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Non ci resta che ridere

di Oliviero Ponte di Pino

originariamente apparso sul "Patalogo 15" (1992)

copyright Oliviero Ponte di Pino, 1992, 1999
 

 SOMMARIO

 Introduzione
 Per una genealogia del nuovo comico
 Roberto Benigni
 Paolo Rossi
 Alessandro Bergonzoni
 La Banda Osiris
 Dario Fo e Franca Rame
 Lella Costa
 Domenico Starnone (Sottobanco)
 Sabina Guzzanti
 Davide Riondino
 Beppe Grillo
 Conclusione
 

"Quando non si sa di che cosa ridere, ecco che compaiono i satirici." (Stanislaw J. Lec, Pensieri spettinati)

Introduzione

Che nelle ultime stagioni, in Italia, ci sia stato un boom del comico è innegabile. Che sia sconfinato fuori dai suoi limiti tradizionali, è altrettanto vero. Anche se la misura di questi sconfinamenti rimane impressionante. Se la voglia di ridere impazza sul piccolo schermo, o nei teatri, o su "Linus" e "Cuore", tutto questo rientra nella norma. Ma il comico all'italiana ha ormai espugnato e continua a espugnare santuari un tempo inviolabili. Basta scorrere le classifiche dei libri più venduti, quest'anno occupate stabilmente da cabarettisti e battutari: Le formiche uno e due (per la prima volta due libri dello stesso autore in testa alla classifica dei libri più venduti, segnalava a marzo la prima pagina della "Stampa"), e poi le strabilianti vendite delle barzellette bibliche di Giobbe, delle controlezioni di guida di Gioele Dix, delle Poesie di Kipli di Guzzanti, dei libri più o meno comici, più o meno legati alle loro gag, di Lella Costa, Alessandro Bergonzoni, Gene Gnocchi... Come se non bastasse, ecco Gianni Ippoliti, nell'inedita veste di critico e semiologo, mettere alla berlina la nostra industria culturale, di cui antologizza alcune infamie in Il coraggio di scrivere, ovvero alcuni Capolavori della letteratura italiana. In campo musicale, le hit parade discografiche sono invase da Claudio Bisio (con Rapput disco dell'estate 1991), Rokko e i suoi fratelli, Gene Gnocchi e suo fratello, senza dimenticare le provocazioni ironiche di Elio e le Storie Tese, di Pitura Freska e dei giovani rapper e ragamuffin nostrani... Sul terreno politico, l'avanspettacolo di Avanzi è assurto a cult della sinistra italiana, l'ex venditore di pedalò Maurizio Ferrini aspira a una cattedra di sociologia per la sua analisi del militante doc (L'ultimo comunista), e "Cuore" è da tempo la bandiera - forse l'ultima - degli irriducibili dell'opposizione: circondata da vignette e satire, la pagina delle lettere ha assunto imprevedibilmente il ruolo di sfogatoio psicosessuale e di laboratorio politico (e non è detto che alle prossime elezioni una lista "Cuore", invocata da molti fans, non trasformi Serra e Roversi in onorevoli). Mentre il fidanzamento tra satira e politica, dal punto di vista del regime, viene celebrato settimanalmente da "Crème Caramel" e affini... In questo clima, il culmine (per ora) è stato toccato il 29 febbraio scorso, davanti alla Casina Valadier del simpatico Ciarrapico, quando il postino Chiambretti e il presidente Cossiga si sono scambiati, a beneficio di Raitre, ruoli e battute: "Sembravamo un duo comico, Dean Martin e Jerry Lewis", gongolerà Chiambretti. Fare un elenco delle ragioni per cui accade tutto questo sarebbe fin troppo facile. Gli anni Ottanta hanno cantato l'elogio del disimpegno e delle gratificazioni più facili e immediate. La televisione, con la sua fame di volti e talenti, ha inflazionato sia la domanda che l'offerta di comici: per diventare una star, basta azzeccare un tormentone. Il moralismo serioso di una sinistra intenta a farsi abbagliare dal sol dell'avvenire ha irreversibilmente lasciato il posto all'autocommiserazione ironica e rabbiosa della sconfitta (e dove mai potevano rifugiarsi tutte le vittime del "complesso di Quo" studiato da Claudio Bisio, la sindrome di quelli che non stanno né Qui né Qua, di quelli che hanno vissuto gli anni Settanta con un eccesso d'illusioni e si sono poi sentiti a disagio - e anche un po' fregati - dagli anni Ottanta, e ora non sanno cosa aspettarsi dal nuovo decennio, ma sospettano che saranno comunque fregati...). Vista da sinistra, potrebbe anche essere la rivincita dell'aspetto dissacrante e creativo, dadaista e situazionista del '68 e del '77, rispetto alla tetraggime ideologico-militarista dei gruppi. Vista da destra, è la conferma della bonomia del regime, che può permettersi il lusso di ridere di sé, di mettere in scena la propria caricatura in un rosario di spettacolini parrocchiali (e infatti ecco leader e ministri sfilare sorridenti accanto ai loro imitatori, tra soubrette scosciate e sgambettanti, e collezionare le caricature dei vignettisti più di moda, senza mai arrabbiarsi, ma anzi ringraziando perché il loro pupazzo è stato in tv o sulla prima pagina...). A rendere il lavoro più facile (o difficile?) il lavoro dei comici italiani c'è un dato di fatto: l'Italia è un paese in cui la realtà supera facilmente l'immaginazione, dove il senso dello sfascio surclassa il senso dello stato e quello del pudore - e anche i potenti sembrano spesso fare a gara nella ricerca del ridicolo. E su questo terreno, lo sfogo dell'incazzato più o meno politicizzato, il cinico e bonario paternalismo del potente, il qualunquismo fatalista di chi fa finta di sorprendersi, scandalizzarsi, indignarsi e poi è il primo a approfittare dei guasti del regime, possono ritrovarsi tutti, felici e ridenti, sullo stesso terreno. E nei teatri? Accanto a sale troppo spesso riempite di abbonati e scolaresche allocchiti di fronte spettacoli mediocri e preconfezionati, di fronte alla contrazione degli spettatori "intelligenti e impegnati" (quelli più attenti alle novità, e che magari narcisisticamente vogliono sentire parlare anche un po' di sé, e non solo di Amleto, di Ciampa, di appuntamenti tra un anno alla stessa ora, così brillanti, così divertenti, così improbabili...), l'unico genere che sembri ancora mobilitare un pubblico in grado di scegliere e disposto a pagare il biglietto a prezzo intero rimane il comico. E infatti vediamo molte stagioni in abbonamento inserire nel pacchetto i comici di maggior richiamo televisivo, e teatri tradizionalmente "impegnati" sul versante politico o su quello della ricerca rincorrere il comico di sinistra e trasgressivo. Eccetera eccetera. Su tutto questo si potrebbe discutere all'infinito, ma il discorso rischia di portare troppo lontano, spianandosi la strada con generalizzazioni indebite. E' forse più utile riflettere sulla situazione del comico dal punto di vista del teatro, per scoprire quanto c'è di nuovo e interessante, e quanto c'è di vecchio, anzi d'antico.

