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Il ponte e il cuneo
Su alcuni libri di Piero Camporesi
di Oliviero Ponte di Pino

Questo testo è stato presentato all'interno del Convegno "La Lezione di Piero Camporesi", a cura dell'Accademia degli Incamminati, Modigliana, 14 giugno 1998; è stato pubblicatosulla rivista "Il Michelangelo", Anno III, n. 2, maggio-agosto 1998.
Copyright Oliviero Ponte di Pino 1998, 1999.

I libri di Piero Camporesi su Internetbookshop.


 

Lavoro in Garzanti dal 1991, e in questi anni ho avuto la fortuna e il piacere di lavorare, come redattore – o se preferite come editor – a diversi volumi di Piero Camporesi. Tra di essi ci sono state diverse opere nuove e numerose riedizioni di vecchi libri, già pubblicati presso Garzanti o con altri editori. Non riuscendo a immaginare altri miei meriti, credo che questa mia esperienza editoriale sia l’unica giustificazione che mi consenta di scrivere di lui.

Vorrei partire con un’immagine che mi è rimasta impressa nella memoria. Piero Camporesi diffidava – giustamente – di poste, spedizionieri e corrieri vari. Detto questo, gli sarebbe stato sufficiente inviare una fotocopia per premunirsi contro eventuali disguidi, ma non c’era verso: il suo dattiloscritto – e spesso anche le successive bozze – doveva consegnarlo all’editore personalmente. Malgrado il suo ben noto scarso entusiasmo per i viaggi, prendeva dunque il treno per Milano, anche per verificare di persona – presumo – la situazione in casa editrice, incontrare i suoi interlocutori telefonici, discutere del percorso del libro. Preannunciato da una telefonata, accompagnava la sua ultima fatica in via Senato – e un’ultima volta è venuto in via Newton. Una delle immagini che più mi è rimasta impressa è proprio il suo arrivo in casa editrice, con il dattiloscritto puntigliosamente riletto e vistosamente numerato in rosso, pagina dopo pagina, con le note bene evidenziate. Ma il contenuto l’avrei scoperto solo dopo che il pacco di fogli era emerso dal sacchetto di cellofan in cui era stato infagottato e trasportato. Ecco, i suoi libri arrivavano in casa editrice in quell’inconfondibile involucro, che evocava associazioni casalinghe e culinarie.

Da lì, da quel sacchetto di cellofan, sarebbe nato un libro. E la prima cosa di cui ti accorgevi era che i libri di Piero Camporesi erano vivi. Ovviamente tutti i libri sono vivi, ciascuno a suo modo. Ma quelli di Piero Camporesi mi sono sembrati più vivi di molti altri, e vorrei cercare – in base alla mia esperienza, purtroppo limitata nel tempo – di capire perché.

Per cominciare, quelle che potevano essere semplicisticamente definite ristampe di vecchie edizioni, in pratica non erano mai tali. Come accade immancabilmente con qualsiasi libro, c’erano le solite correzioni e gli aggiornamenti, condotti con la minuzia del filologo: il refuso qua, la nota da ampliare là, e poi quell’edizione di cui si erano perse le tracce e che finalmente aveva potuto consultare. A volte si trattava di compilare un nuovo indice. Ma in effetti quella di Camporesi era una vera e propria officina, o meglio una cucina, nella quale i testi non di rado venivano scritti, riscritti, costantemente rimessi a punto, smembrati e riassemblati in maniere diverse, aggiungendo con sapienza nuovi saggi, e magari rivoluzionando l’impianto del volume. Per creare un nuovo libro, con un suo tono e un loro ritmo. Per molti aspetti, anche le riedizioni delle Astuzie di Bertoldo di Croce e della Maschera di Bertoldo sono libri "nuovi". O meglio, sono gli stessi libri che però, restando vivi, hanno continuato a cambiare, a crescere in maniera quasi organica. Intanto da quel lavoro (e dalla prefazione all’edizione del 1606 del Bertoldo, nel frattempo riscoperta) – da quella cucina – nasceva un altro libro, che è Il palazzo e il cantimbanco.

