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M a r k D e r y
Intervista a Mike Davis

 

Mike Davis is the rival show of postmodernity: instead of celebrating the shiny surface of Los Angeles, Davis is imagining a concrete version of the city of the future, torn by political and ethno struggles. In this interview with Mark Dery, Davis traces the tradition of distopia from Metropolis to Blade Runner and beyond.

© Mark Dery

Secondo Mike Davis la superficie lucida di Los Angeles, quella che gli intellettuali postmoderni amano definire "il presente senza profondità", altro non è che una specie di specchietto retrovisore, nel quale Davis vede riflesse le trasformazioni storiche di Los Angeles, congelata nel mito popolare della terra promessa baciata dal sole, secondo l’immagine diffusa dai baroni del mercato immobiliare e da altri personaggi dai dubbi interessi. D’altra parte Davis ricostruisce anche l’incubo della città ritratta dagli antimiti della scrittura noir di James M. Cain, dai saggi di Joan Didion e dal postnoir di James Ellroy.
"Il significato storico di Los Angeles - e la sua peculiarità - consiste nell’essere riuscita a impersonare agli occhi del mondo intero il duplice ruolo di utopia e distopia del capitalismo avanzato" ha scritto Davis in City of Quartz: Excavating the Future in Los Angeles. "Lo stesso luogo, come ha notato Brecht, finisce con il simboleggiare sia il paradiso sia l’inferno. E allo stesso tempo rappresenta la destinazione dell’itinerario di qualsiasi intellettuale del tardo XX secolo, che prima o poi deve venire a dare un’occhiata a Los Angeles per decidere se la città ‘tiene insieme tutto’ (slogan ufficiale) o se invece rappresenti l’incubo al capolinea della storia americana (così come è ritratto dalla letteratura noir)".
Ma Davis lavora anche sulla città che Umberto Eco, Jean Baudrillard e altri turisti-teorici leggono come un brillante miraggio di simulacri, una sfera di cristallo - una città di quarzo in cui però Davis scorge nuvole minacciose che si stagliano sull’orizzonte del nostro futuro. In City of Quartz si prende gioco della critica postmoderna più prona, che riduce L.A. a Hollywood, a Disneyland e al Bonaventure Hotel, quella stessa critica che legge la città "come una gigantesca sceneggiatura, un film in perenne movimento" (Baudrillard) - apoteosi del falso, del narcisismo, dell’edonismo e del desiderio dilaniante. Con la stessa acribia Davis smonta la critica che immagina Los Angeles come una distopia da architetti radicali vagamente romantici, alla Blade Runner, dimostrando come questa visione trasformi "la storia in teleologia, incensando la stessa realtà che si propone di decostruire". Entrambe le analisi trascurano la realtà sociale e le cause storiche, osserva Davis.
Californiano di cinquantun anni, marxista impenitente, insegnante di urbanistica al Southern California Institute of Architecture, Davis ha scavato tra i miti sedimentati di quella che il critico Michael Sorkin ha definito "la città più mediatica d’America", riportando alla luce il nocciolo storico più duro e freddo. "Se c’è un cliché che volevo smantellare", ha detto a un critico del Los Angeles Times, "è quello dell’inconsistenza di Los Angeles". Oltre a essere un raro ibrido - attivista intellettuale, storico impeccabile e narratore di talento con un incontrollabile tocco ironico - Davis è un autore arrabbiato con una passione smodata per la conoscenza: ogni parola di City of Quartz sembra intagliata in un bagno d’acido. William Gibson, che nei ringraziamenti del suo romanzo Virtual Light cita l’influenza di Davis, ha definito la sua opera "più cyberpunk di qualsiasi opera di finzione". Quindi dimenticatevi Baudrillard e tutti gli altri scrittori affettati che cercano di imitarlo: eccitati dai vapori della teoria pura, trascurano completamente la grigia realtà umana che si cela dietro l’iperrealtà. Per questi scrittori, come osserva Davis, "ciò che un tempo era motivo di angoscia è oggi motivo di divertimento". I lavori di Davis - da City of Quartz a Ecology of Fear, passando per i brevi dispacci dalle prime linee, L.A. was just the Beginning. Urban Revolt in the United States: A Thousand Points of Light e Beyond Blade Runner: Urban Control/The Ecology of Fear - aprono finalmente una via di fuga dalla retorica della pura teoria.
Scavando nel passato, Davis riporta in superficie le forze del mercato e la pianificazione sociale che ha trasformato Los Angeles in ciò che è oggi: un polipo megapolitano che striscia fuori da Virtual Light di Gibson - una città economicamente ed ecologicamente moribonda, inferocita dalla polarizzazione sociale e dalle tensioni razziali che hanno creato un terreno fertile per criminalizzare le persone di colore, i giovani e i senza tetto. E ancora: un corpo di polizia brutale e sul punto di trasformarsi in un vero e proprio esercito, una sistematica operazione di privatizzazione degli spazi pubblici e la proliferazione di enclave suburbane fortificate con aiuole e prati infestati da segnali che promettono allarmi e ritorsioni armate.
Nell’ultima pagina di Beyond Blade Runner Davis si chiede: "L’ecologia della paura diventerà l’ordine naturale della città americana del XXI secolo?". Per Davis non si tratta certo di una previsione auspicabile. "Se permettiamo ancora alle nostre città di trasformarsi in un Terzo Mondo criminalizzato" scrive, "tutta l’ingegnosa tecnologia di sicurezza, quella presente e passata, non riuscirà a salvaguardare la pavida classe media. E il frastuono della prima autobomba su Rodeo Drive o davanti alla City Hall ci sveglierà dai nostri brutti sogni, mettendoci faccia a faccia con l’incubo della realtà".

