Vai alla homepage who's who scrivi a trax

 

 

K n u t M o r k
Architetti o worldbuilder?

intervista con Marcos Novak

 

Marcos Novak - architetto, artista e musicista - sviluppa algoritmi matematici per costruire spazi virtuali, ibridi e intelligenti. È impegnato in una ricerca sugli spazi non euclidei nel laboratorio virtuale che ha creato alla Architecture School of the University of Texas e alla UCLA, dove insegna.

Knut Mork è un autore di software e artista elettronico, vive a Oslo ed è stato tra i fondatori della rivista di cultura telematica Alt-X.

Marcos Novak is an architect, a musician and and artist. He uses algorithms to generate electronic non-euclidean worlds and avatars. Novak teaches at UCLA and has a virtual lab at the School of Architecture of the University of Texas.

Knut Mork is an internationally exhibiting media artist and software engineer based in Oslo, Norway. His previous works experiment with the construction of synaesthetic experiences. He is alternately completely unknown, or recognized as one of the most promising talents in the media art scene. Solve et Coagula, was developed and first shown at the Centre for Culture and Communication in Budapest, and was later exhibited at the Ars Electronica Festival '97. The earlier installation se nse:less was exhibited at the 5th International Istanbul Biennial. He was also one of the co-founders and original site designer for Alt-X.

© Knut Mork & Trax

La prima volta che incontrai Marcos Novak, alla conferenza Cybersphere di Stoccolma nell'ottobre 1994, non è che sapessi molto di architettura. A dire la verità non avevo mai sentito nominare Novak prima d'allora. E avevo fatto male. Marcos Novak definisce i suoi lavori come «architetture liquide e musiche navigabili» e la strana sensazione di sgomento che li pervade è certamente all'altezza della definizione. Per creare le sue architetture utilizza algoritmi informatici all'origine concepiti per comporre partiture musicali: ne escono architetture a quattro dimensioni che si muovono nello spazio mutando colori e forme. E queste singolari strutture fluidoleviataniche intonano al contempo delle melodie, melodie controllate dai movimenti di chi capita in quegli spazi.

Nel tuo saggio Scrittura automatizzata, scrittura automatica: poetiche del cyberspazio passi in rassegna le differenti possibilità che si pongono a un'arte basata su algoritmi tecnici. Per quanto riguarda la musica molte cose basate su algoritmi sono già entrate nella vita del grande pubblico: la techno, l'ambient, la musica industriale sono tutte molto programmate. Si direbbe che gli algoritmi vengano perlopiù utilizzati per creare una monotonia.

Ho sempre cercato di non addossare i miei limiti (o quelli di qualcun altro) sulle spalle del mondo. Il fatto che non riusciamo a fare qualcosa vuole soltanto dire che manchiamo di immaginazione. Sarebbe criminale estendere questa nostra mancanza all'eternità, sostenendo che dato che noi abbiamo fallito, lo stesso dovrà necessariamente accadere a chiunque altro. Immagino che prima o poi qualcuno riesca a risolvere quello che per me era un problema inestricabile. Per iniziare a rispondere alla tua domanda, mi pare ci siano anche molti casi in cui gli algoritmi hanno prodotto la più vasta delle varietà. Il mondo stesso, per quello che ne so, è il risultato di un immenso e ricchissimo processo algoritmico.
Alla radice dell'ignoranza sta sempre la tendenza a negare qualsiasi cosa non sia di immediata evidenza. Il meno che possiamo fare è resistere a questo impulso e pensare due volte prima di parlare, ti pare?

Alla conferenza di Stoccolma hai fatto alcune domande al pubblico, e adesso vorrei fartene rimbalzare addosso una. «Com'è una frase intelligente?»

