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H e r m a n o V i a n n a
Melting pot

 

Il mistero del samba di Hermano Vianna è un'indagine di antropologia musicale sulle origini e le funzioni politico-sociali della musica nel continente amazzonico. Trax offre ai suoi lettori un estratto del capitolo dedicato ai rapporti tra Stati Uniti e Brasile nella percezione del meticciaggio musicale.

Il mistero del samba by Hermano Vianna is an anthropological research into the perception of popular music in Brasil and US. The book is published by Costa & Nolan

© Hermano Vianna & Costa&Nolan

Vorrei fare qui una breve comparazione tra Brasile e Stati Uniti per quanto riguarda le relazioni élite/cultura popolare all'inizio di questo secolo. Tale paragone, anche se superficiale, è importante, perché suggerisce nuovi dati per futuri studi sulle differenti versioni dell'attitudine razziale/culturale nei due paesi, un ramo comparativo che ha prodotto innumerevoli dibattiti. Inoltre, questi dati possono inquadrare meglio il pensiero del giovane Gilberto Freyre, tanto influenzato dal contatto con il pensiero nordamericano.

Gli Stati Uniti potrebbero aver adottato, anche se non ufficialmente, una politica di omogeneizzazione razziale come quella del Brasile (dopo il 1930). La possibilità di questa scelta fu discussa da alcuni intellettuali, politici, artisti e altri membri dell'élite statunitense. Gli argomenti erano simili a quelli utilizzati dai gruppi brasiliani equivalenti. Durante i primi decenni di questo secolo, un intenso dibattito nordamericano mise in relazione concetti come razza, meticciaggio, nazionalismo, regionalismo, cultura popolare (e principalmente musica popolare, dato che in questo periodo stavano emergendo generi come il jazz, il folk e il country, come abbiamo visto), folclore, modernità e unità della patria.

Nello scambio di idee, non sempre cordiale, erano coinvolti nomi ben distinti come quello di Theodore Roosevelt, Franz Boas, Malcolm Cowley, Alfred Stieglitz, Ezra Pound, Constance Rourke, Edith Wharton, Zora Neale Hurston, Henry James e tanti altri. In quest'epoca, l'espressione melting pot, usata per designare la mistura di razze che caratterizzava la cultura nordamericana non era politicamente scorretta. Tutto il contrario: l'ideale di un’amalgama di razze che è implicito nel melting pot quasi giunse ad essere un esempio di correttezza politica. Per lo meno sembrava che questa fosse l'intenzione del presidente Theodore Roosevelt (repubblicano, formatosi ad Harvard, e uno dei due idoli del giovane Gilberto Freyre). Il 5 ottobre del 1908, assistendo al Columbia Theater di Washington DC al dibattito della pièce Melting Pot (che non creò, ma popolarizzò l'espressione), scritta e inscenata da Israel Zangwill, durante gli applausi Roosevelt avrebbe gridato dal suo palco: "Questo è un grande spettacolo, Mr. Zangwill, è un grande spettacolo!".

Poco dopo scrisse per Zangwil1: "Non so quando ho mai visto uno spettacolo che mi abbia tanto eccitato".

Cosa piacque tanto a Roosevelt? Vediamo: l'intreccio era semplice, sembrava un poco come quello del film West Side Story, e trattava dei problemi di immigrazione e dei preconcetti razziali, religiosi e culturali per mezzo della storia d'amore ambientata a New York tra due giovani russi, un ebreo e una cristiana.

Zangwill, discendente di ebrei russi, nato in Inghilterra, sposato con una cristiana inglese, difendeva la formazione di un nuovo americano a partire dall'unione (anche sessuale, dato che si tratta di una storia con conclusione felice) di tutte le differenze. Roosevelt, un critico di quello che venne poi conosciuto come hyphenated Americanism, affermava che ci sono americani e basta, e si riconobbe nell'ottimismo omogeneizzatore di Zangwill.

