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  H a n s U l r i c h O b r i s t
Kara Walker
It's a Museum in Progress Production

 

Kara Walker has been chosen to decorate the iron curtain of the Opera Theater in Vienna. The artist has created a new "theater of cruelty" drawn with silouhettes and built on the detournement of the stereotypes and black imagery from the Civil War.

© Museum in progress

Kara Walker è stata invitata a disegnare il nuovo sipario per l'Opera di Vienna, trasformato in uno schermo sul quale proiettare il suo singolare teatro di silhouette. Un nuovo teatro della crudeltà, che racconta gli stereotipi e le violenze alle quali sono sottoposti i neri americani - un complesso gioco di rimandi e specchi riflessi in cui la violenza della schiavitù, la guerra civile, l'immaginario dei bianchi sono cambiati di segno e sfruttati per celebrare l'esorcismo della segregazione razziale, senza mai rinunciare al ribaldo umorismo e alla pietas che anima tutto il lavoro dell'artista.

Hans Ulrich Obrist:
Cominciamo dall’inizio, come hai iniziato a lavorare con le silhouette?

Kara Walker:
Ho scoperto che la silhouette era la soluzione perfetta per un progetto complesso al quale lavoravo da tempo. Circa sei anni fa avevo iniziato a studiare e snidare i modi sottili e infingardi in cui il razzismo e gli stereotipi sessuali e razziali influenzano la nostra vita quotidiana. Anzi, è più di un’influenza, la nostra vita è quasi una sceneggiatura definita da quegli stereotipi. Queste sceneggiature sono particolarmente evidenti negli Stati Uniti del Sud, dove sono cresciuta e dove sopravvive la nostalgia di un passato romantico e omogeneo, che mantiene ancora tutto il proprio potere, espresso anche in alcune forme d’arte quanto mai infelici: romanzi d’amore, fantasie pornografiche, cartoni animati, vecchie cartoline e album di figurine. Mi interessava il modo in cui i neri, gli Afroamericani se vuoi, reagissero, ignorassero, riconfermassero o dessero nuova forza ad alcuni stereotipi che definiscono me stessa, gli altri neri e – aspetto ancora più interessante – i bianchi, che ancora conservano l’idea della propria superiorità, felicemente dimentichi del potere che la cultura nera ha anche sulle loro vite.
Le mie silhouette sono il modo più conciso per riassumere un’ampia serie di interessi. In primo luogo, le silhouette dimostrano che il mio lavoro è connesso alla "Storia", alle "arti minori" e alla vita quotidiana. In secondo luogo, le ombre riflettono il nostro (o almeno il mio) modo di pensare. In un certo senso si tratta di presentare una sottile forma di diniego dei pensieri "malvagi". Le silhouette sembrano sempre eleganti, gentili e chiare: un po’ come la sofisticata aristocrazia sudista. Infine le figurine mi hanno dato la possibilità di legare una certa bellezza a una specie di lussuria violenta, che a volte è eccessiva, autolesionista e riduce tutto e tutti al nero.

Quindi ogni immagine è una verità circondata da altre verità, ciascuna degna di essere approfondita.

A dire il vero, a prima vista le immagini sono bugie o battute di pessimo gusto, non sono verità immediate. Mi piace pensare che la "verità" delle immagini e della situazioni presentate nei miei lavori si riveli solo quando lo spettatore si ritrova a riempire gli spazi bianchi. Lo spettatore si trova faccia a faccia con le proprie fantasie violente e bizzarre: è costretto a prendere coscienza dei pensieri malvagi che occupano già la sua mente.

Che ruolo ha il tempo nel tuo lavoro?

Mi sono sempre piaciuti quei dipinti storici, con quella loro fiducia nella tradizione e nel genere: le pose atteggiate, un drammatico colpo di vento che frusta una bandiera sgualcita… Come se il tempo si fosse fermato. In un certo senso io penso che le mie immagini povere e ritagliate cerchino di organizzarsi in una composizione storica con quello stesso senso del grandioso; ma nel mio lavoro ci sono sempre dei personaggi inquieti che distruggono la scena con le loro scoregge, i conati di vomiti e la sfiducia nei confronti di una tradizione che non li ha nemmeno mai amati.

Stai cercando di abolire le gerarchie tra i diversi personaggi, così come ci sono state consegnate dal teatro classico?

Nei miei piccoli racconti non troverai mai un protagonista o dei personaggi principali, anche se molti titoli si riferiscono alla presenza di una eroina che chiamo la Negra.

Quali sono le fonti dei tuoi lavori? Dove trovi i soggetti?