Per una genealogia del nuovo comico

Un primo dato - che dovrebbe apparire curioso, di fronte a un fenomeno come questo, spudoratamente moderno (forse post) e massmediatico - è il radicamento regionale, locale di molti comici emersi negli ultimi anni. Non tutti sanno recitare in autentico dialetto, probabilmente; e tutti recitano in italiano (almeno in tv). Ma il loro luogo d'origine rimane sempre chiaramente identificabile - e spesso orgogliosamente esibito. Benigni e i suoi guizzi sfrenati da toscano incazzoso, Grillo e i suoi "belin" incofondibilmente genovesi, ma anche l'Emilia volgarotta e carnosa di Gigi e Andrea, quella finta ingenua e svagata, da "scoperta della lentezza", percorsa da vene di malinconica follia padana di Gene Gnocchi. Neppure un comico "intellettuale" e poco televisivo come Bergonzoni occulta la cadenza e le vocali "alla bolognese". E le diverse Napoli: quella dei Trettré, che riciclano frammenti liofilizzati della vecchia farsa; quella abbandonata dall'emigrante Silvio Orlando per cercare (e trovare) fortuna nella Milano berlusconiana; quella metropolitana e incazzosa, popolata di tossici, in cui affonda Beppe Lanzetta. E la galleria di macchiette piemontesi di Faletti da Drive in in poi, una antologia di perversioni antropologiche: l'adolescente represso e brufoloso, il nobile decaduto, la suora kapò da oratorio, la guardia giurata venuta dal sud... E ovviamente l'inconfodibile milanesità, più o meno periferica, più o meno surreale, che va da Dario Fo a Paolo Rossi. (Anche macchiette all'apparenza più "moderne", anche il gergo del paninaro di Enzo Braschi o le velleità bocconiano yuppie di Sergio Vastano, non si discostano dal cliché.) Molti dei personaggi presenti in questa sommaria compilazione avrebbero sicuramente raggiunto il successo anche senza sottolineare le loro origini geografiche: ma nessuno di loro ha voluto rinunciare a questo meccanismo di identificazione. Anzi, esso viene spesso esibito e rivendicato, con qualche orgoglio: come del resto fanno, con orgoglio e ironia, quelli di Pitura Freska con il loro reggae in veneto o i Sud Sound System e il loro rap in dialetto leccese... Non è solo l'uso - se non dell'autentico dialetto, ormai difficilmente recuperabile e spendibile - di certe cadenze e intonazioni immediatamente individuabili, non è solo la trasformazione di frammenti lessicali in tormentoni più o meno efficaci. Molto spesso, l'accento è il punto di partenza per costruire vere e proprie maschere, che dei caratteri "tipici" regionali assumono anche determinate caratteristiche psicologiche - quelle tradizionalmente abbinate all'emiliano, al napoletano, al toscano... Non sempre la macchietta assume lo spessore del personaggio, non sempre l'attore comico nato per la televisione (e quindi programmato per sketch di due-cinque minuti) riesce a trasformarsi in autentica maschera. Ma in quel teatro dei burattini che è il piccolo schermo, di fronte a un telespettatore distratto, che quindi privilegia segnali semplici, forti e ripetitivi, le maschere e i loro surrogati sembrano funzionare a meraviglia. Imprevedibilmente, alle soglie del XXI secolo, sembra riemergere in Italia una moderna commedia dell'arte. Come se il retaggio (e forse la vitalità) di un'Italia frammentata per comuni e microregioni non fosse mai stato cancellato. Come se l'Italia postmoderna e televisiva avesse semplicemente aspettato il momento per riconoscersi nell'Italia degli Arlecchini e dei Pulcinella, appena superficialmente adattati alle necessità del momento. Per tracciare una immaginaria genealogia del nuovo comico italiano, potremmo dunque prendere come capostipite, da un lato, Totò: a rappresentare - e a mantenere sempre viva, attraverso i suoi film continuamente replicati in tv - l'intermittente ma mai scomparsa tradizione della commedia dell'arte. Ma è anche necessario un contrappeso, per esempio Walter Chiari: il primo comico italiano a staccarsi nettamente da quella tradizione, per imporre sulle nostre scene la figura più vicina all'entertainer all'americana. Cresciuto in un'Italia diversa, quella piena di energie del dopoguerra e della ricostruzione, ansiosa di liberarsi dalla sua patina contadina e dialettale, curiosa e attenta alle novità, Chiari appartiene a una nuova razza: esuberante e spavaldo, animato da un piacere quasi monellesco di infrangere le regole, in grado di passare con la stessa naturalezza dalla barzelletta all'attualità politica, dal tormentone all'invenzione surreale, e di travolgere il pubblico in interminabili assoli. Volendo sintetizzare, la nuova comicità italiana è forse soprattutto questo: figlia di Totò e Walter Chiari, mantiene una memoria dialettale, locale, ricollegandosi alle ultime propaggini di tradizioni secolari ormai sradicate e prive di contesto; per reinventare questa tradizione, per cucirla addosso ai "nuovi mostri" nati dall'antropologia in trasformazione delle realtà urbane e dalla televisione, con la sua ingegneria genetica dell'immaginario, ma anche con un superiore livello di cultura, e quindi con curiosità intellettuali che portano spesso a recuperare tecniche e meccanismi linguistici dalle avanguardie artistiche. Si potrebbe discutere a lungo sull'effettiva influenza che le avanguardie hanno avuto sull'evoluzione della comicità all'italiana, fin dai tempi del futurismo e di Petrolini. Che ruolo assegnare, per esempio, a un maestro involontario del dadaismo, a un inconsapevole precursore del teatro dell'assurdo come Achille Campanile? E' stato lui a immettere nella comicità italiana il gene del nonsense e del surreale, o è il frutto di una successiva importazione? E i Gobbi e Il dito nell'occhio, negli anni Cinquanta: sono stati solo fiori sbocciati in anticipo e subito appassiti per eccesso d'intellettualismo, o sono stati degli autentici precursori? E c'è una effettiva continuità tra il Franco Nebbia, i Gufi e il Derby degli anni Sessanta e la generazione di Comedians e dello Zelig negli anni Ottanta? Forse l'unico dato incontestabile è che la televisione ha definitivamente mischiato le carte, che non esistono più (e non possono più esistere) autentiche scuole e tradizioni, neppure quella delle compagnie di giro. Al più, si possono identificare famiglie o filoni: come quello milanese, già citato, che da Fo-Parenti-Durano, passando per Cochi e Renato, Jannacci, Boldi e magari Teocoli, approda per l'appunto ai Comedians (per la cronaca, erano Paolo Rossi, Claudio Bisio, Silvio Orlando, Antonio Catania, Renato Sarti, Alberto Storti, Gianni Palladino, Gigio Alberti, Roberto Vezzosi e Giorgio Giorgi). E infine a Elio e le Storie Tese, che contaminano il gusto surreale meneghino con l'iconoclasta e disperata allegria del '77... Ma se quella milanese può sembrare una genealogia plausibile, già spostandosi verso Genova le cose si fanno troppo vaghe: che parentela ci potrà mai essere tra la Borsa d'Arlecchino e i primi passi di Paolo Poli e la nascita di Fantozzi-Villaggio? E cosa potranno mai avere in comune con Grillo e Ricci, per non parlare di Baccini e Vergassola? E che dire della Toscana di Benigni e dei Giancattivi, o di Napoli?