Melting Pot, lo spettacolo, ebbe grande successo. Rimase tre mesi in cartellone a Chicago e fu rappresentato 136 volte a New York. II suo testo era lettura obbligatoria nelle scuole e nelle università. II libro fu riedito per lo meno una volta all'anno finché gli Stati Uniti entrarono nella prima guerra mondiale, nel 1917. Questi numeri dimostrano l'interesse che l'argomento riscuoteva tra gli americani nel periodo immediatamente anteriore all'arrivo di Gilberto Freyre in quel paese.

Prima che questa situazione si verificasse, nulla indicava che, all'inizio degli anni Settanta, l'espressione melting pot sarebbe stata condannata da gran parte della società nordamericana, e che questa condanna sarebbe potuta essere ufficializzata nell'Ethnic Heritage Studies Programs Act nel 1972, da patre del presidente Nixon. II senatore Roman L. Pwcinski (democratico, Polish-American), uno dei principali nomi dietro l'approvazione della legge (fu chairman del General Subcommittee of the House of Committee on Education and Labour) dichiarò: "Trovo francamente ripugnante tutta la dottrina del melting pot. Io non voglio essere dissolto [to melt = dissolvere] in un monolite". Non è difficile percepire le somiglianze tra questo tipo di dichiarazione e i discorsi "antilusobrasiliani" che tanto irritarono Gilberto Freyre.

Nel 1908, anno del debutto di Melting Pot, Franz Boas pubblicò Race Problems in America, articolo nel quale attaccava gli intellettuali che vedevano nel meticciaggio nordamericano i sintomi di una degenerazione, e mostrava come questo problema (compresa la condanna delle misture razziali) fosse rilevante per gli Stati Uniti di quell'epoca. Boas diceva: "Frequentemente si sostiene che il fenomeno di mescolamento presente negli Usa è unico, che una simile mistura non si è mai verificata prima nella storia del mondo".

Contro questi argomenti, tentava di distruggere il mito secondo cui le nazioni europee sarebbero state pure, concludendo contro gli "avvocati della teoria della degradazione". Boas discute direttamente il problema dei neri nordamericani, che sembravano costituire il gruppo etnico più preoccupante per gli autori eugenisti, che condannavano il meticciaggio e prevedevano un futuro degenerato per gli Usa. In un altro articolo, pubblicato poco prima del precedente, e intitolato Changing The Racial Attitudes of White Americans, Boas aveva difeso i neri usando, tra gli altri, il seguente argomento: "l'evidenza delle conquiste culturali dei neri in Africa indica che la loro inventività, il potere delle loro organizzazioni politiche e la loro fermezza di intenzioni eguagliano e forse superano quelli delle altre razze in stadi simili della cultura". Questa relativizzazione non significava l'abbandono di determinati dibattiti, che prendevano in considerazione preoccupazioni biologiche: "Non credo che il nero sia, nella sua composizione fisica e mentale, uguale agli europei. Le differenze anatomiche sono così grandi che le differenze mentali corrispondenti sono plausibili".

Dobbiamo ricordare che queste parole furono scritte in un'epoca posteriore di più di un decennio rispetto ai testi, oggi considerati classici, come Limitacoes do método comparativo em antropologia, del 1896, che criticavano i presupposti più cari all'evoluzionismo antropologico. Pur avendo già formulato buona parte delle sue rivoluzionarie idee relativiste, questo non impedisce a Boas di arrivare ad ammettere una differenza tra il cervello dei bianchi e dei neri nei termini seguenti: "la grandezza leggermente inferiore, e forse la minor complessità di struttura del cervello dei neri". Nonostante questo, il nero non sarebbe inferiore al bianco, e neppure il mulatto. Boas propone anche la creazione di un African Institute, per studiare la cultura dei nordamericani e il loro passato africano, e una ricerca che dia priorità allo studio del meticciato. II lavoro di Gilberto Freyre era ben inquadrato nelle preoccupazioni centrali del suo maestro della Columbia.

