noi offriamo qualcosa – qualsiasi cosa – che comunichi la sensazione dell’esistenza, la sensazione di essere vivi, di essere parte di qualcosa di più grande di noi (che è peraltro ciò che fanno le religioni), se convogliamo attorno al film la promessa di un’esperienza sensuale, se creiamo attorno al film un evento basato sulla partecipazione, se l’aura di incontro sociale viene promossa e mantenuta e se stabiliamo questo tipo di visione cinematorafica come lo standard, allora non c’è motivo per cui dovremmo adattarci a usare la mediocrità per dare al pubblico la sensazione di essere al passo con i tempi. Anche la qualità può essere lo standard. È solo che non ci ha mai davvero provato nessuno. Naturalmente non basta dare alla gente Popcorn, hamburger, videogiochi all’entrata e delle poltrone decenti. Ci sono molte teorie su come dovrebbe essere offerto al Nuovo Pubblico. Gli architetti sono al lavoro su un design cinematografico che abbia una nuova dimensione sociale. La ricerca si dà da fare per comprendere il fenomeno e ha dato vita a complessi come il Multiplex, che è già in parte un successo. E naturalmente i cineasti proseguono la loro eterna lotta per scoprire una formula per il cinema di domani. Ma quelle che abbiamo – per il momento – sono buone idee, non risposte definitive.

La mancanza di risposte definitive non significa però che non abbiamo indicazioni circa la direzione in cui dovrebbero trovarsi. Sappiamo che ci deve essere un evento, qualcosa che l’elettronica domestica – anche con una tecnica perfetta – non potrà mai fornire. Sappiamo che ci deve essere una dimensione sociale, anche qui qualcosa che non si può avere nel salotto di casa. Sappiamo che sensualità non vuol dire semplicemente sedersi e accogliere passivamente un’emozione precotta. Sappiamo che la serata non può limitarsi alla proiezione. Sappiamo che dobbiamo comunicare la sensazione di condividere qualcosa, di unirsi attivamente a un gruppo di pari. Sappiamo che la serata deve essere qualcosa di vivo. Che deve essere qualcosa che ci impegni, non che ci faccia sfuggire alla realtà.

Quest’ultima annotazione potrebbe essere la più importante. Il concetto di entertainment su cui sono basate le tecniche di vendita del cinema, è in realtà un semplice sinonimo di mediocrità. Si è dimostrato enormemente remunerativo far sfuggire dal mondo reale le persone e portarle in una sfera di totale rimozione delle loro vite. L’entertainment è giunto a simboleggiare questa rimozione. La mossa successiva è stata la stimatizzazione delle opere che non ci fanno sfuggire alla realtà. Siamo tornati ai primi inventori della fantasia, al conflitto tra istinto e realtà. Ma è stato eliminato tutto ciò che di magnifico la fantasia porta con sé. Dove un tempo la fantasia era alla base dell’individualità, ora è la misura del minimo comun denominatore della nostra mediocrità.

È pericoloso affidarsi solo al film per creare l’evento di una serata. Anche Rambo comunica un senso di unione. Non perché sia un "buon" film, ma perché tutti lo stanno andando a vedere. Potrebbe essere proprio questo il vero segreto del cinema americano. Avere portato il gusto del pubblico a un livello tanto basso e poi avere postulato che questo livello fosse lo standard. Lo standard perché è popolare. Popolare perché è lo standard.

Sarebbe un altro chiodo nella bara dell’individualità se accettassimo l’idea che l’adeguamento a uno standard sia solo un’altra forma d’individualità. Ma è più o meno questo che stiamo facendo.

La mediocrità come standard di vita non è certo un fenomeno limitato al mondo del cinema. Quanto succede per il cinema è solo la punta dell’iceberg di un più ampio declino culturale fenomenologico. Lo stile di vita alla McDonald fa passi da gigante in ogni settore: gli abiti, il cibo, la musica, i comportamenti sociali, la tecnologia, la forma che stanno assumendo i media, l’industria del divertimento, l’etica degli affari, l’arte, l’istruzione, le relazioni familiari, il disprezzo per la storia, la distruzione della natura e la crescente mancanza di rispetto che proviamo per noi stessi.

La nostra identità culturale può essere conservata solo se ricordiamo chi siamo. E se ci rispettiamo per questo. Non siamo in pericolo in quanto spettatori cinematografici, ma in quanto esseri umani.

 

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