Una frase intelligente deve essere come un lettore intelligente, deve reinterpretare costantemente l'intero testo a ogni nuova parola che viene aggiunta. Ogni aggiunta al testo deve alterare una quantità di modelli interni e ipotetici di ciò che significa ogni frase e - in fin dei conti - l'intero testo. Questa continua reinterpretazione è un atto "proiettivo", e cioè qualcosa che non riguarda tanto la corrispondenza con la "verità" del testo (che è comunque assente o intangibile) quanto piuttosto la costruzione di "verità possibili" basate sul contesto. Il minimo cambiamento nell'espressione si propaga lungo tutto il testo e lo riscrive.
Il motivo per cui ho posto questa domanda al pubblico è che la volevo usare come ponte verso una questione più ampia, quella degli "ambienti intelligenti". Credo sia più facile elaborare una risposta su cosa sia una frase intelligente, e quindi ho chiesto al pubblico di farlo. Una volta che si è afferrato il senso che potrebbe assumere il termine "intelligente" riferito a un testo, si è anche stabilito un punto di partenza per affrontare la difficile questione degli ambienti intelligenti. Quando penso a questi argomenti mi vengono sempre in mente i cambiamenti che i miei amici fanno all'ambiente che mi circonda, per accogliermi, per farmi piacere, per sorprendermi, ingannarmi, proteggermi eccetera. Queste operazioni vanno ben aldilà di quello che possono fare - anche secondo i tecnomani più ottimisti - i più raffinati termostati, i più intelligenti marchingegni a microonde e i videotelefoni più sofisticati. L'intelligenza che serve per questo è multimodale, aniticipatoria, deve prendere l'iniziativa e cambiare direzione sulla base di sottilissimi indizi. Il problema di base è ovviamente il fatto che noi non capiamo ancora abbastanza bene come funzioni la nostra intelligenza.

E quando si tratta di entrare in rapporto con intelligenze tanto altre rispetto alla nostra da essere inavvicinabili senza abbandonare ogni preconcetto? Penso per esempio ai testi generati con tecniche combinatorie. Ce n'è uno che si intitola Rubber Blue Biodegradable Robot che è del tutto inintelleggibile - nel senso più tradizionale del termine - e si propone al lettore come se fosse stato prodotto da una società tanto distante nel futuro da renderci impossibile ogni comprensione. Capire la nostra intelligenza è una cosa, reagire a intelligenze che non capiamo è un'altra.

Ho lavorato sul significato degli ambienti intelligenti e mi sono ritrovato anche io davanti a questa domanda. Mi ricorda molto Solaris di Stanislaw Lem, l'idea di un intero pianeta come un'unica creatura intelligente. Cerca di comunicare, ma la distanza tra questo essere e gli umani è assolutamente insormontabile. Se la comunicazione si fonda sull'esistenza di un terreno comune, allora è evidente come a un certo livello di "distanza" questa venga a cadere. Ma esiste un'altra possibilità. I testi scritti, i film, i suoni digitali, tutto ciò che prevede il sampling dimostra come le nostre menti possano mettere insieme diverse immagini e ricostruire un'animazione, udire suoni distinti e farne un continuum musicale, focalizzarsi su una serie di lettere e trarne delle parole eccetera. La nostra intelligenza si basa sulla capacità della mente di costruire ponti sul vuoto, di zigzagare allegramente in territori alieni. Spesso basta qualche punto in comune, perché l'intelligenza possa fare la sua parte.

Brian Eno (citato in un tuo saggio) dice «Io sono il mare della permutazione, vivo oltre l'interpretazione.» Di recente ho scritto una cosa, una specie di bozza per una poesia che si può sviluppare in varie direzioni proprio mentre la leggi. Un lettore mi ha detto: «È una schifezza. Non ti prendi nessuna responsabilità.» C'è qualcosa nella scrittura automatica (o automatizzata) che può portare l'arte fuori dalle grinfie dell'interpretazione?

Il commento del tuo lettore ci dice qualcosa più sui suoi limiti che su quelli del tuo scritto. Come mi è già capitato di dire, io penso che il significato sia per lo più una proiezione: il lettore è la fonte di luce, e se questa fonte è opaca non si riuscirà a vedere molto. L'autore è il costruttore di schermi molto speciali, superriflettenti, schermi che permettono alle sfumature più sottili di essere non solo riflesse, ma addirittura amplificate e chiarite. Se lo schermo è ben costruito e il lettore non riesce a vedere nulla, è a lui che manca la luce. D'altro canto se la luce del lettore è forte, anche lo schermo più opaco rifletterà qualcosa. C'è molto da dire, ovviamente, sulla qualità dello schermo. È proprio di questo che parlano le poetiche: come creare degli schermi perfetti.