 

Mark Dery
In City of Quartz, hai elaborato una critica pungente dell’estasi cinica e apolitica del postmoderno, citando un giornalista del L.A. Weekly che ha notato quanto Baudrillard "ami assistere alla liquidazione della cultura e alla fuga dalla profondità". Allo stesso tempo le tue descrizioni alla Orwell degli elicotteri della polizia di Los Angeles e delle comunità blindate hanno sedotto e influenzato William Gibson e il suo Virtual Light. Hai mai provato la sensazione di essere sul punto di soccombere a quello stesso orrore sublime che tanto intriga Baudrillard?

Mike Davis
In effetti è piuttosto difficile resistere allo spettacolo. In parte una delle conseguenze della rivolta del 1992 è che tutti sono fieri di aver provato il gusto della rivoluzione: grazie alle immagini rubate dalle telecamere di Sammy a Fairfax e Beverly, chiunque in città si crede una specie di sopravvissuto, un duro da guerriglia urbana. È nata così una nuova forma di grandioso melodramma, un senso di pericolo che naturalmente è completamente dissociato dalla povertà quotidiana, dai tagli sull’assistenza e dall’incredibile monotonia della vita metropolitana in cui vive la maggior parte degli abitanti di Los Angeles.
In realtà non so veramente cosa significhi la postmodernità. Ma so che viviamo in un’età postliberale e postriformista in cui si è completamente arrestata qualsiasi forma di riorganizzazione urbanistica radicale e in cui le idee liberali degli anni Sessanta sembrano quasi rasentare un tono rivoluzionario se vengono paragonate alle posizioni politiche di oggi. Ciò che viene riciclato come postmoderno è semplicemente una versione pessimista del marxismo della Scuola di Francoforte, ringiovanito con qualche idea interessante sui nuovi media e le tecnologie. Ma L’uomo a una dimensione è ancora al centro del dibattito, la sua figura si staglia ancora all’orizzonte: la scomparsa postmoderna della soggettività critica è Marcuse allo stato puro.
Quindi, siamo davvero a una stadio ulteriore, oltre il moderno? Oppure assistiamo alla decadenza continua di un modernismo privo di qualsiasi ansia di riforma e di speranza? In altre parole, come il governo ha insistito più volte con una chiarezza ammirevole e allarmante, negli ultimi anni i dibattiti sul budget della California si sono trasformati in dibattiti sul futuro, un futuro in cui i settori pubblici sono progressivamente ridotti, un futuro ad accesso limitato per un’intera generazione di bambini, immigranti e persone di colore. L’ironia è che le corporazioni che sostengono il governo stanno distruggendo l’intera matrice istituzionale che ha fatto della California il centro economico mondiale della scienza e della tecnologia. I tagli del budget, con il loro impatto immediato sulle cittadine della California del sud, sono molto più dannosi di qualsiasi rivolta urbana. Qui si sta parlando di un taglio di un miliardo di dollari che vengono sottratti ai programmi pubblici e che corrispondono a 15.000 posti di lavoro persi nelle comunità nere: un vero e proprio disastro.
In questo momento, proprio quando i bisogni continuano a crescere, le città più grandi degli Stati Uniti stanno ridimensionando non solo gli impegni a breve termine, ma anche quelli a lungo termine. E naturalmente si può andare oltre: Detroit e Michigan dimostrano che si può abolire l’idea stessa di sicurezza pubblica, annullando qualsiasi controllo.

Thomas Hine, nel suo libro Facing Tomorrow: What the Future Has Been, What the Future Can Be, suggerisce che il modo in cui abbiamo "rinunciato" al futuro, concependolo solo come un panorama cinico e caricaturale, è un segno di rigor mortis culturale. Anche tu credi che si sia caduti così in basso?