Il modello Benigni

Se la ricostruzione delle genealogie risulta ormai impossibile, può essere più facile identificare il prototipo del comico delle ultime generazioni. Che ha molti aspetti del performer americani, che si muove secondo ritmi, gestualità e temi inconfondibilmente metropolitani, e che al tempo stesso non cancella le sue origini locali (e anzi, spesso le rivendica). Che ama lavorare da solo, anche perché ha costruito il proprio personaggio affrontando da solo il pubblico dei teatrini e dei cabaret, lavorando spesso per anni in una sorta di palestra, al riparo dalle tentazioni dello show business; e quando poi è passato ai recital nei teatri, nei Festival dell'Unità, nei Palazzetti dello Sport, in televisione, al cinema, è rimasto fedele alla sua inconfondibile e collaudata identità, continuando insomma a interpretare se stesso. Che si è creato una fama di anticonformismo, che sa creare scandali senza perdere la simpatia del pubblico, ed è dunque in grado di passare da platee ristrette e sofisticate al grande moloch televisivo con sorprendente naturalezza, soddisfacendo insieme l'élite e le masse, senza perdere - almeno in apparenza - la propria identità e libertà. Questo tipo di comico appartiene probabilmente a una razza diversa da quella dei suoi predecessori, cresciuti alla scuola popolare del varietà; ma è diverso anche da molti comici televisivi "precotti", destinati alle grandi platee, tipo Marchesini-Solenghi-Lopez, o dalle decine di macchiette senza storia, senza spessore e con poco futuro che affollano la tv. Forse il primo esemplare italiano di questa nuova razza è Roberto Benigni: con il monologo Cioni Mario, diretto da Giuseppe Bertolucci, ha costruito in teatro la sua maschera di toscano guizzante e sempre imprevedibile, grande improvvisatore, dotato di una immediata carica di simpatia, sboccato e impertinente, allegramente stralunato: quasi un personaggio da cartone animato, per la sagoma immediatamente identificabile, per la mobilità fisica e logica, psicologica e mentale sempre sorprendente, per l'impertinenza delle sue provocazioni e l'impunità di cui gode. Nel Cioni Mario Benigni appariva ancora vittima di una sfiga endemica, poi soppiantata dal vitalismo arlecchinesco, dall'inarrestabile vocazione di trickster già allora evidenti: per il resto le caratteristiche essenziali - a cominciare dalla gestualità e dal linguaggio - erano già tutte definite, e da allora non sono cambiate. Al massimo, rinunciando a ogni approfondimento psicologico, distaccandosi sempre più dalla satira politica e dall'attualità, questi tratti si sono affinati, tendendo quasi all'astrazione. Così la "maschera Benigni" si è rivelata efficace in televisione (agli esordi, nel 1976, più con L'altra domenica di Arbore che con Onda Libera, trasmissione in anticipo sui tempi e non abbastanza pensata), nei megarecital teatrali (dove incassare la cambiale della popolarità televisiva), e infine al cinema, dove si è costruito una carriera "seria" di attore e di regista, con notevoli apprezzamenti di pubblico e critica. Senza trascurare i fragorosi blitz televisivi, utilissimi a rivitalizzare l'attenzione del pubblico e confermare il personaggio: il "Woytilaccio" al Festival di Sanremo, il recente incontenibile "Elogio della Topa" in onore della Carrà... Sulle tracce di Benigni, si è mossa in questi anni una fittissima schiera, con alterne fortune: lo schema base per arrivare al successo (e per mantenerlo) è questo, ma non tutti sono bravi come Benigni, non tutti riescono a costruire un personaggio memorabile e di lungo respiro (aldilà dei cinque minuti dello sketch televisivo), non tutti sanno gestire con lo stesso equilibrio e la stessa efficacia le loro apparizioni sui vari media. E il percorso di Benigni rimane è insieme un prototipo (Cioni Mario è del 1975) e un modello, vista l'abilità con cui il comico di Vergaio ha gestito la propria fama in questi anni, fino a ereditare il ruolo della mitica Pantera Rosa.

Il personaggio

Paolo Rossi

Cattivo, volgare e sovversivo, Paolo Rossi lo è sempre stato. Rabbioso e ghignante, il comico milanese trascina il suo pubblico facendosi beffe di tutto e tutti (a cominciare da se stesso), radiografando l'inesorabile declino della nostra qualità della vita, la volgarità crescente, l'imbarbarirsi di sentimenti, passioni e nostalgie, le successive ondate di arroganze e cliché, l'ultima sempre peggiore della precedente. Quello che esplode in serrate e guittesche raffiche di gag, è un mondo di alienazione metropolitana, di carenze affettive, di amare sconfitte e di improbabili riscatti. E' una vitalità soprendente, quella di Rossi, tanto irrefrenabile che sembra nascondere - risospinto nei bassifondi dell'Io - un fondo di disperazione. Uno degli aspetti più interessanti del lavoro di Paolo Rossi (che per i testi si avvale generalmente della premiata ditta Gino & Michele) è l'approfondimento sul personaggio. Come nel caso di Benigni, gli elementi di base erano definiti fin dall'inizio: la statura ("Quand'ero piccolo, e alla domanda ''Cosa vuoi fare da grande?" tutti gli altri bambini rispondevano ''L'ingegnere", ''L'astronauta", io dicevo: ''La testa di cazzo!". Ora che sono rimasto piccolo, posso dirlo: ''Sono l'unico che ce l'ha fatta!""); l'aspetto arruffato e sconvolto (ma non è solo una questione di look, è uno stato mentale costantge); una propensione alla parolaccia - che è senz'altro uno degli elementi che gli ha meritato l'epiteto onorifico di "Lenny Bruce dei Navigli" - accompagnata da certi ripiegamenti quasi infantili; una notevole energia fisica e una inespressa (ma evidente) energia sessuale; una posizione politica chiaramente di sinistra, dalla vocazione incazzosa e estremista. Assolo dopo assolo, Rossi ha continuato a lavorare sulla psicologia e sull'atteggiamento politico del suo personaggio di oppositore, per approfondirlo anche in rapporto con le reazioni e l'evoluzione del suo pubblico. Tra una risata e l'altra, ha finito per tracciare la radiografia di uno stato d'animo che non è solo individuale, personale. In principio c'è il bisogno di trasfomare il mondo, di cambiare la realtà affinché risponda ai suoi (ai nostri) desideri - a cominciare da quelli sessuali. Ma da tempo la realtà sembra aver preso un'altra direzione, e quei bisogni primari vengono ormai soddisfatti da succedanei, uno più insensato dell'altro: da questo punto di vista, l'ossessione erotica, la volgarità gratuita, sono semplicemente la risposta più sana. Altrimenti rimane - e riaffiora spesso nei suoi monologhi - la fuga nel sogno, in una surrealtà euforica e rabelaisiana, verso un paradiso ingenuo, innocente e orgiastico. A sostenere i suoi spettacoli c'è stata l'affinità elettiva con tutti coloro che quel sogno (reinventare una realtà commisurata al desiderio) l'hanno condiviso. Con il passare degli anni, tuttavia, le tracce di tutti quei compagni di viaggio si sono disperse. Di quel senso di possibile comunità sono rimasti soltanto bei ricordi e amare recriminazioni - che lascia spazio a una irritata nostalgia, godibilmente sbeffeggiata. E' anche da questo che emerge quel senso di solitudine, quella rabbia autentica di outsider, che così spesso si ribalta in guizzi dissacranti. A salvare Rossi dalla rassegnazione, in questi anni, sono stati l'ossessione vitalistica, e quel rifiuto di darsi per vinto che spinge a ribaltare ogni sconfitta in una nuova ribellione, in una scatenata parodia, in una battuta feroce e volgare, in un'altra fuga in avanti. E quell'orgoglio che permette di ribaltare ogni umiliazione, ogni ingiustizia in una esilarante lezione di dignità. E' questo forse il nucleo della sua maschera, quello che lo trasforma, sotto le luci della ribalta, in un antieroe pronto all'autodenigrazione, ma sempre alla conquista di un paradossale riscatto attraverso oltraggi e impertinenze, oscenità e guizzi di follia. Nell'ultimo assolo, Operaccia romantica, affiora anche qualcosa di più profondo, e finora relegato in secondo piano, ancora più irriducibile, che salva la ribellione dai rischi del qualunquismo. Una sorta di rivolta morale, un rifiuto di cui è difficile trovare l'origine, ripercorrere la storia. Ma è solo di lì che possono nascere la lucidità e l'intransigenza di certi rifiuti, la precisione (e la quantità) dei bersagli, e la capacità di ironizzare sulle proprie colpe, debolezze, difetti. Insomma, quella libertà da folletto braccato che fa di Paolo Rossi un irriducibile. A salvarlo è la mancanza di certezze ideologiche: "Avevo iniziato facendo teatro politico, sono e resto di sinistra. Quando è caduto il muro, mi sono sentito liberato. Il crollo delle ideologie, dei dogmi... Non per citare uno che ci andava giù duro, ma ''quando grande è il disordine sotto in cielo, la situazione è eccellente". Soprattutto per un artista. Non mi sono mai depresso. Sono caduti i muri e non potevo che essere contento: queste cose le sapevo già, come le sapevano tutti. Anzi, erano le cose che mi frenavano quando parlavo con quelli che la pensavano diversamente. Detto questo, continuo a pensare che: 1) esiste lo sfruttamento; 2) esiste e viene ben incrementata l'emarginazione; 3) esistono le classi e ci sono dei privilegiati. Non ho cambiato le mie idee. E la mafia esiste perché esiste tutto questo. Non è la lupara, il colpo di pistola, il pizzo: è un atteggiamento culturale diffuso in tutti gli strati della società, nei rapporti pubblici e in quelli privati. Ha a che fare con l'omertà, con il compromesso, col farsi spingere per arrivare là dove non si merita, con l'escludere determinate persone per gestire meglio una situazione di potere" ("il manifesto", 27 giugno 1992). Dal punto di vista della tecnica teatrale, se bisogna cercargli dei maestri, sono sicuramente Dario Fo e Enzo Jannacci, che non a caso vengono spesso citati nei suoi spettacoli con brani che sono anche un omaggio. Anche se, ovviamente, il loro apporto è stato contaminato con innesti di altra natura. Basti pensare al rapporto con la musica: in scena, Rossi lavora con una vera e propria band, e spesso si scatena in deliranti assoli, a metà tra il blues e il valzer da balera; o meglio, come precisava con acribia filogogica nel suo Operaccia romantica, "tra i Sex Pistols e il duo di Piadena", o "tra i Pogues e Nanni Svampa". E un discorso analogo vale per i modelli letterari o teatrali, in mix spesso imprevedibili.