Quando si naviga tra le forme curve del tuo Dancing with a Virtual Dervish, tu dici che «con un dataglove (i guanti-mouse utilizzati per la realtà virtuale, N.d.R.) si ha la distinta sensazione di accarezzare il corpo di un'amante.» Sembra un'idea molto popolare. Sadie Plant ha dichiarato che il ciberspazio è un mondo essenzialmente tattile.

Se lo si confronta con la tecnologia delle interfacce attuali, il ciberspazio è estremamente fisico. Essere dentro l'informazione significa che tutti i nostri corpi (e non solo la punta delle dita) vi sono immersi. È difficile far capire qualcosa del genere a persone che non hanno ancora provato le prime, rozze esperienze ciberspaziali.
La cosa affascinante in questa nuova fisicità è la possibilità letterale (anche se virtuale) di toccare idee e concetti astratti, che in passato erano considerati intangibili. Il termine che io uso, «dis/incarnazione» ha assolutamente a che fare con questa nuova capacità di incarnare, o re-incarnare in una nuova forma, ciò che prima era fuori della portata delle nostre mani.

Questa idea della dis/incarnazione va molto di moda, oggi. Parlamene un po'. Ha delle implicazione interessanti: viene da pensare ai cyborg, anche se in questo caso non stiamo aggiungendo delle parti artificiali ai nostro corpi, ma vi stiamo piuttosto sottraendo qualcosa.

Mi ha fatto piacere vedere come un sacco di gente abbia preso da me il modo di scrivere «dis/incarnazione». La slash è molto importante perché chiarisce come non vi sia un vero stato di disincarnazione, ma solo stati alternativi di incarnazione in media più o meno solidi. Anche se il media si dimostra totalmente informativo, vi sarebbe comunque una qualche forma di incarnazione, l'invarianza della struttura relazionale di cui siamo fatti. La disincarnazione, senza la slash, è la morte, la dissoluzione, la disintegrazione. Con la slash è metamorfosi, trasporto, reincarnazione. In ogni caso i componenti dell'incarnazione continuano a esistere, ma in uno si conserva la firma del sé, mentre nell'altro va perduta.
Visto che hai tirato in ballo i cyborg, lascia che ti dica che tutti noi, che siamo venuti in contatto con la tecnologia, siamo già dei cyborg. Non credo che a questa cosa possa sfuggire nessuno di noi, e nemmeno ci riusciranno i figli dei nostri figli. I nostri computer potranno andare e venire, ma noi saremo sempre accompagnati da qualche genere di macchiario elettronico. La cosa curiosa è che la nostra "firma informativa" è già stata alterata.

Paul Virilio ha scritto un libro sull'architettura/archeologia dei vecchi bunker antinucleari che, a causa del loro peso immane, stanno lentamente affondando nel paesaggio. Una rivista (adesso non ricordo quale) ha pubblicato delle foto di spazi normalmente inaccessibili: l'interno di serbatoi idrici e cose del genere. La loro monumentale solitudine mi ricorda in qualche modo il tuo Dancing with a Virtual Dervish. Tu crei dei costrutti massicci e bellissimi nella realtà virtuale, ma non c'è dentro nessuno. I tuoi spazi virtuali sembrano… non voglio dire inutili… ma inutilizzabili.