No, ma ho paura di essere caduto nella mia stessa trappola perché anch’io ho approfittato molto di alcune visioni apocalittiche. In realtà ci sono due visioni, due realtà che si affrontano nel cuore di questa città. Da una parte c’è un livello di inumanità che viene accettato come naturale, riportandoci ai giorni più oscuri del XVIII secolo. Ma allo stesso tempo a Los Angeles è ancora possibile trovare i migliori quartieri per la classe operaia. La domenica al parco è ancora un’esperienza rigenerante e divertente; la gente non ha ancora dimenticato cosa sia la buona qualità della vita.
Una delle cose per le quali credo valga la pena di lottare, sia quando insegno sia con le mie opere più politiche, è l’immagine nostalgica della California del sud di trent’anni fa: la libertà delle sue spiagge, i ragazzini a fare le vasche in strada e quella specie di eterna adolescenza che per un po’ è sembrata una soluzione possibile in questo stato. Guardando il passato scopri che negli anni Cinquanta e Sessanta si sono conquistati incredibili vantaggi per l’infanzia e l’adolescenza grazie a investimenti sociali considerevoli e grazie alla libertà concessa ai ragazzi. Ora, non voglio farne un’età dell’oro (ad esempio, non lo è stata per tutti i ragazzi di colore), ma è comunque un’immagine che deve essere difesa, soprattutto in un’epoca oscura come la nostra, in cui l’unica libertà concessa ai ragazzini è quella di consumare. Il municipio di Santa Monica si è interrogato a lungo sulla possibilità di introdurre un coprifuoco nella bellissima e nuovissima Third Street: alla fine hanno deciso che dopo il tramonto l’unica attività legale per un adolescente è lo shopping.

D’altra parte è ormai un luogo comune che l’estetica da centro commerciale abbia infestato l’intera concezione urbanistica e del design.

Certo, anche se voglio puntualizzare che la commercializzazione dello spazio pubblico non parte dallo stesso atteggiamento marcusiano, in cui la coscienza critica e il soggetto ribelle vengono zittiti dal dolce sapore del consumo intossicato. In realtà ciò che succede è che vengono create nuove forme di criminalità, costringendo la gente – in particolare i ragazzi – a vivere in spazi pseudopubblici, quindi nei centri commerciali. L’unica attività giovanile legale è il consumo, che spinge tutta una serie di comportamenti adolescenziali normali nel territorio della marginalità.
Qualche giorno fa ho letto sul Orange County Register una descrizione di come a Irvine – l’ultima generazione delle comunità utopiche disegnate a tavolino – si siano sviluppate delle patologie giovanili simili a quelle dei ghetti, semplicemente perché non sono stati previsti spazi per le relazioni sociali degli adolescenti: non ci sono luoghi in cui possono stare, senza violare la legge. I parchi vengono chiusi durante la notte, i ragazzi non possono uscire di sera e così via. E perciò ottieni questi atti di violenza a prima vista inspiegabili e assolutamente casuali.

Insomma una posizione molto lontana dal romanticismo wagneriano delle metropoli noir alla Blade Runner.

E che ovviamente mette in luce i limiti della visione di Blade Runner. Ciò di cui abbiamo bisogno adesso è il rigore – preciso e per nulla utopico – di un futuro realistico. Estrapolando ciò che già esiste, William Gibson ci presenta l’immagine più precisa della parte più oscura del futuro che ci stiamo costruendo; mentre Blade Runner resta un romanzo gotico. Non ti dice nulla sul modo in cui L.A. apparirà davvero nel XXI secolo: questa città in realtà è un insieme di distese piatte e anonime di bungalow, villette e case in stile ranch, imbottite di prodotti a media densità.
Blade Runner è un pastiche e basta scavare sotto la superficie per scoprire che la sua visione è identica a quella di Metropolis, che a sua volta risale a Hugh Ferris: è l’ossessione continua del modernismo, in cui il futuro è una specie di New York mostruosa. Probabilmente si potrebbe risalire fino a The Future in America che H. G. Wells scrisse nel 1906: per ricostruire la fine del XX secolo Wells utilizza una metodologia basata su un processo di gigantismo. È questa l’idea che soggiace al modo in cui immaginiamo il futuro — con i grattacieli alti un chilometro e le macchine della polizia che svolazzano in aria: la fedeltà con cui Blade Runner ripropone questa visione contrasta radicalmente con l’immaginario di Gibson.

In ultima analisi Blade Runner è un’opera retrofuturista, una nostalgia di un domani obsoleto.