Non sono certo in grado di tracciare una bibliografia completa (oltretutto questa non è la sede adatta). Vorrei solo sottolineare un atteggiamento che per certi versi lo avvicinava a uno dei grandi protagonisti di quei suoi libri – che dovrebbero essere letti forse come romanzi prima che come saggi. Sto ovviamente pensando a Giulio Cesare Croce,

"attento al pubblico felsineo per il quale scriveva in ‘lingua bolognese’ o in ‘lingua nostrana’, per i suoi clienti preparava canzonette e ballate in ‘lingua rustica di montagna’ o in ‘lingua rustica bolognese’ quando i lettori-ascoltatori non erano proprio di montagna ma di media collina (…) Lo stesso procedimento di acclimatazione linguistica veniva usato per altre varianti emiliane" (Il palazzo e il cantimbanco, p. 29); nonché autore "di operette in prosa e versi d’ogni genere, forma, dimensione (…) una autentica fiumana, una alluvione senza argini, una produzione sterminata difficilmente quantificabile (…) un diuturno, inesauribile impegno (gli autografi attestano una insospettabile lavoro di tornitura, di limatura, di rifacimento, una selva di correzioni e aggiustamenti)" (ibid., p. 10). Ovviamente Camporesi, malgrado la sua elevata produttività di studioso invariabilmente ad altissimo livello, non liberava una "fiumana" di scritti. E neppure svariava attraverso i generi, né cedeva all’opportunismo politico e commerciale di un Croce. Anzi. Tuttavia nel suo rigore sapeva benissimo che ogni saggio, ogni libro viene letto in una maniera diversa a seconda del pubblico e delle situazioni. Che le diverse circostanze storiche cambiano di segno a un testo. E dunque può essere opportuno accompagnare un libro nel suo cammino.

Resta esemplare l’intensa e lucidissima prefazione scritta per la nuova edizione del Sugo della vita. Per certi aspetti quel libro era "tipico Camporesi": ricostruendo l’evoluzione dell’atteggiamento nei confronti del sangue, constatava il passaggio delle diete dal rosso al bianco (con l’esecrata eccezione del pomodoro, indegno succedaneo della linfa salvifica) e la comparsa del ricco sostrato culturale e mitico che aveva dato al "sugo della vita" un ruolo centrale nell’immaginario collettivo e nella farmacopea popolare. Come ricapitola la nuova introduzione, "l’antico enigma del sangue si è da tempo dissolto diventando un affare privato di un ramo del sapere medico, l’ematologia" (Il sugo della vita, p. 5). E però, dopo la precedente edizione del libro, c’era stato il conflitto nell’ex-Jugoslavia, con le sue pulizie etniche, e si avvertiva il risorgere di feroci nazional-localismi. La nuova situazione imponeva un taglio diverso al volume – un taglio che attraversa di fatto l’intera storia del Novecento:

"Di questo succo vitale mai fu fatto sperpero più immane come nel Novecento: l’Europa autodistruttasi in due catastrofiche guerre, l’Olocausto, l’Intifada, i genocidi, gli sgozzamenti all’insegna di una mezzaluna sempre più tinta di rosso, i massacri africani e caucasici, il terrorismo, le stragi balcaniche perpetrate da un folle ideale di pulizia etnica alimentata dalla parola d’ordine Blut und Boden (sangue e suolo)" (Il sugo della vita, p. 19). Ecco dunque il libro assumere un diverso punto di vista, farsi portatore di altri significati, come se reagisse agli eventi. Quella Prefazione è un testo di impressionante densità e tensione etica e politica, e riflette in maniera esemplare la capacità di uno storico – o meglio di quello storico d’eccezione che è Piero Camporesi – di parlare direttamente al presente, al suo cuore oscuro, senza appiattirsi nell’attualità e senza richiudersi nella nostalgia, mantenendo intatto un senso della prospettiva che può emergere solo dal lavoro d’indagine storica e filologica – o meglio di uno storico-antropologo in grado di misurare la distanza tra due esseri umani di culture differenti.

Non è ovviamente solo un problema scientifico. È necessario anche uscire dal rifugio dell’accademia e assumersi una responsabilità che si può definire solo "politica", nel senso più alto del termine. È anche questa tensione – è banale sottolinearlo – a far sì che un libro sia vivo. Da questo punto di vista mi è parso un sintomo molto grave (anche se non sorprende, considerando lo stato vagamente comatoso del nostro paese, della sua cultura e dei suoi giornali) il silenzio pressoché totale con cui i recensori hanno accolto nel 1995 Il governo del corpo, che raccoglie gli articoli pubblicati sul "Corriere della Sera" tra l’85 e il ’90 (commentava l’autore nella prefazione, con inconfondibile ironia: "le stagioni felici, come si sa, durano poco"). È un libro straordinario e sorprendente, in cui l’ironia non si limita certo alla prefazione: parlando in apparenza di tutt’altro – di personaggi ed esperienze dimenticate, relegate in un passato irrecuperabile – era in grado di leggere con assoluta lucidità (e con un certo anticipo sui mass media, e con ben altra profondità di campo) il presente. Elenco dal risvolto alcuni temi esplorati in questi "saggi in miniatura":