Il ritorno dell'avanguardia

Alessandro Bergonzoni

Alla politicizzazione ostentata da Paolo Rossi si contrappone fin troppo facilmente la sbandierata apoliticità, inattualità, astoricità di Alessandro Bergonzoni. La sua è una comicità fatta soltanto di parole, un autentico corpo a corpo con il linguaggio, che smonta e scardina per attrarre in mondi surreali, vertiginosi e inattesi. Una macchina celibe che crea in continuazione paesaggi distorti, abitati da personaggi gratuiti e impermeabili al qualsiasi morale: adorabili e fiabeschi, sanguinari e squinternati, hanno il fascino, l'inconsistenza e la fragilità dei sogni. Nei suoi spettacoli (Le balene restino sedute, Anghingò), Bergonzoni ribalta trionfalmente grammatica, logica, sintassi e buonsenso. Gode nello spezzare associazioni giudiziose ("Gli Assiri, una volta tanto senza i Babilonesi, che quel giorno erano ammalati") o nel fare esplodere elenchi e classificazioni ("Era una femmina tutta casa, chiesa, scuola, lattaio, fornaio, droghiere, cartolaio, e poi di nuovo a casa, quindi non stava fuori sempre"). Oppure lascia fantasticare di scienze immaginarie (in Le balene restino sedute veniva spesso citata una fantomatica Enciclopedia del quieto vivere), disfa frasi fatte ("Il bel dì viene dopo il bell'a, il bel bò e il bel cì"), partecipa nel suo furore tassonomico a olimpiadi dell'assurdo ("Gare di statura, movimento terra, rotazione dei pianeti, sollevamento coperchi per buoni diavoli, corsi di roccia sui pattini, gare di morsi e rimorsi, gatta buia, gare di saluti e di commiati, corsa sugli ombrelli (tra l'altro dolorosissima)" e così via). Rende omaggio ai grandi del passato ("Guglielmo Manzoni, inventore dei Promessi sposi per radio"), si lancia in attacchi folgoranti ("Quel giorno il sole era alto e i sette nani invidiosissimi come al solito"). Rigorosamente sconclusionata e allegramente crudele, percorsa da insopprimibili e matematici istinti omicidi, la comicità di Bergonzoni prolifera attraverso la creazione di infiniti universi paralleli, anarchici, irrequieti e informi. E' una guerra con il linguaggio che tiene accesa la scintilla di una eterna e gratuita ribellione. Da questa lotta, la realtà è la prima esclusa: ogni riferimento a fatti cose persone è assolutamente casuale, un residuo ormai privo di funzione, e anzi sembra far regredire il linguaggio a uno stadio ormai definitivamente superato. In spregio a Leopardi e agli altri "poeti da pelliccia", non è ammessa alcuna concessione all'emozione e al sentimento: la psicologia è travolta da una valanga di associazioni che seppelliscono simboli e inconscio sotto un labirinto di schegge divergenti. Allo stesso modo (e qui sta forse, in prospettiva, un rischio di ripetitività) anche gli sviluppi narrativi sono rigorosamente casuali: incidenti di percorso, saggezza ritrovata solo a posteriori e perciò sospetta e rigorosamente inutilizzabile. Vicende e personaggi identificabili, quando ce ne sono, divagano senza regola, si disintegrano e si ricompongono sfuggendo a ogni possibile programma. Questa oscillazione tra l'afasia, i mulinelli ripetitivi di frasi ottusamente avvitate su se stesse, e un proliferare sregolato e incontenibile, straripante, di mondi impossibili, si ribalta paradossalmente in un dominio totale e assoluto sulla lingua e sul senso. Come un enigmista maniaco, Bergonzoni seziona le parole: facendo slittare una vocale, elidendo un'iniziale, intestardendosi su un'assonanza, spezzandole secondo false etimologie, facendo scomparire una sillaba ("I numeri parlano da soli, le lettere trovano più facilmente compagnia" è il suo elogio dell'imprecisione e dell'invenzione arbitraria): distorcendo leggermente il suono, travolge la barriera del senso (e soprattutto del buon senso) per modulare significati assolutamente diversi, assurdi e sempre esilaranti. In questo, ricorda un musicista jazz che moltiplica le variazioni su una frase melodica; e come un jazzista, Bergonzoni sembra procedere per assoli e improvvisazioni, che hanno come unico limite la capacità d'invenzione fantastica e l'energia fisica di chi li sostiene. Le frasi fatte, i proverbi, i luoghi comuni del linguaggio diventano così trampolini per giravolte sempre più azzardate, sberleffi a getto continuo, impennate insensate e spiritose. Tra i suoi punti di riferimento, Bergonzoni cita il Burchiello - ovvero Domenico di Giovanni, barbiere e poeta del Quattrocento, cui perfino le antologie scolastiche dedicano qualche riga: ed è il piacere dell'eversione linguistica, dell'invenzione sorprendente, degli accoppiamenti poco giudiziosi. Cita anche i fratelli Marx, per la torrenziale sarabanda di schegge di follia che sbalordisce e stordisce gli spettatori. Non mancano nei suoi spettacoli giochi degli dell'Oulipo, quando per esempio immagina un mondo senza la lettera "A". E, quando si abbandona al gusto del romanzesco, vengono alla mente nomi come quelli di Raymond Queneau e Flann O'Brian (o, su scala più nostrana, Stefano Benni): per l'allegra perfidia, per quella vena di sadismo ludico, per lo slancio euforico e la grazia incosciente con cui gioca una partita la cui unica regola è non avere regole, per il suo liberatorio elogio dell'inutile e dell'infantile, dell'evasivo e del gratuito, per la geniale stupidità, per lo scintillare di intuizioni deliranti (anche se, bisogna aggiungere, gli manca ancora il respiro narrativo).