È una questione complessa. Intanto era proprio quello che volevo, comunicare direttamente attraverso il nuovo mezzo della realtà virtuale senza una narrazione, senza linearità, senza una struttura teleologica. Per me le stanze di Virtual Dervish sono archimusicali e comunicano esattamente come se fossero un accordo musicale. La musica che io amo è inutilizzabile. La musica che si può usare è una musica da poco.
Detto questo, c'è il fatto che io mi vedo un po' come un creatore di mondi e mi interessa creare dei mondi ricchi, interessanti, provocatori. La gente, nel mondo "reale", si fa invariabilmente gli affari suoi. L'inutilizzabilità dei miei mondi è un'affermazione politica sulla natura della libertà.
I mondi reali hanno una loro esistenza che non dipende dalla nostra volontà. Possiamo allontanarci da un temporale, ma non farlo smettere. Questa indipendenza, ostinata ma interattiva, fa sì che vengano ideati scopi e utilizzi, per noi e per chi li vuole condividere, ma senza che questi siano impositivi e totalizzanti.
Quando si costruisce uno spazio del genere, la solitudine è proprio l'aspetto più interessante, proprio come nella musica di John Cage il silenzio e la noia sono dei sentieri che conducono alla lucidità e alla libertà. Per capirlo bisogna vedere le reazioni di chi entra nei mondi dervisci: chi ha potuto esplorarli senza i limiti di tempo delle solite presentazioni pubbliche, vi è rimasto per delle ore. Michael Heim c'è stato due ore e mezza di seguito; quando è uscito gli ho chiesto quanto tempo pensava di essere rimasto dentro. «Quindici minuti?» mi ha chiesto.
Il sottotitolo di questo lavoro è Worlds in Progress, il che suggerisce l'intenzione di continuare a inventare nuovi mondi e nuovi aspetti della loro natura digitale. Quelli che ho realizzato finora sono ancora mondi molto semplici , se comparati a quelli che immagino: voglio aggiungere ancora molte cose, molta interattività. Non credo che molto di tutto ciò sarà utile nel senso letterale del termine.

Be', dopotutto l'arte non è che debba essere particolarmente utile, no? Avendo una storia personale di scrittore e poeta, sono particolarmente interessato alle possibilità della realtà virtuale di comunicare idee non narrative. Mi incuriosiva anche quello che dicevi sulla pochezza della musica utilizzabile. Cosa intendevi dire, esattamente?

Per quanto noi siamo imbevuti di pensiero postmoderno, poststrutturalista e postapocalittico, ci sono ancora nell'aria idee tipo «la forma dipende dalla funzione». La mia formazione di architetto mi rende particolarmente attento e vigile nei confronti di ogni funzionalismo. Quando dico che «la musica che si può usare è una musica da poco» intendo puntare il dito su quelle etichette da due soldi tipo «musica per…», «edifici per…», «stanze per…» eccetera. A parte la «musica per aeroporti» di Eno e qualche altra cosa. Quando penso a tutto ciò che ammiro, mi accorgo che l'eccesso e la sovrabbondanza sono sempre in testa alla classifica, e l'utilità e la comodità sono dei semplici accessori.

Adesso parliamo di ciò che ancora manca ai tuoi mondi virtuali.

Ci sarebbero molti esempi. Una delle prime cose che voglio fare è introdurre delle finestre che da dentro i mondi virtuali guardino verso il mondo fisico. Voglio collegare i mondi tra loro in modo che si possano incrociare contemporaneamente diversi livelli di realtà. TransTerraFirma, il dis/incarnamento derviscio successivo, collega due postazioni Onyx in due città differenti e un video nutre i mondi virtuali con immagini prese dalle immediate vicinanze delle persone all'interno delle stanze virtuali, dalla città collegata in remoto e da videospazi compositi. Allo stesso tempo delle proiezioni a tempo dei mondi virtuali alterano lo spazio fisico delle installazioni.
Poi sto cercando di dare agli algoritmi musicali un maggiore controllo sugli eventi e sugli agenti virtuali. Le attività all'interno dei mondi saranno gestite da algoritmi compositivi, che creeranno delle musiche ma al tempo stesso dirigeranno il comportamento degli agenti, degli oggetti e delle atmosfere interattive. Quando la persona all'interno del mondo interagisce con queste nuove entità, si avvia un loop di risposta.
E poi sono affascinato dall'idea degli "spazi intelligenti". Gli spazi in sé stessi devono diventare attivi. Sto cercando delle geometrie alternative e sto costruendo dei modelli di spazi non euclidei e non prospettici.