Ho fonti diverse. Prima di tutto guardo ai racconti e alle storie sugli schiavi, forme di narrazione che costituivano una tattica politica molto sfruttata dal popolo durante la guerra civile americana. Le vere storie sugli orrori della schiavitù venivano manipolate, trasformate in racconti e autenticate – diciamo così – a vantaggio dei lettori bianchi, nel tentativo di abolire la schiavitù. Spesso i dettagli più ripugnanti (stupri e concupiscenza) venivano limati per non offendere i buoni cristiani.
Guardo anche alle storie pornografiche che si ispirano ai racconti sugli schiavi, cercando di abbellire e rendere leciti i desideri sessuali interraziali. Ma trovo i soggetti per i miei lavori praticamente ovunque, soprattutto nella nuova America del Politicamente Corretto. Stiamo cercando in tutti i modi di cambiare l’atteggiamento che la gente ha nei confronti dei problemi razziali, ma è come se cercassimo di afferrare una viscida anguilla. Ci sfugge sempre qualcosa di schifosamente viscido.
Dieci anni fa c’era una specie di proverbio che veniva stampato su un sacco di magliette: "È una cosa da neri. Non capiresti" diceva. Queste idee mi hanno insegnato un nuovo modo di pensare, perché naturalmente quella maglietta si riferiva a un interlocutore che non fosse di colore. Cosa significa quella frase se, come me, sei nera eppure non capisci il messaggio? Questo atteggiamento riassume tutte le idee che sono generalmente collegate ai neri: il nero come essere incomprensibile, caotico, un mistero, in un parola, qualcosa che rimane irrimediabilmente Altro. Di conseguenza qualsiasi cosa può diventare una fonte per il mio lavoro: qualsiasi cosa riguardi il nostro essere neri, la nostra Afroamericanità – un termine che per me ha una risonanza storica, perché significa "I negri nel corso della storia delle Americhe". Tutto può finire nel mio lavoro: dagli spettacoli prototrasgressivi di Josephine Baker a ciò che vedo per strada, dalle mie esperienze di meticciato (abbellite o semplicemente trascritte) fino alle ragioni che spingono alla scelta di un fotomodello nero per lanciare il Bianco come nuovo colore per l’autunno.
Spesso riprendo anche materiali storici, come le canzoni dei cantastorie con le loro illustrazioni dipinte su lenzuoli e pannelli. Illustrazioni che documentano la vita durante la schiavitù, ma anche i cartelloni che annunciavano la vendita di donne e bambini.

Mi puoi parlare dei tuoi disegni? Che relazione hanno con le composizioni più grandi su parete? Sono dei bozzetti?

Molti dei miei disegni sono direttamente collegati ai lavori su parete: sono un modo per fissare uno o più temi, e servono per concentrare le idee. C’è una serie di disegni, una specie di work in progress, intitolata Negress Notes: si evolve seguendo una necessità interna. Piccoli acquerelli quasi improvvisati, con personaggi che quasi sempre richiamano la storia dei neri nell’arte occidentale.

Vorrei capire come è avvenuto il passaggio da questi personaggi alle silhouette riprodotte sui muri?

La prima volta in cui ho fatto uscire le silhouette dalle cornici dei dipinti è stato in occasione della mia prima personale a New York, al Drawing Center. Prima di allora non avevo né lo spazio né le conoscenze tecniche per fissare definitivamente al muro le figure. La pittura è un oggetto che implica un sistema chiuso e, con lavori narrativi come i miei, la cornice rappresenta la fine della storia: ecco qui lo schiavo e lì il padrone, uno è vittima, l’altro il malvagio. Ed eccoci già alla fine.

La scala dei tuoi lavori cerca di mettersi in relazione con la presenza fisica dello spettatore?

Ho sempre cercato di realizzare opere che circondassero lo spettatore, per costringere il visitatore in una relazione scomoda con quel tipo di immaginario che rimette in discussione tutte le nostre convinzioni culturali più sofisticate e fasulle. I lavori su parete potrebbero benissimo scivolare sul pavimento, fuori dalla porta, fino al soffitto: è una narrazione che potrebbe continuare all’infinito. Proprio come la Storia.

E che ruolo ha lo spettatore? Quale lavoro gli spetta?

La negazione dei gesti più spietati, così come è celebrata dalla silhouette, invita lo spettatore a scoprire cosa accade nell’immagine. Queste forme nere sono come dei test di Rorscharch: gli spettatori a volte si mostrano a disagio e accampano strane interpretazioni delle immagini.

Quando hai iniziato a lavorare con le silhouette hai detto che immaginavi di riunirle in una specie di diorama, in un ciclorama. Hai ancora intenzione di sviluppare uno spazio simile?

Per la mia mostra al Walker Art Center di Minneapolis avevo scelto un titolo lunghissimo, con il quale descrivere il mio ciclorama: "Schiavitù! Schiavitù! Un grandioso e realistico viaggio nel mondo pittoresco della schiavitù, ovvero, signori e signore, ‘La Vita nella Buon Vecchia Virginia (disegni e schizzi dalla vita delle piantagioni)’. Signori e signore, venite ad ammirare la curiosa istituzione della schiavitù, sotto una nuova luce! Tutte le immagini sono state ritagliate in un preziosa carta nera: ammirate la straordinaria abilità di Kara Elizabeth Walker, una negra emancipata e un leader della Causa".
Il ciclorama risale all’anno scorso: lavorare in un ambiente circolare è stato incredibilmente eccitante. L’ho creato in meno di una settimana, quindi non era dettagliato quanto un vero ciclorama, eppure è stata un’esperienza incredibile. Sono riuscita a includere tantissime scene diverse: schiavi in fuga, una piazza e una misteriosa palude stile America del Sud, ma anche molte scenette di schiavi felici. Adoro il tono populista di questa forma d’arte del Diciottesimo secolo. E soprattutto mi piace quella chiarezza precinematica che animava le immagini, dando vita ai quadri storici e rendendoli comprensibili anche alla gente comune. A New Bedford, Massachusetts, nel museo Whaling, sono conservati alcuni frammenti dei ciclorami. I cartelloni che li pubblicizzavano erano stracolmi di proclami altisonanti sulla vita e la morte, mentre le immagini erano curiosamente pulite, quasi comiche nella loro semplicità, come se le avesse dipinte qualcuno che non fosse riuscito a interpretare il dramma della propria esperienza. Mi sono identificata in questo atteggiamento.

