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M a s s i m i l i a n o G o v e r n i
Inter - Lazio

 

Massimiliano Governi ha pubblicato Il calciatore per Baldini & Castoldi, è stato incluso nell'antologia Gioventù Cannibale di Einaudi e collabora con Bompiani. Ha curato - insieme ad altri - una piccola enciclopedia della psichedelia e un suo scritto è incluso nel nuovo numero di "Panta", dedicato al calcio.

Writer Massimiliano Governi (Il Claciatore, Baldini & Castoldi) introduces us to soccer memorabilia and to pre-world cup atmosphere in Paris.

© Massimiliano Governi

Per consolarsi dei dispiaceri del mondiale 1998, Trax vi offre la cronaca appassionata e divertita dell'incontro di Coppa Inter - Lazio. Ce la racconta un reporter d'eccezione: Massimiliano Governi, scrittore emergente, dallo sguardo leggero, preciso e lucido. Un pezzo di costume e colore - come si dice in gergo - dal quale esce una Parigi bellissima, con piogge alla Verlaine e ospiti d'eccezione: da Frajese a Omar Sharif, Le Pen e un Mancini un po' dragueur, tra un bicchiere di bordeaux e una sosta al Trocadero.

L’hostess che ci accompagna ai nostri posti di tribuna Presidentielle, 330 franchi al biglietto, ci chiede mellifluamente la pourboire. Pourbo-che? La mancia, scandisce in italiano. Mio fratello tira fuori dieci franchi. Basteranno? Bastano.

Manca un’ora al calcio d’inizio, e da dove sono seduto posso probabilmente contare quindici mila teste biancocelesti (da una parte) e ventimila neroazzurre (dall’altra), forse di più. Come dice Nick Hornby in Febbre a 90’, "solo un tifoso di sport può farlo".

È una serata caldissima, umida, senza un filo d’aria. Dagli altoparlanti a palla esce a ripetizione la colonna sonora di Men in black, quella dei Blues Brothers, poi Volare in spagnolo, e i Gipsy King.

Il campo è vicinissimo, di un verde inverosimile, più vivido del verderame, più del muschio e delle alghe, più di qualunque verde sulla terra.

Per arrivare allo stadio, siamo partiti alle sei di pomeriggio. Ci siamo organizzati per bene. Abbiamo affittato un Ducato Tourneo con autista. Siccome non c’era posto per tutti, io e Lorenco, un taxista francese di origine portoghese siamo andati in metrò. "Est plus simple", mi ha detto. "Il faut éviter le traffic...".

Alla fermata del Trocadero, quella cerchiata in viola sulla piccola pianta di Parigi, sono entrati alcuni tifosi laziali, pensierosi e taciturni, con le sciarpe e le bandiere. Parlavano di certi loro amici che sono stati rimpatriati con il foglio di via, per non so quale reato. Si sono infiammati solo quando siamo passati davanti alla fermata "Rue de la Pompe". Un po’ di risate, qualche spintone, poi sono ritornati muti.

Il Parco dei Principi, visto da fuori, assomiglia a una specie di granchio di cemento armato, possente e inattaccabile, con i suoi contrafforti simili a zampe contratte.

Prima di entrare, nell’avenue che prende il nome dallo stadio, lungo il viale di platani, ho incontrato tra la folla mio cugino Gianluca che vedrò sì e no una volta l’anno a Natale; sono andato a sbattere contro due miei ex compagni di scuola, ai tempi del liceo: a tutti ho dato appuntamento dopo la partita, davanti la fontana, per festeggiare, si spera, insieme.

È una settimana che sono a Parigi. Sguinzagliato per le strade, ho camminato fino all’esaurimento. Ci sono queste vie lunghissime, dieci chilometri, che non finiscono mai, e io l’ho percorse tutte, fino in fondo, senza meta. Ogni tanto mi fermavo a guardare i cartelloni pubblicitari dei film: Butcher Boy (Il ragazzo macellaio), di Neil Jordan. Paparazzi, con Vincent Lindon. Vampires, di John Carpenter, con James Woods.