Al contrario di quello letterario e di quello musicale, l'ambiente dell'architettura è molto accademico. Che cosa si dice del lavoro tuo e degli altri "architetti liquidi"? Che critiche vi vengono rivolte?

Mi dispiace dirlo, ma l'architettura è molto lenta nel recepire le novità. Però bisogno dire che esistono due architetture, quella delle soluzioni e quella dell'eccesso. Le soluzioni producono edifici, l'eccesso produce architetture. Non è una questione di spese folli, ma di visione e generosità. Gli architetti dell'eccesso sono sempre stati tra i più grandi visionari dei loro tempi. Il problema è che viviamo in un mondo in cui le soluzioni pratiche sovrastano gli eccessi e la generosità. Ho dovuto combattere contro questo per tutta la vita e non mi aspetto che le cose cambino. Mi basta mantenermi aperto e agile.
Le critiche sono perlopiù prevedibili e banali, del tipo «questa non è architettura.» Vale però la pena di notare che queste critiche non cambiano mai: le stesse paure vengono espresse migliaia e migliaia di volte, cambia solo il nome del nemico. La paura della progettazione tramite supporti elettronici è stata rimpiazzata dalla paura del ciberspazio, ma la retorica è la stessa. Se avessi qualche altro secolo da vivere, mi metterei a scrivere una storia di queste paure. Sarebbe estremamente noiosa e ripetitiva.

Ci sono altri architetti, o musicisti o magari anche scrittori a cui ti senti particolarmente vicino, o che ti abbiano ispirato?

Certo. Sarebbe una lista sterminata, ma te ne posso citare alcuni a caso. Borges, Paz, Cage, Deleuze e Guattari, Gaudi, Leibniz, Hafez, Picasso, Lao-Tzu, Ernst, Tzara, Klee, Xenakis, Cavafis, debord, Eraclito, Lucrezio, Nietzsche, Spengler, Lorca, Leonardo, tesla, Dali, Matta, Galileo, Cohen, Schlemmer, Ghandi, Rumi e molti altri. Nella lista potrebbero rientrare anche molti contemporanei. E poi i miei russi! Kandinsky, Malevich, Tatlin, El Lissitsky, Dostoevskij. E ancora Duchamp, Broodthaers, Roussel, Varese, Kurt Schwitters, Calvino e poi naturalmente McLuhan e Beuys, Babbage…

Jeffrey Shaw ha predetto uno spostamento dell'arte dalle periferie al centro del discorso, grazie alle autostrade digitali. Non sarà proprio il centro del discorso che se ne sta scivolando via lasciando uno spazio vuoto che l'arte possa reclamare?

Ho lavorato su un sito web che si chiama CENTRiFUGE, con l'aiuto dell'Advanced Design Research Group dell'università di Austin. Io lo vedo come un sancta sanctorum delle architetture sperimentali, al tempo stesso un centro e una fuga. Sono contento di constatare che sia tu sia Jeffrey Shaw abbiate a cuore il tema della reciprocità del centro e della periferia. Per come la vedo io l'arte è sempre stata al centro del discorso, ma in passato lo era per implicazione. Se il centro richiede un equilibrio, allora quell'equilibrio si può ottenere in due modi: uno statico e uno dinamico. Un cadavere e un funambolo sono tutti e due in equilibrio, ma uno è decisamente più vivo dell'altro. L'arte sfida il centro bilanciando gli estremi dell'esperienza. Il discorso non sempre osa seguirla, e spesso gioca a fare il morto.
Il tuo commento solleva poi la questione del panopticon. Mentre l'arte una volta si espandeva attorno a un centro abbastanza definito, ora è proprio il centro a farsi più disperso e difficile da localizzare. Questa transterritorialità non significa che i centri non esistano, ma solo che oggi li si può localizzare solo stocasticamente, come il centro di uno sciame di api. È una situazione eccitante, visto che unisce le tendenze centripete del discorso agli elementi centrifughi dell'arte creando delle realtà configurate in modo strano e provocatorio.