Secondo Lewis Perry, nel suo libro Intellectual Life in America, fino alla seconda metà degli anni Dieci le idee relativiste di Franz Boas rimasero conosciute appena da un circolo ristretto di discepoli. A partire da questa data il lavoro di Boas cominciò a influenzare grande parte dell'accademia nordamericana, e i suoi allievi iniziarono la pubblicazione di libri e articoli, risvegliando l'attenzione di un pubblico ampio, come avvenne nei decenni Venti e Trenta, con il lancio di Coming of Age in Samoa di Margareth Mead, nel 1928, e di Patterns of Culture di Ruth Benedict, nel 1934. L’antropologia cominciava a essere identificata come un'autocritica dell'Occidente, che spesso cercava la salvezza nell'Altro, che fosse l'adolescente di Samoa o l'esquimese dell'Isola di Baffin. La cultura delle società industrializzate era considerata competitiva, in contrasto con la cultura cooperativa dei primitivi (Benedict), o spuria, in opposizione alla genuina tradizionalità, come sembra in Culture, Genuine and Spurious, un articolo molto influente di Edward Sapir. Anche il folclore è considerato genuino. Sapir, in una visita al Museo Nazionale del Canada, tra il 1910 e il 1925 (dopo aver ottenuto il PhD presso la Columbia University), raccolse canzoni folcloriche francocanadesi, giungendo a pubblicare un libro con il risultato di questa ricerca. Quel che sembrava esser fuori dal campo della genuinità era la cultura urbana e industriale.

Le critiche degli antropologi si aggiungevano alle critiche moderniste alla cultura occidentale. Gli Stati Uniti vivevano le prime manifestazioni di "spirito moderno", come l'esposizione dell’Armory Show, nel 1913, o la vita bohemien del Greenwich Village (che Gilberto Freyre frequentò). I modernisti nordamericani, secondo Michael Kammen (nel libro The Mystic Chords of Memory) si dividevano, schematicamente, in due grandi correnti: i nazionalisti, generalmente elitisti, come Alfred Stieglitz, Frank Lloyd Wright ed Ezra Pound (favorevoli all'unificazione della cultura nordamericana), e regionalisti, che manifestavano interesse per la definizione del nazionale attraverso la cultura popolare e esaltavano la diversità etnica.

La posizione regionalista guadagnò terreno alla fine degli anni Venti, proprio quando l'influenza di Boas si fece maggiormente notare nel panorama intellettuale nordamericano. Michael Kammen giunge a dire che "questo modello ci permette di delineare quel che equivale a un mutamento di paradigma che ha luogo tra due generazioni", e che nell'antropologia si poteva rappresentare nel passaggio da Frazer a Boas.

Molti intellettuali e artisti nordamericani stavano tornando negli Stati Uniti dopo un esiio volontario in Europa. E tornavano con un interesse rinnovato per la cultura nordamericana. Constance Rourke, che fu influenzata da Boas, al ritorno ebbe un ruolo fondamentale nell'incentivare gli studi folcloristici, e difese la posizione secondo cui la cultura popolare dovrebbe essere trattata con il medesimo rispetto che si riconosce alla cultura classica. Questo è il periodo della riscoperta dell'America da parte degli intellettuali statunitensi. Riscoperta che diede inizio alla pubblicazione di innumerevoli libri con la trascrizione di leggende nordamericane di varia derivazione (indiane, nere, bianche eccetera), oltre che alla realizzazione di festival del folclore.

Gli Stati Uniti del 1930 già avevano un’industria culturale sviluppata, capace di consolidare la sua egemonia in tutto il mondo (ciò che avvenne realmente dopo la seconda guerra mondiale). Il jazz fu, tra le nuove musiche americane, quella che meglio seppe utilizzare la possibilità della nascente massificazione culturale per ampliare la sua influenza in tutto il pianeta, e tra l'altro anche tra i sambisti brasiliani, prendendo il posto della polka o del valzer nella preferenza dei ballerini.