La Banda Osiris

Le geometriche distorsioni linguistiche di Bergonzoni avrebbe probabilmente suscitato il riso di Perec e Calvino: e forse anche un po' d'invidia, per l'abilità nel dar corpo e voce a quello che in loro rimane scrittura. Invece gli spettacoli della Banda Osiris sarebbero sicuramente piaciuti a Marinetti: il gusto per lo sberleffo, la capacità sintetica, l'abilità e la libertà nell'uso e nell'abuso di oggetti e opere, la difficile ambizione di evitare ogni forma di elaborazione culturale richiamano immediatamente alcuni aspetti del teatro futurista - quelli più scanzonati, goliardici, impertinenti, ispirati al teatro di varietà. Il beffardo maltrattamento degli strumenti musicali potrebbe ricordare anche certe performance alla Fluxus: private però di ogni traccia di autocoscienza e concettualismo, e ispirate solo all'amore della provocazione e della gag. In realtà, il modello del quartetto formato da Sandro Berti, Gianluigi Carlone, Roberto Carlone e Giancarlo Macrì sembra essere - più o meno - una Filarmonica di Vienna in cui gli orchestrali sono stati sostituiti dai clown Fratellini e il direttore è scappato con la prima ballerina (e la cassa, probabilmente). La strumentazione oscilla tra la banda di paese e l'orchestrina rock per una festa dei diciott'anni, beffardamente accompagnata (a seconda delle perverse necessità dell'arrangiamento) da timpani wagneriani, triangoli alla Debussy, chitarre hawaiane. Come nel caso di Bergonzoni, anche gli spettacoli della Banda Osiris procedono abbandonandosi unicamente al gioco delle associazioni gratuite, senza alcuna regola se non l'estro e il caso. Una delle specialità della Banda Osiris potrebbe essere definita "straniamento musicale": per esempio, trasformare Beethoven in marcetta (non è difficile) e Mozart in calypso (già leggermente più impegnativo); o, al contrario, miracolare Wilma Goich con Brahms o il Festival di Sanremo con il canto gregoriano. E poi passare dall'uno all'altro, impercettibilmente, come se tutti i modi musicali, i diversi ritmi e timbti, gli stili in apparenza meno compatibili, si attirassero senza possibilità di scampo, fino a fondersi in un gigantesco sberleffo. Un altro tipico meccanismo comico è basato sull'uso degli strumenti musicali aldilà e contro gli scopi per cui sono stati progettati, come pure forme, dotate perdipiù di inesauribile carica metaforica. Il prediletto trombone diventa una autentico archetipo, un simbolo cosmico e milleusi: pugnale e banderilla da corrida, porta e cancello, e altri oggetti meno confessabili. Per non parlare del basso-tuba, grottesco contrappunto a ogni vocazione al sublime. Quando la Banda Osiris riscrive (o risuola) la "storia della musica" (come recita il titolo del suo spettacolo-manifesto), le sorprese non mancano: a volte ingenuamente infantili, a volte più sofisticate, ma sempre sostenute dal legittimo orgoglio della stupidità. E lo scherzo (in senso musicale, naturalmente) funziona, sostenuto da una energia allegra e fracassona: fino a dimostrare che tra jodel e disco dance, tra il rap e 'O sole mio, tra Battiato e Rossini, non c'è praticamente differenza. Smontando i meccanismi dell'emozione (in fondo banali e prevedibili) per poi ribaltarli crudelmente, questa banda dei quattro ridicolizza ogni aspirazione all'indicibile musicale. E tuttavia, a voler giocare con i paradossi, questo bricolage sonoro offre una conferma (in negativo, attraverso l'assurdo e il surreale) a chi crede nell'origine sacra della musica, nella sua vocazione mistica: perché ogni gesto può essere letto come la dissacrazione di un cerimoniale, come un goliardico oltraggio alla santità dello stile. Come il rovescio di un rito che cancella e oltraggia la divinità che dovrebbe onorare, ma solo perché la nostalgia per il dio assente si è fatta insopportabile.

La società

Dario Fo e Franca Rame

La realtà italiana non viene rimossa solo da Alessandro Bergonzoni e soci: più in generale, è il grande assente dai nostri palcoscenici. Non sembra esserci nessun rapporto tra quello che gli italiani sperimentano quotidianamente e quello che accade sulle scene, tra quello che leggono sui giornali e quello che viene recitato dagli attori. Con rarissime eccezioni. Una delle più notevoli - è banale ripeterlo - rimane il teatro di Dario Fo e Franca Rame. Certamente con generosità, probabilmente con ingenuità (ma anche con minor presunzione ideologica che in passato), continuano a riflettere sui problemi e sulle piaghe della nostra società, recuperando molti meccanismi dalle farse che, negli anni Sessanta, avevano fatto la fortuna della coppia. La ricerca dello sghignazzo non teme di affrontare tematiche serie, e spesso tragiche, che gli altri tendono a rimuovere. Il papa e la strega (1989) affronta, in un'ottica anti-proibizionista, il problema della droga, con diverse frecciate contro l'atteggiamento della chiesa nei confronti della contraccezione. Zitti! Stiamo precipitando! (1990) è dedicato all'Aids: la vicenda inizia in un ospedale psichiatrico, dove si scopre che i matti, utilizzati inconsapevolmente come cavie, hanno sviluppato gli anticorpi necessari a contrastrare il terribile Hiv. Parliamo di donne (1992), testo firmato in coppia con Franca Rame e affidato a quest'ultima (mentre Fo era impegnato nel suo Johan Padan), riprende le tematiche femminil-femministe affrontate dall'attrice nel passato, con due atti unici che ricordano da vicini fatti di cronaca, attraverso due donne apparentemente opposte. La prima, "Mater Tossicorum", ha avuto due figli uccisi dalla droga; ora tiene l'ultima figlia incatenata al letto, le procura e inietta la roba. In Grassa è bello! la situazione è meno tragica e apparentemente meno definitiva: la protagonista ha semplicemente sbattuto fuori casa il marito traditore, trovando immediatamente un sostituto: non il principe più o meno azzurro, ma il cibo, per affogare l'abbandono in mezza tonnellata di ciccia (in scena, sotto uno strabordante e azzeccato travestimento); ha adottato un efficacissimo stile di vita per rendersi l'esistenza meno amara: una sveglia registrata con voce sexy (maschile) accompagna l'intera giornata, dolcissimamente, minuto dopo minuto; e dove non arriva il registratore, la signora - intraprendente, informatissima, modernissima - si è già rivolta alla realtà virtuale, con una "poltrona del piacere" più appagante della "cosa vera". Molto spesso, in questi spettacoli, la trovata iniziale non riesce a reggere l'intero spettacolo, e ovviamente la soluzione dei problemi non la si può trovare in una farsa: sta di fatto che un pizzico della sensibilità sociale, della curiosità nei confronti del nuovo, del gusto dell'attualità che ispira questi testi non farebbe male a molti drammaturghi (e romanzieri) italiani.

