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M i c h e l e P o r z i o
Bendati all'opera

il rapporto tra suono e immagine nello spettacolo operistico

 

Michele Porzio reviews stagings at Scala Operahouse in Milan, stressing contrasts between music and images in Gluck's Armide, Wagner's Ring and Rossini's Il turco in Italia.

© Trax

Crediamo siano pochi i frequentatori delle stagioni operistiche a non essersi posti almeno una volta l'interrogativo che, personalmente, ci torna alla mente con l'ossessività di un antipatico ritornello al termine di quasi ogni spettacolo al quale abbiamo assistito negli ultimi tempi: come si è potuti giungere a un divorzio tanto profondo, nelle intenzioni e nei risultati, tra l'interpretazione musicale e quella delle componenti visive dell'opera - regia, scene, costumi? Non si vuol dire che al regista o allo scenografo non sia lecito far mostra, rispetto al concertatoredi sensibilità estetica dissimile quando non antitetica, per indole o formazione personale. Pare invece - e non cessa di essere motivo di stupore - che all'estremo rispetto accordato al segno musicale (basti pensare alla consuetudine, ormai routine, delle "edizioni critiche") si accompagni un approccio a scene e regia che definire disinvolto risponde solo a uno dei più tenui tra gli eufemismi. Ma, precisiamo, non si intende con ciò muovere un appunto all'insegna di un conformismo bacchettone, nostalgico di allestimenti tradizionalistici. Anche se non bisogna peraltro dimenticare che gli strumenti pur sempre preziosi della filologia si sono ormai da tempo attivati sul campo della ricostruzione meticolosa delle istruzioni sceniche dell'epoca (si vedano ad esempio i saggi dedicati a quelle per le opere di Verdi), non vorremo certo suggerire che sia questa e solo questa la strada da seguire per un allestimento scenico che aspiri a essere sensato e stimolante. Ben vengano gli allestimenti "creativi"; ma il problema è più complesso. Si dovrebbe in realtà richiedere, a tanti registi e scenografi, un salutare bagno d'umiltà. Sarebbe a dire: rendersi conto fin nelle sue conseguenze ultime che oggi, andando all'opera, le aspettative sono enormemente mutate rispetto al gusto e all'epoca di un antico spettacolo di corte, dove l'inventiva di un apparato visivo poteva avere una giustificazione edonistica e celebrativa accettabile in quanto tale, distinta dalle ragioni della musica. Oggi è diverso: anche perché avendo a disposizione cinema, televisione e tante e ben altre possibilità di farci stupire sul piano visivo, crediamo si vada all'opera in primo luogo per godere dell'aspetto musicale; e alle altre componenti spettacolari dovrebbe venir spontaneo il ricordarsi di essere in primo luogo dei mezzi preziosi di amplificazione e di avvicinamento a quel che accade nel canto e nell'orchestra. Anche per smentire, se lo desiderano, quel che avviene nella musica; senza però perdere di vista almeno un qualche rapporto logico con essa. Si resta perplessi, invece, quando il lato visivo di un'opera si mostra, implacabilmente, il frutto della più noncurante gratuità: di idee in se stesse magari interessantissime, ma nate da palese estraneità alla partitura musicale che si sarebbe dovuta interpretare.
Gli esempi di un costume teatrale del genere, che ostacola e distorce non poco un proficuo accostamento dello spettatore all'opera musicale, sono numerosi. I casi meno edificanti sono sin troppo facili da enumerare; per fortuna si assiste in genere, e anche di recente, a vari "gradi intermedi" tra le scelte "inguardabili" e quelle ottimali: talora il dissidio tra gesto visivo e sonoro porta sì una discordanza, ma che deriva pur sempre dall'aver seguito due strade interpretative ugualmente percorribili.
È quanto avvenuto nell'Armide di Gluck che ha aperto la stagione della Scala: mentre il gesto musicale di Muti avvicinava le linee lievi e le dolcezze dei colori pastello di Gluck a una sensibilità tardosettecentesca e quasi mozartiana, le turgide movenze di regia, scene e costumi di Pierluigi Pizzi ricacciavano lo spettacolo nelle solenni pesantezze di una tragédie lyrique di fine Seicento. Ma fin qui, ribadiamo, si tratta di dissonanze abbastanza ben accette, feconde di stimoli anche se discutibili. All'estremo opposto - il Ring o Tetralogia di Wagner di cui è stato rappresentato il Sigfried alla Scala - si giunge a esiti così lontani dall'essere all'altezza della situazione (molti ricordano la Valchiria dell'anno scorso, a cura degli stessi, cui si è in pratica dovuto assistere a occhi bendati) da far supporre che ogni appunto non sia da rivolgere ai responsabili di regia e scene (André Engel e Nicky Rieti) ma casomai a chi ha voluto avvalersi del loro contributo. Ricordiamo infine un altro caso forse più emblematico e di questi giorni, il Turco in Italia di Rossini che si è visto alla Scala (con Michele Pertusi, Mariella Davia e Alfonso Antoniozzi, direttore Riccardo Chailly, regia di Giancarlo Cobelli, scene di Paolo Tommasi). In previsione di questo appuntamento, ci eravamo premurati di riascoltare l'opera in incisione discografica. Ora, la sensazione più evidente che si trae dall'ascolto del Turco nell'ambito delle coeve produzioni buffe di Rossini (pensiamo in specie al Barbiere e all'Italiana in Algeri) è quella di una temperatura espressiva che rinuncia ai lazzi e ai toni farseschi estremi e preferisce un andamento in punta di matita, un respiro leggiadro e disincantato, quasi malinconico e da commedia. Non è impressione personale: pochi giorni dopo corroborava quella elementare sensazione fonica (e lo farebbe ogni attento ascolto dell'opera), dalle colonne del "Corriere", un consumato specialista rossiniano come Paolo Isotta. E veniamo all'impianto registico e scenografico cui si è assistito alla Scala: puntualmente, ecco presentarsi i colori della farsa, le forzature di recitazione, lo straniamento surreale, la sottolineatura dell'esagerazione comica che sfocia nel gioco della parodia e del paradosso ecc. ecc. Che gioia andare a teatro! Ecco insomma un allestimento che secondo noi, per quanto non privo di pregi intrinseci, si dimentica di ascoltare la musica; o perlomeno non ne sa o non ne vuole chiarire il senso riposto, come ci sarebbe piaciuto. Chiediamo troppo? Forse chiediamo solo un po' più di attenzione alla musicalità a registi e scenografi, e meno alla sirena egocentrica - e a dire il vero sempre più ingombrante - delle loro ragioni teatrali.

 

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