Passiamo ora al tuo progetto per la cortina di ferro dell’Opera di Vienna. Che effetto ha avuto la città sul tuo lavoro? Quali elementi sono entrati nei tuoi disegni? Il contesto del teatro ha influenzato il tuo lavoro? Come hai utilizzato i colori della cortina di ferro che fa da sfondo alle tue silhouette?

Ho preparato almeno quattrocento schizzi per ridisegnare la cortina di ferro: idee che ho rimesso in discussione centinaia di volte. Sono stata spesso in Germania, mentre in Austria ho passato solo una breve e piovosa vacanza. Cercare di capire quella specie di silenzio culturale che ha avvolto l’impero Ottomano è molto diverso dal crescere in una cultura, sapendo esattamente chi sei, quale spazio occupi, e quale immagine gli altri hanno di te. Così ho deciso di fare ciò che avrebbe fatto qualsiasi altro turista di colore: cercare segni che parlassero di me e mettere insieme gli stereotipi che inquadrano l’idea di Mensch. La prima domanda che mi sono posta è stata "Perché ci sono così tanti schiavi neri che offrono caffè in Germania?". C’è forse una battuta simile al detto americano "Prendo il caffè come le mie donne. Nero e dolce"? E poi è impossibile evitare una prospettiva storica in Germania e in Austria. Chi può permettersi di ignorare l’influenza che il nazismo ha avuto sulla classificazione, l’ibridizzazione e la cancellazione di qualsiasi etnia che fosse Altra? Tutti ti trattano con un’attenzione un po’ troppo studiata. E da parte mia provo sempre una certa trepidazione ad affrontare alcuni argomenti in Germania, perché questo non è il mio posto.
Nel disegno che ho realizzato per il sipario dell’opera di Vienna c’è un’immagine rubata all’Entartete Musik, quella dell’"ebreo nero". È un dettaglio molto interessante secondo me, perché punta il dito sui recenti scontri tra neri americani ed ebrei, che in passato avevano condiviso l’interesse per i diritti umani e avevano condiviso una storia di oppressione. Oggi abbiamo sette nere che rivendicano di essere i "veri ebrei" e accusano gli altri ebrei di essere impostori.
Ho inserito l’immagine dell’ebreo per costruire un contrasto con la musica divina di Orfeo, mentre la sua Euridice si allontana per assaggiare quello strano e seducente chicco di caffè, offertole dall’immancabile nero. E poi ho ridotto la mia americanissima percezione dell’Austria a un semplicissimo ibrido: un misto tra Heidi e la morte. È quel personaggio, molto melenso e sentimentale, che imbraccia una falce, in cima a una collina, sullo sfondo.

Quali sono gli artisti che ti interessano di più? E quali scrittori ti piacciono?

Tra gli artisti storici mi interessano Goya, Daumier, Gericault, Wilehlm Busch per certi versi, ma anche Caravaggio. Tra i contemporanei guardo con interesse al lavoro di John Currin, Robert Colescott, Raymond Pettibon, Adrian Piper e Kerry James Marshall. Ma è un insieme molto elastico, sempre in movimento: tutti questi artisti però condividono una qualche forma di struttura narrativa.
Mi interessa molto anche il lavoro drammaturgico di Suzan-Lori Parks, anche se purtroppo mi sono persa la messa in scena di Venus l’anno scorso. Parks riesce a incastrare la storia con la psicopatologia, gli stereotipi razziali con il desiderio. Toni Morrison ha avuto un influenza diretta sul mio lavoro, sin dall’inizio. Adoro anche le opere di Salman Rushdie e ho una relazione di amore e odio con Faulkner perché ogni volta in cui cerco di leggerlo sono costretta a fare i conti con la mia ignoranza della lingua inglese.

I nuovi media e Internet hanno influenzato il tuo lavoro? Qual è il tuo sito preferito?

No, Internet non è ancora entrata nel mio lavoro. Al momento ascolto più che altro la radio, soprattutto un programma che si chiama This American Life, a metà tra il documentario e la fiction. È un programma geniale, divertente e molto intelligente. E i produttori hanno creato anche un sito internet, più che altro d’appoggio al programma radio, ma spero che in futuro riescano ad arricchire anche lo spazio web, con collegamenti e materiali audiovisivi.

 

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