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  J e a n C l a u d e C a r r i è r e
Cinema 900
intervista di Philippe Nourry

 

Jean Claude Carrière, grande scrittore e collaboratore di registi come Buñuel e Peter Brook, tira le fila di un secolo di cinema tra l'America e l'Europa.

Jean Claude Carrière, great writer also known for his work with masters like Buñuel and Peter Brook, talks about a century of cinema, between America and Europe, authors and industry.

© Ministero degli Esteri francese

Cent’anni di produzione cinematografica: e lo specifico qual è?

È ovvio: per la prima volta nella storia un secolo morente è riuscito a mantenere in vita le immagini e – in seguito – i suoni del proprio tempo! Una rivoluzione fantastica! Te lo immagini cosa sarebbe stata la nostra conoscenza del passato se il cinematografo fosse stato inventato due o tre secoli prima?

La rivoluzione ha mantenuto tutte le sue promesse?

Lo shock è stato tale che negli anni Venti il cinema smise di essere una pura forma d’intrattenimento, con Abel Gance in Francia, Fritz Lang in Germania e Ejzenstejn in Russia. I surrealisti dicevano che questa nuova forma d’arte avrebbe rimpiazzato tutte le altre, a partire dal teatro. Il fatto è che il cinema non ha ucciso il teatro più di quanto i dischi abbiano ucciso i concerti o le edizioni d’arte abbiano trasformato le gallerie deserti. I film – anche se li proietti in Omnimax – soffrono delle limitazioni di qualsiasi riproduzione meccanica, svuotata di una presenza reale. Ma anche se non è diventata la "forma d’arte totale", il cinema – almeno in Europa – è rimasta una delle forme d’arte più interessanti.

Perché in Europa?

Il mio non è un attacco al cinema americano. Produce lavori di grande valore, ma il concetto non è lo stesso. Siamo noi che consideriamo capolavori i film di Hollywood, e non gli americani! In America il film è un prodotto commerciale, punto e basta. Il vero autore è il produttore, non lo sceneggiatore o il regista.
Questa tradizione anglosassone del "copyright", che ritiene che il proprietario dei diritti su un’opera sia l’editore e non il creatore è precedente di più d’un secolo al nostro concetto francese di diritto d’autore, che garantisce a quest’ultimo – oltre a un valore patrimoniale perfettamente alienabile – un diritto morale non trasferibile sul proprio lavoro.
Questa è la nostra posizione, nata nel XVIII secolo con Beaumarchais, difesa da Victor Hugo e infine affermata alla Convenzione Internazionale di Berna, cent’anni fa. Ma gli Stati Uniti, per dire, non hanno mai ratificato questo "diritto morale".

Quindi ci sono due approcci al cinema, oggi? Uno francese e uno americano?

Sì, due "modelli". Uno, quello americano, è strettamente commerciale ed è quello che consente a Hollywood di realizzare così tanti remake. È pura logica commerciale, fai a pezzi il giocattolo e lo rimetti insieme, anche se si rischia di rifare sempre la stessa cosa. Il modello europeo, quello francese, riguarda un cinema più vicino ai suoi autori, il che spiega perché Orson Welles finì per realizzare i suoi film in Spagna o in Francia. Un certo numero di film stranieri – da Ran di Kurosawa a Yeelen di Souleymane Cissé, sono legalmente considerati prodotti "francesi". Se non fosse esistita una possibilità del genere, film del genere non sarebbero mai arrivati nelle sale! In Francia abbiamo anche la fortuna di mantenere un buon livello produttivo, ma sono le sfide economiche a mettere in pericolo la sopravvivenza stessa di questo modello.

Il guanto è stato lanciato… cosa ne pensi di una serie di regole accettabili per entrambe le parti?

Ci sono centinaia di trucchetti che proteggono il mercato interno degli Stati Uniti. È superprotetto, mentre in Francia – e in generale in Europa – non esistono limitazioni all’importazione di film americani. Per lo meno da parte nostra – per quanto riguarda le sale cinematografiche – non c’è nessuna guerra commerciale. Quando alle riunioni del GATT si parla di "eccezione culturale", la cosa non riguarda solo la televisione. Il sistema per quote è tutt’altro che soddisfacente. Ma con il moltiplicarsi dei canali privati e il fatto che mettano in onda serie televisive acquistate per quattro soldi negli Stati Uniti anziché incorrere nei proibitivi costi di produzione in patria, il conflitto è giunto al punto di ebollizione.
L’Italia, che non ha mai visto l’arrivo del "cavallo di Troia", ha per il momento assassinato la propria industria cinematografica. Anche la Germania ha dovuto soffrire di un rapporto negativo tra cinema e televisione. La sua politica malthusiana – come quella della Danimarca – diceva qualcosa del tipo: riserviamo le nostre risorse produttive a pochi film di elevata qualità. Con alle spalle la propria grande tradizione, la Francia è riuscita a non rinunciare a una gran parte dei propri stilemi produttivi. Siamo riusciti a sopravvivere e a volte a vincere la battaglia, perché possiamo produrre allo stesso tempo il Cyrano de Bergerac di Jean-Paul Rappeneau, I visitatori di Jean-Marie Poiré e La Belle noiseuse di Jacques Rivette. Ma altri paesi, come la Grecia e il Portogallo per citare solo quelli più vicini, non hanno semplicemente i mezzi per fare qualcosa del genere. Sono lì lì per perdere ogni possibilità di raccontare le proprie storie e sono già oggi immersi in un paesaggio al 90% americani, che non ha nulla a che fare con il loro.

Ma il vero problema è culturale?

Sì, ed è anche più serio di quanto non sembri a prima vista. Un’immagine non è mai innocente. È il veicolo di un mondo che spazia dalla consunzione materiale all’intelletto. Io credo che una nazione incapace di riconoscersi nella fiction che nel XXI secolo le verrà offerta, scomparirà da un punto di vista culturale. Per quanto riguarda i produttori americani di questo cinema "globale" che vorrebbero imporre a tutto il mondo, anche loro avranno un prezzo da pagare. Tutto ciò che vedono è la loro produzione. Come reagiremmo noi se tutto ciò che potessimo vedere fossero film francesi?

 

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