"L’edonismo di massa, la paranoia dietetica, il terrore lipidico, la decadenza dell’olfatto, lo sterile consumo delle ore notturne, la religione del corpo, le incerte vie del sesso liberato, il richiamo irresistibile della pelle abbronzata, ma anche la scomparsa dell’inferno tradizionale, la crisi degli ospedali, l’inquinamento dell’aria, la demonizzazione del tabacco, le sofisticazioni alimentari". Insomma, un’esplorazione della fenomenologia e del costume di questa fine millennio, ma riscattando dall’oblio dei secoli passati medici e letterati, santi più o meno probabili, cronisti e descrittori, avventurieri e vagabondi, ciarlatani e cantimbanchi…

Ma come diventa possibile un rapporto così vitale tra la ricostruzione storica e l’attualità? Un’altra citazione di Camporesi (questa volta da un’intervista, una forma d’espressione di cui diffidava con forza):

"Compito della storia è lavorare sul dimenticato. C’è una memoria istintiva che ci condiziona: ci portiamo dietro atti riflessi e culture sepolte. Lo storico dev’essere un grande sacrilego, un profanatore di tombe. Penso che cercare di ricostruire, anzi evocare, l’uomo del passato sia l’esperienza più emozionante. È anche un esorcismo: perché frugare nel passato può allontanare tentazioni o fantasmi del presente" (Ernesto Gagliano, "La Stampa", 25 maggio 1989). Il rapporto tra il passato e il presente – per essere vivo – presuppone una sorta di bidirezionalità, la possibilità di percorrere la freccia del tempo nelle due direzioni. La chiave d’accesso – più volte sottolineata – è lo straordinario uso delle citazioni e quell’autentica mimesi linguistica che presuppone un "lettore malizioso" e innerva una scrittura da "empio narratore" (le definizioni sono di Giorgio Manganelli, "Corriere della Sera", 12 luglio 1985). L’uso delle fonti si nutre di due delle molte anime di Camporesi, quella del filologo e quella del bibliofilo. L’incontro con i testi mette in atto un processo di immedesimazione con gli autori del passato, in grado di attraversare i secoli. È però un’immedesimazione che non passa per la facile e superficiale scorciatoia della psicologia, attraverso un processo induttivo che appiattisce e deforma: è invece il frutto innanzitutto – ancora una volta – dell’attento lavoro di chi ricostruisce un testo calandosi nelle pieghe della grammatica e dell’ortografia, di chi si sovrappone alla sintassi per cogliere le architetture e le risonanze delle frasi. È questo rapporto ravvicinato, un piacere quasi carnale, è alla base della tessitura del testo di Camporesi. È la condizione che permette di restituire la vita a libri minori, marginali, dimenticati, morti.

Per capire come funziona questo lavoro, fatto insieme di filologia e di arte, può essere utile un altro sguardo nell’officina, o nella cucina dello scrittore:

"Un solo brano può essere un punto di partenza per un libro: poi comincia il paziente esame di altri testi, una fatica improba perché spesso si devono leggere decine e decine di pagine prima di trovare una perla di poche righe. Raccolto il materiale, comincia il lavoro di montaggio simile all’intarsio dell’artigiano mobiliere. Infine, quando ogni pezzo è al suo posto, arriva il momento liberatorio della scrittura, tanto esaltante e dionisiaco che va disciplinato con meditazione apollinea. Non scrivo mai a freddo: ho bisogno dell’emozione per trasmettere messaggi di vita, vibrazioni" (da un’intervista di Cesare Medail, "Corriere della Sera", 5 marzo 1989). È solo alla fine di un lungo lavoro, di una lunga cucina, quasi involontariamente e incidentalmente, ma in realtà con fondamenta molto più profonde e solide, che diventa possibile una sorta di immedesimazione (sempre parziale, frammentaria) con alcuni dei personaggi dei suoi libri. È una nota inconfondibile, e tuttavia equivoca, indiscreta, e impossibile da verificare. Si avverte quasi un brivido, difficile da definire e descrivere, quando si avverte – dietro questo e quell’episodio, dietro questo o quel ritratto, in questa o quella annotazione – il sospetto dell’autobiografia. Ma è un brivido che ho provato in diverse occasioni – anche se non investe mai la globalità di un personaggio, ma solo un aspetto particolare. Per esempio, l’ho avvertito di fronte al disincantato e struggente Petrarca delle Vie del latte; a volte – come si è intuito – di fronte a Giulio Cesare Croce; e magari anche nel capitolo sulle fortune europee di Fioravanti (Camporesi è tra i saggisti italiani più tradotti nel mondo – o meglio, è uno dei rari saggisti italiani di fama mondiale, e suggerirei quasi più stimato all’estero che in patria).