Lella Costa

Se la coppia Fo-Rame parte generalmente dalla cronaca, Lella Costa sembra piuttosto trovare l'ispirazione nella sociologia, con qualche pizzico di psicanalisi casalinga. Nei suoi spettacoli racconta nevrosi, ambizioni, frustrazioni e rituali di un ceto urbano attento a se stesso e distratto sugli altri, tendenzialmente rampante ma con un residuo di coscienza, che ama considerarsi liberato e aperto ma non rinuncerebbe a nulla se non per senso di colpa, superficialmente appagato ma certo non soddisfatto e potenzialmente depresso. In Due. Abbiamo un'abitudine alla notte (1992), in scena con Giorgio Melazzi, Lella Costa offre l'ennesima versione dell'eterno teatrino della coppia, sullo sfondo della sua eterna crisi e di quelle, un po' meno eterne, della sinistra, del postfemminismo e del nuovo maschio. Compiaciuti della loro disinibita modernità ma indeboliti da un'intrinseca fragilità emotiva, i protagonisti di Due (scritto dal duo Costa-Melazzi in collaborazione con Massimo Cirri e Sergio Ferrentino) hanno fatto del "parliamone" una regola di vita: le loro notti sono un'interminabile confessione incrociata, che sguscia incessantemente tra sesso e affetto. Antichi scheletri come possessività e gelosia, insicurezze e vulnerabilità, continuano a governare il rapporto. Lui, in omaggio alla tradizione di una famiglia di notai, compila semiseri protocolli di comportamento in caso di corna (distinguendo puntigliosamente relazioni occasionali e parallele, per precisare i casi in cui la confessione del tradimento è facoltativa, obbligatoria, o semplicemente consigliata...) e si interroga sull'origine della donna (quando la "cosa rosa" desiderata da Adamo nel Paradiso Terrestre non era Eva, ma la "Gazzetta dello Sport"...). Lei, perfetta eroina della sinistra sentimental-patetica, si fa forza convincendosi dell'autenticità delle passioni, oscilla tra depressione e consapevolezza, s'inquieta e si compatisce. Dal duetto Costa-Melazzi, le coppia emerge come una sorta di prigione senza vie d'uscita - l'unica possibilità di fuga essendo un altro rapporto di coppia, praticamente identico. Dove si dibatte fino alla nausea (come in tv) di orgasmi e desideri, delle misteriose e inconciliabili differenze tra maschietti e femminucce, di fantasie genericamente erotiche, di insicurezze e prepotenze reciproche, tra frasi dei Baci Perugina e pubblicità dei preservativi, fino a seppellire sotto questo insistito chiacchericcio ogni altro possibile discorso.

Domenico Starnone (Sotto banco)

Se la coppia cade nella categoria del "privato", la scuola rientra in quella del "pubblico". E la scuola, eterno punto dolente della crisi italiana, al centro dei crucci di milioni di famiglie (e delle pene e frustrazioni di legioni di professori), sprofondata da anni in una crisi refrattaria a ogni riforma, dimenticata da politici, sociologi e romanzieri, è stata quest'anno oggetto di diversi spettacoli comici: il fallimentare Io speriamo che me la cavo, poi Corpo insegnante di Stefano Benni con Lucia Poli, e lo riuscito Sotto banco, ispirato alle cronache scolastiche di Domenico Starnone (apparse a suo tempo sul "manifesto", "l'Unità" e più di recente "Cuore", e in parte raccolte nel volume Ex cattedra). Al centro dello spettacolo diretto da Daniele Lucchetti è il momento clou dell'anno scolastico, il suo massimo sacramento: il consiglio dei professori per lo scrutinio finale. Lo sfascio del sistema scolastico, il vuoto culturale dell'istituzione, l'inadeguatezza e la patetica buona volontà di alcuni professori, il delirante intreccio di pratiche burocratiche, i colleghi con il doppio lavoro, quegli incubi collettivi che sono le gite scolastiche, le velleità e i pregiudizi democratico-progressisti e quelli reazionari, il cinismo degli arrivisti, i presidi retrogradi e i problemi sessuali degli studenti: tutto questo si compone in un meccanismo delirante, destinato a schiacciare tutte le buone intenzioni, a rendere ridicolo ogni sentimento umano, a stritolare ogni volontà di trasmettere il sapere, in un esilarante teatrino dell'assurdo. Il problema, ahimé, è che tutto quello che accade in Sotto banco risulta essere - per chi abbia la sventura di avere a che fare con la scuola - semplicemente e drammaticamente vero. La sottolineatura comica non sta nelle situazioni riprodotte in scena, e neppure nella loro concentrazione all'interno di un paio d'ore di spettacolo: nella scuola italiana tutto quello che accade in Sotto banco è routine quotidiana (e di una ridicola assurdità). Ma la risata nasce piuttosto dall'atteggiamento con cui i personaggi (a cominciare dai protagonisti, interpretati da Silvio Orlando e Angela Finocchiaro) e il pubblico subiscono gli eventi. I due protagonisti credono (o si illudono, o fingono di credere) che la scuola abbia ancora i suoi nobili e giusti scopi: a scatenare l'ilarità sono proprio la constatazione dell'inutilità di quest'illusione, il fatto che qualcuno possa ancora crederci, l'inevitabile disintegrarsi di queste ambizioni puntigliosamente ridicolizzate dagli eventi, le buone intenzioni sempre più lontane dalla realtà.

Due talenti

Sabina Guzzanti

Chi le ha viste all'opera tutte e due, la "malpensante" Moana Pozzi accanto alla sua irresistibile replicante, non ha più dubbi. Sabina Guzzanti è molto più vera della sua slavata ispiratrice. Le sue impertinenze sono più autenticamente provocatorie. E' molto più credibile come finta oca, e forse saprebbe essere anche più sexy. Questo per dire che il talento parodistico di Sabina Guzzanti, della squadra di Avanzi, non ha bisogno di conferme. Vale forse la pena di sottolineare che, prima dell'intelligenza satirica, del piacere mimetico e del gusto trasformistico, c'è evidentemente un attento lavoro di scomposizione del personaggio. L'impressione, soprattutto dopo averla vista all'opera in teatro, è che non si tratti solo e tanto di un progressivo avvicinamento ai tic e alle caratteristiche esteriori dei suoi "bersagli", quanto di un'operazione di dissezione antropologico-psicologica, in cui si disegna quasi scientificamente un identikit dei loro tratti fondamentali: è proprio in questa attenzione chirurgica alla struttura interiore dei modelli, poi grottescamente distorta, o semplicemente messa a nudo, che nasce la credibilità delle invenzioni satiriche. ...con fervido zelo racconta la neghittosa giornata di una studentessa non troppo secchiona, tendenzialmente incerta su se stessa, che filtra il mondo attraverso demenziali messaggi affidati alla segreteria telefonica, tenta di riagganciare un fidanzato lontano e fedifrago (ah, le amiche del cuore...), combatte con tenace stoicismo la sua guerra privata contro i peli sulle gambe, si lagna delle eterne trappole dell'italica burocrazia, comodo alibi per le sue pigrizie. Tra le difficoltà vere e quelle immaginarie di una giornata sfilacciata, si fanno strada alcuni modelli immaginari - eroine della storia, della scienza e delle arti, del gesto e della parola, in una antologia personale che va da Giovanna d'Arco a Isadora Duncan, passando per Rita Levi Montalcini e Edith Piaf, Virginia Woolf e Elisabetta I. Ma i due piano su cui si muove lo spettacolo, quello "realistico" e quello parodistico, la ridicola banalità quotidiana e la fantasticheria impertinente, non riescono tuttavia a fondersi, così come la struttura spettacolare (i due coristi-servi di scena sullo sfondo, la proiezione di diapositive su due pannelli) rischia di apparire sovrimpressa all'assolo.