Mi sono nutrito del pollo arrosto di una vecchia charcuterie sotto casa, o di baguette con il tonno e pomodoro comprate al Quartiere Latino, o Ebraico, o doveva capitava. Ho bevuto Acqua Badoit direttamente dalla bottiglia, a garganella. La sera mio padre ci portava a mangiare al "Bar delle ostriche", o in qualche antica brasserie, e io rubavo il posacenere con stampato Ambassade de Savoie, o Brasserie Bourbon, oppure Bofinger, La Plus Ancienne Brasserie de Paris.

Un giorno ha anche piovuto, e come dice Verlaine "la pioggia è caduta sul mio cuore come sulla città". La tristezza parigina non è semplicemente climatica, è una forma spirituale che agisce non solo sui materiali edilizi, sui tetti e sulle pareti, ma anche sul carattere, sulle idee e sui pensieri. È un potentissimo astringente.

Sebbene, statisticamente, Parigi abbia meno spazio verde per cittadino di tutte le grandi città europee, ci sono talmente tanti alberi che quando spuntano le foglie gran parte della metropoli, vista dall’alto, sembra essere costruita in un gigantesco parco. Platani dalla tipica corteccia biancastra e le foglie ampie e palminervie e ippocastani dalle foglie lanceolate e i fiori bianchi riuniti in folte pannocchie, sono gli alberi più frequenti, insieme alle magnolie e ai ciliegi fioriti.

Il primo maggio, dappertutto nelle strade, venditori ambulanti offrivano il mughetto di Nantes a 10 franchi, le Bouquet D’Amour. A Rue de Rivoli mi sono imbattuto nella manifestazione del Fronte Nazionale di Le Pen. Gruppi di lepenisti urlanti con bandiere nere, che, a carattere del sangue, avevano stampato sopra: "Comunisti Assassini". "Oltre 200 milioni di morti". "Un Le Pen subito, oppure niente".

Nei quotidiani giri delle vetrine (lécher la vitrine, leccare la vetrina), ho indugiato a lungo sugli onnipresenti gadget di Francia ’98, zainetti, accappatoi, profumi, cuscini, asciugamani, bicchierini da vodka (29 franchi), palloni di cuoio, con la mascotte Footix (fusione tra Football e Asterix), il galletto francese in versione pelouche, a farla da padrone.

Oltre ai merchandising di Footix, sopravviveva solo il giovanottino Tintin, intramontabile icona, anche se Hergé, il suo creatore, era belga e collaborazionista dei tedeschi.

Molte delle strade di Parigi prendono il nome dalle battaglie nelle quali i francesi sono stati vittoriosi e ogni tanto mi domandavo che effetto faccia allo spirito degli abitanti di una città sentirsi risuonare delle note di trionfo ogni volta che danno un indirizzo al tassista: ci fosse anche un Boulevard Sedan, una Rue Waterloo, o una Piazza della Resa, non sarebbe male.

A Les Deux Magot, uno dei più antichi café di Parigi, ufficio preferito di Sartre, ho bevuto un bicchiere di Bordeaux con mio padre, e ho incontrato Jean Pierre Cassel, un anziano attore che aveva interpretato anche uno dei Tre Moschettieri, ma non ricordo quale.

A Montmartre, vecchio villaggio di periferia, con i quartieri quasi campagnoli, sotto la funicolare alcuni mimi facevano le statue viventi. Quando gli allungavi una moneta, cominciavano a muoversi a scatti e a fare le bolle di sapone. Andavano forte anche i sosia di Charlie Chaplin. Io mi sono fatto una foto con Jim Carrey, The Mask, con la bocca a forma di rana e la giacca color verde pisello.

A Rue De Boccador, la via delle boutique must, in un palazzone grigio costruito a metà degli ’80, al secondo piano c’è la Rai di Parigi. Paolo Frajese, l’inviato per il Tg1, ci ha accolti nel suo ufficio proprio mentre riceveva la notizia del furto del Corot al Louvre. Sembrava rilassato, meno arcigno del solito, si vede che Parigi gli fa bene. Ho notato anche una mountain-bike appoggiata alla parete, una Colnago.

Uscendo, voltando verso destra, passando davanti al Teatro degli Champs Elysees, dove Paolo Conte ha fatto tre mesi di esauriti, un paio di anni fa, siamo andati a vedere il famoso e famigerato tunnel dell’Alma, dove si è schiantata la principessa Diana con Dodi la Fayette e l’autista dell’Hotel Ritz Henri Paul. Per cominciare, Place de la Reine Astrid è diventata, Place Diana. Su una colonnina plombage del gas, un florilegio di scritte commemorative. Le più gettonate: Diana Nous T’Aimons. Goodbye Diana. You are a great person and we love you. We miss your beautiful face. Diana, wir werden dich nie vergessen. Adios Princis. Place Des 3 Victimes. It was not an accident! Al Menos non provocaste Mas accidentes. C’è anche un isolato Goodbye Henri Paul.