Nel saggio sulle Poetiche del ciberspazio, tu sottolinei il conflitto tra la dissoluzione del pensiero categorico e la rapidissima diffusione dei computer, una macchina in linea di principio estremamente categorica. Affermi che non si tratta di un semplice problema di software, ma di una «grande sfida all'essenza dell'umanità stessa.» Di che genere di sfida stiamo parlando?

Il nostro mondo sembra essere costruito su un'infinita alternanza di regolarità e libertà. Ci sono regole dappertutto, ma potrebbe anche trattarsi di attributi accidentali, di pattern che si adattano ad altri pattern per puro caso. Le categorie in cui ci imbattiamo, sono fenomeni emergenti, come noi stessi.
Noi siamo al tempo stesso macchine da trasgressione e automi preordinati. Mentre il mondo fisico procede per iati (quelli che Lucrezio chiamava clinamen), noi stabiliamo qualcosa di equivalente alla trasgressione attraverso un'associazione poetica (e con questo intento generativa) di elementi dissimili. Mettiamo insieme ciò che non avrebbe dovuto stare insieme, e poi costruiamo ponti di plausibilità che colleghino ciò che è sconnesso.

Il termine panopticon incombe come uno spettro sulla realtà virtuale da anni, senza che mai si riesca a darne una chiara definizione.

Mille miliardi di anni fa, in uno dei miei taccuini, ho scritto che noi cerchiamo di catturare la verità con un retino, come se fosse una farfalla, senza mai fermarci a pensare che potrebbe invece assomigliare di più all'aria in cui quella farfalla fluttua. Forse è meglio che il panopticon non sia mai definito in modo rigido. Visto che si tratta di qualcosa che ha a che fare con l'ubiquità, meglio che non atterri da nessuna parte. Io questo termine lo uso in contrapposizione all'utilizzo che ne fa Jeremy Bentham. Il panopticon, o la condizione di centralizzazione e sorveglianza, ha caratterizzato l'era che abbiamo vissuto: il nostro non è un tempo di centri di potere e di visioni radianti; è un tempo di diffusione in campi di sensori ubiqui. Tutti sono sempre contemporaneamente dappertutto. Borges lo spiegò nell'Aleph, McLuhan con la distinzione tra spazio ottico e spazio acustico, Attali ne parla in Noise e Cage ne fece musica con Roaratorio. Parlare del panopticon come problema architettonico ha una particolare utilità, perché tiene l'arte ancorata con maggiore forza allo spazio, al tempo e alla specificità dei suoi estremi opposti.

Si fa un gran parlare della collocazione sociale e politica di queste nuove forme d'arte. Alcuni preferiscono lasciare cadere la questione, altri invece ne fanno una specie di bandiera. Il movimento Avant-Pop è molto attento al sociale; in architettura il lavoro di persone come Lebbeus Woods è esplicitamente politico (Woods dice: «L'architettura è un atto politico»). Tu come la metti?

La poesia è guerra. Per me queste quattro parole vogliono dire molto, anche se non pretendo certo di farlo capire a tutti. Però posso dire che ogni azione è politica, non in un senso brutalmente letterale ma piuttosto nelle fibre profonde del suo essere. Ogni azione è un microscopico esercizio nella visione di mondi alternativi. I nostri costrutti e le nostre interazioni incarnano valori e implicano ordini sociali, che ne siamo coscienti o meno.
Nella nostra società si può fare tutto ciò che si vuole, basta metterlo nella gabbia giusta, che si chiami galleria, performance, installazione. Anche il più innocuo e innocente degli sforzi di superare questo sistema di categorizzazioni e di confrontarsi con la realtà incontra invariabilmente una tenacissima resistenza. Sia quella resistenza che l'opposizione a essa sono politiche. Si può anche fare una specie di prova del 9: cerca una cosa che sia ben accetta entro dei limiti definiti, preferibilmente qualcosa di buono, per rendere la prova ancora più chiara; replica questa cosa in una situazione posta al di fuori di quei limiti, siediti e stai a sentire come tutti gli allarmi iniziano a suonare. L'ampiezza della risposta sarà un indicatore accuratissimo del grado di realtà a cui sei giunto.