Davide Riondino

Il talento di Davide Riondino è sicuramente tanto e multiforme ma altrettanto indisciplinato e dispersivo. Attore e cantautore, scrittore e cantastorie, ombroso e solitario, apprezzato da fanciulle e attempate signore, non è ancora riuscito tuttavia a mettere a frutto le due doti. Nei suoi spettacoli, non mancano mai intuizioni generose e a volte geniali, ma anche banalità quasi stucchevoli e ricadute in un facile déjà-vu. Anche il suo ultimo, generoso spettacolo, Viaggio a Mosca in seconda classe, riflette qualità e difetti del suo autore e protagonista. Secondo uno schema collaudato, Riondino racconta in forma di avventura picaresca gli ultimi vent'anni della sua generazione. O, per essere più precisi, la storia di quelli della sua generazione che la battaglia di questi ultimi vent'anni l'hanno combattuta (e si direbbe persa) sotto le bandiere dell'utopia, scegliendo "generali" in grado di mostrare quello che si nasconde oltre la realtà: Wim Wenders, Tadeusz Kantor, Italo Calvino... Per molti aspetti, Riondino si muove controcorrente: in genere, gli spettacoli dei comici "impegnati" (qualunque cosa voglia dire) mettono alla berlina il nemico, scatenando in questo modo solitarietà e risate; con la sua ironia disincantata e visionaria, con il suo desiderio di capire e di capirsi, lui preferisce invece raccontare le vicissitudini di una sconfitta che non ha avuto bisogno di nessun nemico - e che si sarebbe consumata anche senza avversari. Le battaglie di questo esercito dalle mille bandiere - l'affermazione ingenua del bisogno di giustizia, il sogno di una società più equa, la scoperta della necessità di sapere, la tentazione della fuga, il fascino del nichilismo e dei misticismi più o meno orientali, eccetera eccetera, mentre il mondo cambiava e Berlusconi imperversava - rappresentano piuttosto le diverse tappe di una evoluzione tanto individuale quanto collettiva. Se non cambiano il mondo, se non l'hanno cambiato, hanno sicuramente trasformato chi le ha attraversate. Dunque, l'attuale disorientamento - suggerisce Riondino - appare piuttosto il frutto di una serie di scelte giuste ma parziali, spesso gratificanti ma generalmente inconcludenti, almeno per quanto riguarda il loro impatto sulla realtà. Se è possibile guardare al passato con rimpianto (e infatti non manca una vena nostalgica e malinconica, quasi cechoviana) la morale implicita in Viaggio a Mosca in seconda classe è che in realtà non c'è nessuna sconfitta, finché qualcuno continua a cercare. A questa favola retrospettiva manca però quel pizzico di invenzione e di follia surreale che potrebbe darle autonomia. Le successive stazioni del viaggio sono segnate da alcune canzoni di Riondino, parodie divertenti e godibili dei vari De Gregori, Conte, Vecchioni, Battiato eccetera, maitres à penser di una generazione educata dai cantautori: ma le canzoni sono troppo poche, e rischiano di fare solo da intermezzo a uno spettacolo che parla d'altro. Alcune battute rimangono legate a un'attualità di scarso respiro, troppo vaghe per graffiare o lontane dal nucleo centrale del monologo. Riondino è troppo ambizioso per accontentarsi del facile successo dei comici televisivi (dopo una stagione piuttosto invadente qualche anno fa); troppo intelligente per non capire che la satira difensiva e fondamentalista alla "Cuore" ha il fiato corto; troppo inquieto e irrequieto per imbrigliarsi in quasiasi schema o stile. E così anche Viaggio a Mosca in seconda classe è più di uno spettacolo, ma resta molto lontano da quel romanzo che vorrebbe essere. Più di una confessione individuale e meno del ritratto sentimentale di una generazione. E' la testimonianza di una saggezza ancora precaria, malinconica e divertita. E una dichiarazione d'intenti: continuare a cercare - senza prendersi troppo sul serio, senza rinunciare alla propria ingenuità - un inafferrabile Graal.