Ma a questo punto diventa inevitabile affrontare una questione centrale per comprendere la forza di questi libri. Il problema riguarda – molti l’avranno capito – il loro genere e la figura professionale dell’autore. Anche qui, possono aiutare alcune citazioni. La prima è la risposta a una domanda che l’aveva con tutta evidenza irritato:

"Parlerei di generi, non di genere: non sono maniacale. Ho avuto una partenza regolare, mi sono interessato al romanticismo, al barocco, ad altro ancora; sono stato petrarchista. Credo d’essere filologo. Ho lavorato su Di Breme, Borsieri, Alfieri… Normale routine. Poi l’incontro con l’Artusi, 15-16 anni fa, che fu traumatizzante. Lì capii quanti strati possono coesistere in un libro di semplice cucina: lì trovai un economo, un amministratore, un dietista, un precettista… Trovai, con la cucina, l’antropologia e i campi… Fu per me un libro di rottura" (da un’intervista di Claudio Marabini, "La Stampa", 10 agosto 1985). Può essere curioso e istruttivo accostare questa carta d’indentità dell’Artusi a quella che lo stesso Camporesi dà di sé nella Prefazione al Governo del corpo: "A pensarci bene una carta d’identità non l’ho mai posseduta: non posso ritenermi uno storico (almeno nel senso tradizionale della parola), non sono un critico letterario (almeno nel senso stretto e un po’ limitativo del termine), non sono un sociologo della letteratura (anche se credo di aver offerto qualche strumento e non pochi materiali ai professionisti di questa – chiamiamola così – disciplina), non mi sento un cattedratico (pur se da moti anni insegno in una italica università, senza essere mai stato assistente o portaborse di nessuno): posso solo dichiarare (come il Nolano) di essere ‘academico di nulla academia’" (pp. 7-8). Ho già accennato al rapporto non facile con i giornali, anche in questi ultimi anni, quando la sua autorevolezza di studioso e di scrittore era ormai assodata (e dunque ai responsabili delle pagine della cultura sembrava inutile ribadirla). È certo che i "saggi in miniatura" pubblicati sul "Corriere della Sera" e raccolti nel Governo del corpo sono – se è concesso il gioco di parole – corpi estranei nel nostro giornalismo. Sono già oltre l’elzeviro, ma al tempo stesso difficilmente avrebbero trovato una collocazione in una delle attuali sezioni "Cultura e società" (e in effetti Camporesi smise di scriverne): affrontano l’effimero con una profondità di campo, una ricchezza di collegamenti storici (e critici) che contraddicono l’impostazione stessa di pagine che costruiscono e inventano gli eventi, a getto continuo, e che preferiscono non vederli radiografati e smontati con quella disincantata ironia, li vogliono consumare nel brivido dell’attualità e detestano vederli proiettati nel diorama della storia.

Analogamente non dev’essere stato facilissimo il rapporto di questo "academico di nulla academia" con l’Università. Attraversava troppi saperi e troppe discipline: letteratura e storia, sociologia e teologia, psicologia e dietetica, pittura e architettura, linguistica e agraria, culinaria e filologia.... Non si trattava solo di riscoprire vecchi testi dimenticati – gli accademici credono che il loro compito sia quello di restauratori e mummificatori. Si trattava prima di tutto di occuparsi – attraverso questi testi – di cose e di aspetti che la storiografia "ufficiale" aveva trascurato e rimosso. Camporesi sparigliava le discipline e confondeva le cattedre, scombinava i "cassetti" esistenti e ne suggeriva di nuovi (anche se poi faceva di tutto per non restarci intrappolato).