Sì, e in questo contesto si inserisce — non so esattamente come — tutto il culto della tecnologia morta, il culto della deindustrializzazione che a Los Angeles, specialmente nel West Side, è di gran moda. La gente il cui lavoro giornaliero non ha niente a che fare con la produzione di beni adora circondarsi di gigantesche apparecchiature e macchinari obsoleti. I relitti e il ciarpame della vecchia era industriale sono diventati il nostro ambiente: i ristoranti, le librerie e le birrerie del West Side esibiscono almeno qualche dettaglio di arredamento che risale all’epoca industriale, come tante macchine del tempo che ti riportano alla seconda età dell’industrializzazione. Ed è proprio perché siamo arrivati alla deindustrializzazione che tutto questo ciarpame è diventato una specie di rovina pregiata. Questi oggetti stanno alla nostra cultura come il paesaggio medievale stava al Romanticismo.

Per usare le parole di McLuhan in The Medium is the Massage: "Guardiamo il presente attraverso uno specchietto retrovisore".

Sì, ma c’è anche uno strano senso di nostalgia che non riesco ancora a spiegare ma che di certo è collegato all’idea che non ci sia più possibile produrre niente che sia interessante quanto i prodotti obsoleti circondati dalla loro aura. Uno degli aspetti che trovo più interessanti dell’architettura contemporanea di Los Angeles è la nascita di una specie di tecnoBarocco: un eccesso di decorazione che in superficie cita motivi industriali. L’era informatica e il microprocessore non hanno prodotto una propria estetica: non esiste una versione contemporanea del Deco aerodinamico anni Trenta. È difficile trovare un’analogia tra le nuove tecnologie rivoluzionarie e la forma della città. D’altra parte se guardi al lavoro di artisti come Robert Irwin — che scolpisce uno spazio quasi Zen, usando luci, riflessi e rifrazioni —, puoi farti un’idea di un’estetica austera fondata sul microchip, sulla creazione di nuovi spazi effimeri. È sempre bellissimo attraversare in auto Dallas di notte, perché le luci dei grattacieli sono organizzate per giocare le une con le altre, in uno spettacolo di light-show.

Sembra una metafora architettonica delle luci intermittenti di Daniel Hillis o del datascape di Gibson.

È l’estetica microelettronica, quella degli eventi transitori ed effimeri: si esprime soprattutto di notte nelle città. Città che giocano con la luce, luci che giocano tra loro, evocando sogni e immagini galleggianti, producendo un’infinità di miraggi. Uno dei modelli di riferimento è L’impero dei segni, l’interpretazione del Giappone di Barthes, o le pubblicità di Blade Runner che galleggiano come nuvole nella città. Ci sono molte soluzioni sulle quali lavorare, ma non conosco nessun artista che ci abbia provato seriamente.

La commercializzazione dello spazio pubblico — di cui parlavamo pochi minuti fa — avviene sempre più spesso attraverso la trasformazione della realtà in un parco giochi. Cosa pensi di City Walk, la nuova e adorabile creazione degli Universal Studios, la ricostruzione di una L.A. che non è mai esistita?

City Walk è il momento in cui Baudrillard dà un bel tiro al suo sigaro, sorridendo soddisfatto. È il simulacro di un simulacro. In realtà City Walk è il frutto della competizione con la Florida. Oggi se vuoi scoprire Hollywood e divertirti, vai in Florida. Gli Universal Studios rispondono alla concorrenza offrendoti la possibilità di andare a Hollywood restando a Los Angeles. Disneyland sta trasformando gli spazi pubblici e turistici tradizionali in parchi di divertimento e spazi di sicurezza — mettendoli sotto gelatina, diciamo. A Disneyland costruiscono una versione dell’albergo vittoriano Del Coronado di San Diego: l’idea è quella di offrire un gran tour della California del sud senza mai uscire dal perimetro di sicurezza del parco giochi. E presto non ci sarà altro spazio al di fuori di quello dei parchi di divertimento.

E come mai non parli di Disneyland in City of Quartz?

È un argomento che non mi interessa particolarmente. Se dovessi andare a Disneyland, non mi occuperei tanto della politica dello spettacolo quanto delle questioni più dirette di sfruttamento. Mi interesserei alle condizioni di lavoro della gente che fa funzionare i macchinari del mago di Oz.
Nella California del Sud ci sono realtà più strane di Disneyland. La vecchia cintura industriale vicino al fiume di Los Angeles si è trasformata in una gigantesca zona di discariche, cimiteri di macchine e magazzini di riciclaggio. Ho conosciuto questi immigrati che passano la giornata a disassemblare computer in un cimitero di computer. Questi lavoratori sono secondo me l’immagine del proletariato postmoderno. Devi immaginarti una montagna di dieci metri fatta di computer rotti, morti, e questi immigrati armati di martelli da muratore e cacciavite che smantellano tutto questa robaccia, ascoltando rock’n’roll spagnolo. Ho conosciuto un tizio molto simpatico e quando gli ho chiesto perché fosse venuto in California, mi ha detto: "Per lavorare nella vostra economia hi-tech" e intanto faceva a pezzi un vecchio Macintosh.

 

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