Ti ho sentito parlare della necessità per gli scrittori di oggi di creare un nuovo linguaggio che si contrapponga al rumore di fondo della TV, della posta spazzatura ecc. In che direzioni si dovranno indirizzare da un punto di vista tematico i nuovi creatori di arte per conseguire questa reinvenzione?

Il rumore di fondo a cui ti riferivi è interminabile ma molto povero di contenuti. Credo che un buon punto di partenza stia nel pensare in termini di infinito: tutto ciò che abbiamo provato fino a oggi è assolutamente trascurabile se comparato a ciò che deve ancora venire; tutto ciò che ci sta attorno potrebbe essere differente. L'esplorazione libera delle possibilità è l'attività più eccitante e vitale che io conosca. E in più nel fare questo capita pure di imbattersi in modi migliori di organizzare le nostre vite personali e sociali.
Prova a immaginare che tutto ciò che conosciamo stia dentro un cerchio. La maggior parte della gente se ne sta attorno al centro del cerchio. Qualcuno si spinge fino ai suoi margini, e pochissimi camminano in bilico sul confine tra ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo. Ancora meno sono quelli che stanno per un po' su quel margine, poi prendono un bel respiro e fanno un passo verso l'abisso. È un momento di supremo sconforto, ma anche di gioia suprema. In quell'istante accade qualcosa di magico: il cerchio di ciò che sappiamo diviene un poco più grande e tutti guadagnano un po' di spazio attorno a loro, sia i timidi sia i coraggiosi.

È anche vero però che gli artisti hanno grosse difficoltà: la società ha una grande abilità nel chiudere gli occhi e negare i limiti di quel cerchio. Tu puoi riportare dall'abisso gli oggetti più incredibili e nessuno batterà ciglio: una cosa è cambiare ciò che la gente vede in TV, un'altra è portarli via dal divano davanti allo schermo.

Non so se sia mai stato davvero diverso. In ogni epoca un numero limitato di persone discuteva in termini avanzati di ciò che si conosceva, mentre la maggioranza continuava a vivere nell'ignoranza. Credo che la percentuale di persone dentro il cerchio sia stata più o meno la stessa in tutte le epoche. Lamentarsi della società dello spettacolo come di una malattia sociale contemporanea vuol dire dimenticarsi quello che i Romani dicevano di panem et circenses, o pizza e televisione, se preferisci.
In fondo non è che mi interessi portare via la gente da davanti lo schermo della TV con la forza, e nemmeno cercare troppo di convincerli, perché anche la persuasione è una forma di forza. Credo ci siano molte cose sbagliate al mondo, ma il meglio che possiamo fare è agire con integrità e lasciare che sia il nostro esempio a parlare. In altre parole, per tornare alla metafora del cerchio, noi tentiamo tutti di aumentare la dimensione frattale della sua circonferenza, di rendere infinitamente lungo il confine sull'abisso e di azzerare l'area all'interno del cerchio, l'ignoranza.

È affascinante vedere in quante direzioni diverse ci si stia dirigendo. Tu costruisci una nuova architettura fluida disegnata per il ciberspazio. Qualche giorno fa partecipavo a un dibattito alla Oslo Architectural Society, aperto dall'intervento di un giovane architetto. Il suo intervento era un attacco a quella che indicava (abbastanza vagamente) come Avanguardia, che accusava di dissolversi in una serie di astrazione scombinate che nessun uomo della strada avrebbe potuto comprendere. Predicava un ritorno a quelli che (con la stessa vaghezza) chiamava valori classici: presumibilmente il senso di unità e monumentalità che dominava il periodo Classico. Sembrava essere contrario a tutto ciò per cui tu stai lavorando. Si trattava solo di paura dell'ignoto?

Be', non posso certo parlare di qualcuno che nemmeno conosco, ma è un atteggiamento che mi è capitato di dover affrontare molto spesso. Evocare le possibilità di comprensione dell'uomo della strada sembrerebbe essere una presa di posizione antielitaria, ma in realtà è solo enormemente paternalistica: la gente spesso riesce a vedere ben più lontano di questi accademici condiscendenti.

 

  Vai alla homepage who's who scrivi a trax