Al Royale Monceau, in avenue Roche, albergo a 5 stelle, dove nelle suite del settimo piano sono spesso ospiti maharaja con tanto di harem, Sylvester Stallone, Robert De Niro, Madonna e Isabelle Adjani, ieri siamo passati a salutare i giocatori della Lazio e a farci dare un biglietto per la partita da Diego Fuser, il capitano della squadra. Sprofondato su una poltrona di velluto rosso, al bar dell’Hotel, Casiraghi fumava una sigaretta. Gli altri trafficavano con i telefonini cellulari, dentro i quali, ho scoperto dopo, c’erano installati i videogames. L’allenatore dei portieri Orsi sorseggiava un bitter analcolico. Nesta era seduto su uno sgabello, i capelli flosci e bagnati, la riga in mezzo, mangiava pistacchi e noccioline di fronte a Omar Sharif, che non riconosceva. Lo riconosceva però Fernando Orsi, anche se pensava che avesse interpretato il Gattopardo di Luchino Visconti. Poi è apparso Roberto Mancini, che si guardava intorno, le mani nelle tasche dei pantaloni della tuta, il bavero della giacca acetata alzato. Aveva un’aria da gran viveur, sembrava valutare con grande competenza gli immensi saloni illuminati dai cristalli di Boemia, i preziosi arazzi Gobelins alle pareti che raccontavano pagine di storia.

Spalle al bar, isolato come nel campo da una decina di partite a questa parte, Alien Boksic ingollava un doppio whisky in compagnia di persone che avevano l’aria di essere dei procuratori. Voci di corridoio dicevano che il dolore al ginocchio non gli è ancora passato e forse stasera non giocherà, come non ha giocato nella finale di Coppa Italia. Aveva la faccia scavata, lo sguardo fisso sul bicchiere. Sembrava fosse perso in pensieri spossanti e nerissimi. Al contrario dei suoi compagni di squadra, aveva un vestito scuro e i mocassini neri e lucidi, e così, è decisamente tutta un’altra cosa.

Che manca Alien Boksic, stasera, ce ne accorgiamo subito. Quando si comincia, dopo un minuto di raccoglimento per le vittime dei nubifragi in Campania, la Lazio sembra frenata e non riesce a fare un tiro in porta: Casiraghi, il paleador, fa quello che può, cioè nulla. Al 4° del primo tempo la Lazio è già sotto di uno a zero, gol del cileno Zamorano, che entra nella difesa a mantequilla dei biancocelesti e con l’esterno del piede manda in rete alla sinistra di Marchegiani: nella notte delle stelle sudamericane è la prima ad accendersi. Attenta Italia.

La squadra che vedo in campo non è nemmeno parente di quella che aveva strapazzato l’Inter in campionato. Si sono invertite le parti, la Lazio sembra l’Inter, l’Inter la Lazio. Anche Fresi sembra Nesta, e Nesta Fresi.

Winter, un ex mai rimpianto dai tifosi nazi della curva, una pantera che scorrazza sulla verde prateria della fascia destra, inseguito inutilmente da Nedved. Pagliuca passa una serata di grande tranquillità, comodamente parigina. Una respinta con i pugni (pallone calciato dall’angolo da Jugovic) e un paio di uscite decisamente ordinarie sono infatti tutto il lavoro che svolge nel primo tempo. Per il resto, rimane fermo, e domani nelle foto verrà benissimo.

Al 40° applausi per il Fenomeno, che fino adesso non si è visto molto: a gioco fermo si esibisce in un mirabile stop su una palla altissima. Trenta secondi dopo, palla in gioco, Casiraghi tenta lo stesso stop con il collo del piede: pallone che sbatte sul parastinchi e schizza fuori.

Cori dei brambilli neroazzurri: Oh, il Fe-no-me-no, ce l’abbiamo noi, sono cazzi tuoi.