Il boom economico attraverso il quale gli Usa passarono nell'ultima parte del secolo era evidente. Nel 1895 le esportazioni giungevano a ottocento milioni di dollari, nel 1914 questo numero doveva essere portato a due miliardi e trecento milioni di dollari. I nordamericani furono pionieri nella produzione di massa e anche nelle strategie di mercato.

C'è un mistero nella storia del jazz, simile a quello della storia del samba (esclusa la trasformazione del jazz in musica nazionale, chiaramente). Secondo James Lincoln Colver, nel suo Reception of Jazz in America, un altro mito domina questa storia. Tale mito tenta di affermare che "il popolo americano, fino a un'epoca relativamente recente, ignorò o disprezzò il jazz, che nei primi anni fu la musica dei ghetti neri". Colver aggiunge: "Non sono riuscito a trovare, nei commenti sul jazz pubblicati dopo l'anno 1940, una sola affermazione secondo cui il jazz sarebbe stato ampiamente popolare negli Usa prima di una data recente". Un testo importante sulla difficoltà dell'élite nordamericana nell'accettare il jazz è Traditionalist Opposition to Jazz di Leonard Nell. Come esempio di questa opposizione, Nell cita principalmente articoli di giornale, o di riviste specializzate, firmate da amanti e critici della musica classica, come il pianista Ashley Petters, o di Walter R. Spalding, docente di musica ad Harvard. Sembra ovvio che queste persone si sentissero obbligate a ripudiare il jazz, usando i criteri di legittimazione di un'opera d'arte inventati nel loro mondo artistico, che valorizzava, tra le altre cose, l'educazione formale dei musicisti. Ma estendere queste opinioni a tutta l'élite o anche solo a tutti i bianchi nordamericani, conduce a vari errori di interpretazione. Ed è anche piuttosto problematico considerare le idee pubblicate nei giornali dell'epoca come rappresentative di quel che i bianchi americani pensavano del jazz.

È possibile citare vari fatti e tante altre opinioni che mettono in dubbio le generalizzazioni del mito del jazz. Martin Laforce e James Drake, in Popular Culture and American Life, considerano "l'interazione di bianchi e neri negli interstizi della cultura americana, lontano dai centri del potere o della cultura popolare, un elemento importante nella storia del jazz". Per questi autori, l'interazione bianchi/neri diviene possibile nella periferia della cultura popolare. Ma come differenziare i centri di potere della periferia della cultura popolare, dato che questi territori sono in costante e rapida mutazione? Colver mostra come queste interazioni si verificarono in tutti i luoghi, lontano o vicino rispetto ai transitori centri del potere. Per esempio, i cabaret Black-and-tan o Dance halls dei primi anni del secolo erano frequentati da molti bianchi; a New Orleans, bianchi ricchi ascoltavano il jazz fin dall'inizio, portando i primi jazzisti a suonare in club esclusivi come il New Orleans Country Club o alla Tulane University (dove studiavano soltanto bianchi); nel 1916 gruppi musicali formati da soli bianchi suonavano a Chicago (è bene ricordare che il termine jazz appare la prima volta sulla stampa nel 1913); il "Jornal de Folclore Americano", negli anni Dieci pubblica articoli sulla musica nera nordamericana e nel 1917 William Morrison Patters, professore della Colombia, già scriveva sul jazz nella rivista "Literary Digest". Una conclusione di Colver è la seguente: "l'evidenza mostra che gli oppositori erano una minoranza, e forse una piccola minoranza".

Il mito dell'impopolarità del jazz ai suoi primordi nell'America del Nord, e la storia parallela del rispetto con cui l'Europa accolse questo stile musicale già negli anni Venti, è conservato anche dai jazzisti. Così come ai sambisti brasiliani, anche ai musicisti del jazz sembra interessare una narrazione nella quale si stabilisce una radice pura della loro musica fin dal principio della Storia. È un mito utile (non dico che sia falso o vero) per coloro che apprezzano tanto l'autenticità e l'anticommercialità e desiderano coltivare un'immagine di maledettismo artistico. Un'immagine che, senza dubbio, ha uno spazio nobile nell'industria culturale.

 

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