Oltretutto l’accademia aveva trovato un comodo alibi, uno di quelli che usa sistematicamente per evitare fecondazioni indesiderate: Camporesi essendo stato dichiarato ufficialmente "scrittore" (ed è certamente un grande scrittore), i suoi meriti di studioso potevano essere accantonati a cuor leggero, con spensieratezza. Per molti colleghi professori, i suoi saggi potevano essere sì suggestivi, ma forse lo erano fin troppo. Un indizio di questo atteggiamento possono essere le recensioni di Franco Cardini, che si è sentito più volte in dovere di restituirgli credibilità scientifica:

"Camporesi è un grande scrittore: dote non comune fra gli studiosi, e unico fattore che talvolta fa dubitare a proposito delle sue tesi. Voglio dire che il lettore il quale si senta preso tra i due fuochi della paradossalità sconvolgente di certe sue pagine e della straordinaria forza di coinvolgimento e di convinzione che esse mostrano, può talora non illegittimamente dubitare che sia anzitutto la seduzione esercitata da una scrittura di rara potenza e di straordinario sapore a fargli apparire certe tesi ancora più convincenti di quanto non siano. Col che intendo non già dubitare del valore dello studioso, bensì sottolineare l’arte dello scrittore" ("il Giornale", 20 gennaio 1986). Ecco, dopo queste considerazioni un po’ confuse e un po’ divaganti, forse mi sta diventando più chiaro perché i libri di Camporesi mi siano spesso sembrati più vivi di altri. In primo luogo a tenerli vivi era un metodo di lavoro, radicato nella coscienza che un libro – se vale - continua ad assumere sempre nuovi significati. Poi una coscienza acutissima del rapporto tra il lavoro dello storico e il presente, compresa l’attualità dei fenomeni di costume, delle mode lette non come eventi superficiali ed effimeri, ma come espressione (o reazione) delle correnti profonde dell’immaginario. A questo atteggiamento, che riflette da un lato una presa di posizione ben precisa – e politica – nei confronti del presente, si accompagna una pratica della scrittura che si nutre e reagisce alle fonti, una filologia che non è mai dissezione di una lettera morta, ma sempre ascolto di una parola viva – e spesso, letteralmente, trascrizione di un racconto orale (Fioravanti, p. 152).

D’altro canto, credo che a farlo vivi fosse anche la figura del loro autore, così difficilmente etichettabile e classificabile – come riconosceva egli stesso con una punta d’orgoglio – in bilico tra molti saperi, in grado di calarsi in molti punti di vista.

Così, a ripensarci, i libri di Piero Camporesi per me sono diventati due cose insieme. In primo luogo sono dei ponti: mettono in contatto epoche, conoscenze e competenze diverse. Al tempo stesso sono dei cunei, che scardinano dei luoghi comuni, delle certezze acquisite, delle comode superficialità. Sono libri che regalano grandi scoperte, aprono orizzonti inediti, e scardinano le griglie e i cassetti in cui tendiamo a incasellare le nostre identità (ovviamente chi ha delle identità professionali da difendere si irrita molto di fronte a operazioni di questo genere).

Un ponte e un cuneo. Insomma, quello che dovrebbe essere un buon libro.

NOTE

Per la precisione Le belle contrade, 1992; Le vie del latte, 1993; Il palazzo e il cantimbanco, 1994; Il governo del corpo, 1995; fino al recente Camminare il mondo, che ricordo con particolare emozione.

Le officine dei sensi, 1991; La maschera di Bertoldo, 1993; La carne impassibile, 1994; La terra e la luna, 1995; Il sugo della vita, 1997; Il brodo indiano, 1998; oltre alla nuova edizione di Le astuzie di Bertoldo e le semplicità di Bertoldino di Giulio Cesare Croce, 1993.

Esemplare è a questo proposito il percorso che ha portato dal nucleo di saggi pubblicati in Alimentazione folclore e società (Pratiche, 1980) al volume La terra e la luna (Garzanti, 1995), attraverso successivi ampliamenti in edizioni sia italiane sia straniere. E probabilmente non è un caso che il libro in apparenza più «sistematico» di Piero Camporesi sulla storia dell’alimentazione, un volume che abbraccia il paiolo e i fast food, gli antichi rituali agrari e le moderne ossessioni dietetiche, le mitologie lunari e le più moderne tecniche di conservazione, abbia avuto questa genesi.

Negli Elefanti, 1997.

Nel «materialista» Camporesi, questo serrato confronto con l’attualità, che vede il violento e stravolto riemergere di una vena mitologica che pareva definitivamente relegata nel passato, trova il suo punto di partenza nella riflessione sul sacro: «Tutto ciò che appartiene all’area temibile del sacro è denso di ambiguità, bivalente, a doppia faccia», Il sugo della vita, p. 5.

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