Durante l’intervallo, il fracasso stereofonico continua a tutta manetta: ancora Volare in spagnolo, Bamboleiro, musica caraibica. Quello davanti a me, con lo striscione biancoceleste con la scritta "Orgoglio di Roma", sbuffa come un toro, dice a sua moglie: "Oh, ci vai tu a spegne’ lo stereo...".

Mezzo stadio intona Vola, Lazio Vola, l’inno della squadra biancoazzurra, cantato da Toni Malco. E anche quello di quindici anni fa, di Aldo Donati, ex Schola Cantorum, sicuramente più bello.

Ancora cori contro la Juventus: Chi non salta bianconero è, è. Moggi, Moggi, vaffanculo.

Al 10° del secondo tempo, entra Gottardi, l’eroe della Coppa Italia. La curva laziale canta: Mi diverto solo se, solo se gioca Guerino, gioca bene gioca male, lo vogliamo in nazionale.

Zamorano prende un doppio palo, filotto. Al 15° Zanetti raddoppia con una fucilata. Cori interisti: Senza rubare, vinciamo senza rubare.

Mancini calcia al volo, al 20°; è la prima occasione per i biancoazzurri della partita: una fiala. Entra Moriero. Cori della nord: Pezzo di merda, Moriero pezzo di merda. Saranno gli unici insulti a un giocatore avversario.

Proprio Moriero lancia sul filo del fuorigioco Ronaldo, ma probabilmente in posizione: come dice Carmelo Bene, Ronaldo gioca così veloce che lui per primo non sa mai quello che fa. E non lo sanno nemmeno Negro e Marchegiani, che possono soltanto guardarlo accompagnare la palla in rete, lentamente. Oh, il Fe-no-me-no, ce l’abbiamo noi, sono cazzi tuoi. Conoscono solo questo di coro, gli interisti.

I tifosi laziali ironizzano su un mezzo torello di Nesta e Negro a Ze Elias e Cauet. Oooo-lè...Oooo-lè...

Nesta e Ronaldo litigano a parole. Nesta gliele promette alla prima occasione. Ma non c’è tempo. La partita finisce con il gettonatissimo: Pezzo di merda, Moriero pezzo di merda.

I ventimila tifosi dell’Inter festeggiano, i quindici mila della Lazio, pure.

Lo speaker ringrazia di aver sostenuto le due squadre. "Buon rientro. Bonsoir. Buona sera". Poi dà un annuncio che non sente nessuno, solo io: "Il signor Fontelizi Vincenzo deve chiamare d’urgenza a casa sua".

Ronaldo si presenta sul podio con una bandiera brasiliana avvolta intorno ai fianchi. Viene premiato come migliore giocatore della partita: la scelta è stata fatta da una giuria di esperti indicata dall’Uefa. Vince una Nissan da otto posti, che darà in beneficenza.

All’uscita, nella transumanza spossante dei tifosi, evito accuratamente di incontrare mio cugino Gianluca e i vecchi compagni di scuola: alla fontana non mi faccio trovare.

Insieme a Lorenco, il taxista di origine portoghese che nel frattempo si è visto la partita dalla Tribuna Paris, 550 franchi, e non è per niente triste perché tifa per il Porto e della Lazio gliene frega zero, imbocco nel vagone del metrò, fermata Port de Saint Cloude, e incontro tifosi laziali e interisti, con le bandiere ammainate e gemellate, decisamente abbioccati.

Al Trocadero entrano due arabi, sembrano usciti direttamente dal film L’Odio di Mathieu Kassovitz. Mi vedono la sciarpa biancoazzurra e mi domandano chi ha vinto la finale di Coppa Uefa. Glielo dico. Uno di loro mi chiede un souvenir, la sciarpetta che ho intorno al collo. Dico no, ci tengo. Poi mi volto e di fianco a me vedo una bandiera biancoceleste poggiata sulla parete, con scritto Come on, freudianamente dimenticata da un tifoso laziale. Gliela passo e gli dico che può tenersela. Lui nemmeno mi ringrazia, cazzeggia con il suo amico, comincia a parlare in verlan, tipico dialetto parigino che consiste nel pronunciare le parole al contrario. Poi, un paio di fermate prima della nostra, Havre Caumartin, i due arabi escono barcollando, senza salutarmi, sventolando la bandiera biancoazzurra e intonando, nel silenzio della metropolitana, La-zio, La-zio, con la z dolce, come Biscardi...

 

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