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12 dicembre 1969
 

Questo pezzo è stato pubblicato sulle pagine milanesi del "manifesto" in occasione di uno degli anniversari della strage di piazza Fontana. E' solo una testimonianza personale.

Probabilmente la mia infanzia non è finita con il primo bacio, e neppure quando ho scoperto che non esisteva Babbo Natale.

Avevo dodici anni, era un pomeriggio d’inverno e stavo tornando a casa, solo. Camminavo lungo i portici di corso Vittorio Emanuele, le vetrine dei negozi, il marmo chiaro del Duomo. A un certo punto ho avvertito qualcosa di strano, la sensazione indistinta di pericolo che si trasmette come un’eccitazione a tutto il corpo. Un’agitazione, il rumore di troppe sirene.

Ho sceso i gradini della metropolitana, sono arrivato a casa, affrettandomi ma senza correre. Era il 12 dicembre 1969, piazza Fontana è lì accanto. Quando sono entrato in cucina, il giornale radio aveva già spiegato che in una banca di Milano c’era stato uno scoppio, forse una caldaia, e che c’erano dei morti.

Dei giorni successivi ho ricordi vaghissimi. Il 16 dicembre in Questura moriva Pinelli: "Se si è ammazzato", dicevano, "allora quacosa c’entrava". Fin da subito i conti hanno iniziato a non tornare.

Le prime manifestazioni per piazza Fontana si facevano alle sei, sei e mezza, quando era già buio. Si radunava molta gente, un popolo (non so trovare altro termine) che si trovava e si riconosceva. Da piazzale Loreto partiva un lungo corteo. Senza che nessuno me l’avesse spiegato, ci sono andato per anni: a chiedere, ingenuamente, la verità, mentre su quella vicenda si sedimentavano informazioni, disinformazioni, controinformazioni, processi eterni e inconcludenti (e articoli e libri: l’ultimo quello di Giorgio Boatti).

Tra le quattro e le cinque di quel pomeriggio, nel salone della Banca Nazionale dell’Agricoltura c’era un ragazzo che aveva più o meno la mia stessa età. Sull’identificazione con quelle vittime inconsapevoli, sulla pretesa mai soddisfatta di ottenere quella verità, è iniziata (e finita) la mia educazione politica. In risposta alla rivelazione di un Potere che lavora per rendere indecrifrabile la concatenazione degli eventi, che opera per depistaggi, menzogne, protezioni, insabbiamenti, è nata come un’ansia di sentirsi innocenti; ed è cresciuta una diffidenza coriacea, un nucleo di anarchismo interiore, il desiderio di non sentirsi – a nessun costo – complice di quei carnefici. Insomma, è stata la scelta di una lontananza e insieme la scoperta di una distanza dal Palazzo, di una cocciuta riluttanza a partecipare agli affari del mondo, fino al rifiuto di responsabilità: rifiuto di una storia che per procedere deve usare quei mezzi, aprire quelle ferite. Fino a rischiare di nascondersi dietro un alibi: è meglio non far niente che fare del male, convinti magari di fare del bene.

Non ho sentito lo scoppio, ma quel 12 dicembre per me si è rotto un patto che può essere ristabilito solo a una condizione. Una condizione ogni anno più improbabile, sempre meno afferrabile, sepolta dalle sabbie mobili del tempo. Del resto, mettere la ricerca della verità e della giustizia al posto delle ragioni della storia e della politica, oltre che apparire retorico, risulta sempre ingenuo e fallimentare - dal punto di vista dei poteri forti.

Raccontata così, segnata com’è da un presagio di morte che avrebbe trovato conferme nella cronaca degli anni successivi, non è un’adolescenza allegra (anche se in realtà mi sono molto divertito, a cominciare dalle serate sulla spiaggia con le canzoni di Battisti).

Fondata sulla credenza superstiziosa che un giorno sarà possibile ricostruire l’esatta sequenza dei fatti, i moventi, le responsabilità materiali e quelle morali, un’adolescenza del genere è un fondamento un po’ stupido per una biografia, me ne rendo conto. Induce uno scetticismo radicale, la diffidenza nei confronti delle verità sbandierate, un’ironia crudele conto le buone intenzioni dei potenti. Impone di verificare sempre la buona fede del prossimo.

Questa iniziazione insegna che il dubbio sistematico è una cautela necessaria, che la dissidenza è obbligatoria, che la ribellione è giustificata - di fronte a governi di cui fanno parte bugiardi, corrotti e complici di assassini (questo esclude probabilmente ogni collaborazione con la stragrande maggioranza dei governi: poi, nei fatti, il compromesso a vari livelli è inevitabile).

L’educazione che ne segue trasmette una curiosità onnivora e disordinata, nella convinzione che il sapere sia la miglior forma di autodifesa, trascurando moralisticamente i soldi, la menzogna e la ragion di stato. Fa pensare troppo al passato, alla memoria e all’oblio, tanto che prima ancora di iniziare a combattere ci si sente già reduci. Lascia come armi l’ironia, lo sberleffo e poco altro.

Con l’accumularsi degli inverni e il crescere del silenzio, inoltre, diminuisce la stima per un paese che non ha saputo fare tutto il necessario per avere la verità sui suoi morti. Per una nazione che troppo spesso preferisce l’ipocrisia come arma di difesa e considera la menzogna dei potenti una fatalità. Si finisce per sentirsi come degli esuli in patria, con la sensazione che quel che si dice può interessare solo una minoranza. Quasi per principio, ci si dissocia dalle scelte della maggioranza.

Da quel 12 dicembre sono passati ormai venticinque anni, un periodo che sarebbe stato più che sufficiente per diventare adulto. Ma a quella domanda di verità non è mai stata data risposta, anzi: e gli atteggiamenti adolescenziali si sono sedimentati fino a diventare un’abitudine, hanno finito per plasmare una personalità, hanno determinato molte scelte di vita. Corazzato nei miei alibi, continuo a cercare di non sporcarmi troppo le mani. La corazza si è indurita, ed è diventata un lusso cui non so più rinunciare. Insomma, temo che ormai sia troppo tardi perché io mi trasformi in un adulto.

copyright Oliviero Ponte di Pino 1998, 2000

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