Beppe Grillo

E' un caso a sé. L'ostracismo televisivo lo ha messo in una posizione unica: è stato cacciato dalla Rai per aver detto - in tutta innocenza - quello che tutti gli italiani sapevano già (e cioè che i socialisti erano ladri); da quel momento, nell'immaginario popolare, è diventato un surrogato della bocca della verità. Lui, dal canto suo, ha deciso di identificarsi con l'italiano medio: quindi, per definizione, in un'entità praticamente inesistente, senza alcuna caratteristica precisa, senza un punto di vista univoco, se non un'immediata reattività alla realtà (e agli interminabili scandali) del paese, un misto di isteria e cinismo, emotività e menefreghismo, piacere della beffa e impotenza. Grillo si è così calato nei panni del cavaliere solitario, lanciandosi in una battaglia dai toni epici, e superiore alle sue forze, contro un'Italia che si vuole moderna a tutti i costi ("Con le mamme che nel centro di Milano vanno a prendere i figli all'uscita di scuola con il fuoristrada a quattro ruote motrici e il parabufali") ma che si è soltanto arricchita troppo in fretta; che si è omologata in superficie, sacrificando profondità, diffrenze e radici alla sovrappopolazione di sartine e stilisti ("I fratelli Armani, Giorgio e Emporio"); che vive di malgoverno ("Non è necessario che Gava si dimetta: basta che si costituisca", invocava, precedendo Di Pietro, nel 1990) e dell'immobilità di un ceto politico senza alternative credibili ("Prima di cambiare il nome del Pci, Occhetto avrebbe dovuto cambiare il suo: Bush, quando lo ha sentito per la prima volta, ha chiamato Walt Disney"). Un osservatore distratto potrebbe scambiarlo per un comico: la gente affolla regolarmente i teatri in cui si esibisce, e ride. Invece Beppe Grillo è, molto più semplicemente, un realista: si limita a raccontare quello che sta sotto gli occhi di tutti, quello che sa ogni lettore di giornali con una briciola di spirito critico, chiunque si trovi a navigare nella realtà italiana senza farsi abbagliare dal suo luccichio, travolgere dalle sue ondate emotive. Perché, a sentirserla raccontare, la nostra realtà è assolutamente esilarante: è diventata talmente incredibile, volgare, ipocrita, imbecille da valicare il limite del tragico, e spesso anche quello dell'assurdo, per diventare semplicemente ridicola. In Buone notizie (1990), il comico genovese si lamentava della difficoltà di fare satira contro un sistema politico in grado di assorbire ogni sberleffo, ogni provocazione, ogni accusa. Quando va in scena Chiamate Grillo... (1992), alla vigilia di Tangentopoli, il ceto politico ha ormai superato - e di molto - la fantasia del comico più psichedelico: infatti, di battute dichiaratamente "politiche", negli spettacoli di Grillo, ce ne sono sempre meno, e non sono l'importante. In due anni, però, siamo evidentemente sprofondati nel peggio. Se un tempo al degrado sembravano potersi contrapporre il buon senso, la moralità, le aspirazioni della gente comune, oggi questa differenza sembra irrimediabilmente scomparsa. Appariamo tutti sempre più conniventi e magari complici: animati da un unico spirito sprecone e predatorio, ossessionati dall'interesse particolare, rimbecilliti da quizzetti, finti scandali, polemiche postribolari. O peggio, pronti a lasciarci travolgere da angosce e paure per sprofondare nel razzismo e nel perbenismo, giulivi o rassegnati, in ogni caso incapaci di trovare una linea di resistenza diversa dal "Si salvi chi può", dal "Fin che ce n'è...". Insomma, presi collettivamente (con le solite salutari eccezioni, ma sospese tra dignitoso silenzio e scomposti velleitarismi, rassegnazione e rabbia) siamo ahimé sempre meno diversi da chi ci governa, da chi rimbalza da un teleschermo all'altro, da chi si fa portavoce dell'isteria collettiva. L'Italia si disintegra in un pulviscolo di conventicole, partiti e partitini, categorie e parrocchie, corporazioni e logge? Il comico genovese fa appendere al collo di ogni spettatore di Chiamate Grillo... un cartello che ne specifica la lobby sociologico-patologico-politico-sessual-gastronomica. L'Italia è popolata da imbecilli che passano la vita davanti alla tv o con il dito sul telefono, sperando di parlare con Frizzi o Raffaella, Funari o compagnia? Ecco che Grillo una la televisione come scenografia e come interlocutore (o come spalla che gli prepara le battute); o piazza in scena un telefono, al quale risponde in diretta, senza freni. Poi, gli basta leggere la dedica di Gelli nel memorabile manuale in cui spiega come avere successo ("A mio padre, maestro di onestà"), o i certificati di malattia che hanno permesso a Sgarbi di bigiare per anni il suo lavoro di sovrintendente alle belle arti, o raccontare i successivi stadi della falsificazione della lettera di Togliatti, o rievocare l'agghiacciante dialogo tra la petroliera speronata dalla Moby Prince e la capitaneria di porto di Livorno, o elencare gli slogan delle pubblicità dei preservativi, le gare della bontà con lo sponsor. O peggio, oltre ogni ritegno, i nostri biglietti da visita per l'Europa, Ustica e Moana, Ferrara e le liste Caccia e Pesca, la mania per gli orologini Swatch e la tv-lazzaretto, le brillanti carriere dei piduisti mentre la "calunniatrice" Tina Anselmi è ancora libera. Insomma, nient'altro che la realtà. Una realtà sotto gli occhi di tutti, pubbliche, documentate, ossessivamente ripetute da giornali e tg. La gente, sentendosele raccontare dall'alto di un palco, si spancia dalle risate. Una serata con Grillo diventa allora una specie di rituale collettivo, un'occasione per scaricare la propria intolleranza - un'intolleranza un po' troppo simile alle intolleranze che irritano il "Partito del Grillo", sempre pronto a esplodere in un goliardico sberleffo collettivo: parolacce, volgarità gratuite, insulti, sfoghi - e soprattutto le risate, per fortuna - servono allora a esorcizzare una realtà inaccettabile ma immutabile come un muro di gomma, in cui tutti, appena finito lo spettacolo, torneranno a immergersi con giuliva incoscienza, insieme truffati e truffatori. Astraendosi dalla cronaca di politica e di costume, i risvolti dell'attività teatrale di Grillo rischiano di risultare ancora più sorprendenti. Il suo dialogo con gli spettatori, infatti, sembra aver realizzato alcuni dei sogni delle avanguardie teatrali del Novecento. Quello della partecipazione del pubblico, per esempio: la barriera tra scena e platea sembra farsi molto sottile, il pubblico diventa attore, indirizza lo spettacolo in questa o quella direzione, sceglie i suoi bersagli, lancia battute, risponde alle provocazione, esplode "'Fanculo" collettivi, in un acting out di intolleranza liberatoria. Così come abbatte il muro tra attore e spettatore, così Grillo riesce, con grande naturalezza, a espandere i confini del teatro, utilizzando senza complessi di inferiorità i mass media (un altro sogno delle avanguardie). In Buone notizie aveva dietro di sé un gigantesco schermo televisivo, che fingeva da scena e da personaggio insieme; il telecomando permetteva di costruire un Blob in diretta, da commentare improvvisando, magari con l'aiuto del pubblico. E in ogni caso senza complessi di inferiorità, aprendo lo spazio conservatore e claustrofobico del teatro alla cultura e alla reattività della comunicazione globale, in tempo reale. In Chiamate Grillo è il telefono che allarga i limiti del teatro, e diventa personaggio: sempre in diretta, è un canale per contattare amici (in pratica nessuno) e nemici (moltissimi), ma anche per farsi contattare da quei coraggiosi (o incoscienti) che osano comporre il numero verde. Con queste appendici tecnologiche, e nel rapporto diretto con il pubblico, gli spettacoli di Grillo diventano qualcosa di diverso da una spettacolo tradisionale, senza perdere nulla della specificità del teatro del suo qui e ora. Così il teatro può permettersi di confrontarsi ad armi (quasi) pari con i mass media, a trasformarli in personaggi; e contemporaneamente solletica il coinvogimento del pubblico (stimolando i suoi istinti più bassi - il qualunquismo intollerante e populista della protesta - e quelli più alti - la rivolta morale), scatenando un imprevedibile meccanismo di catarsi fatto di sberleffi e autocommiserazione, un rituale di purificazione costruito sull'insulto e sul sogno di essere diversi.

Conclusione

I profeti

Uno degli aspetti che colpisce di più in comici come Grillo non è la capacità d'invenzione. Certo, la forza della deformazione grottesca, il gusto dell'assurdo, la capacità di cogliere il dettaglio rivelatore e amplificarlo fino a smasherare prepotenze e ipocrisie, è innegabile. Ma, a ben guardare, i più efficaci dei nostri comici si limitano a un diligente realismo: registrano la realtà, e la ripropongono per quella che è. Ci raccontano del mondo in cui viviamo, e nel quale non ci accorgiamo di vivere. Del resto, quando vogliono lavorare veramente di fantasia, non hanno vita facile: per fare solo il più banale degli esempi, chi potrebbe superare il ministro Goria, inventore dell'irresistibile gag estiva del superbollo per patenti e passaporti? Certo, i già citati Fo e Rossi avevano previsto quasi tutto di Tangentopoli, e con anni d'anticipo. Nella sua Commedia da due lire, per esempio, ispirandosi a Gay e Brecht, Rossi raccontava di una città ormai in mano a una banda di gangster politici, arroganti e pasticcioni, e di una storia molto simile alla Duomo Connection. "In questo paese lo Stato c'è, esiste, e si è insinuato come un cancro nel corpo della Mafia", ghignavano Rossi e soci con qualche anticipo su Di Pietro, e promettevano un 5% di diritti d'autore al Comune di Milano, perché storie come quella non si inventano. E, tornando ancora più indietro nel tempo, in Settimo ruba un po' meno, Dario Fo anticipava le tecniche di Chiesa e soci per intascare le bustarelle su cimiteri e affini: ora è lui che chiede i diritti d'autore alla società dei mariuoli che sembrano aver copiato a man bassa (che per la verità in molti casi hanno superato il maestro), e intanto lavora al sequel di quel fortunato spettacolo, con Di Pietro tra i protagonisti. Definire Rossi e Fo dei profeti sarebbe esagerato. Ma sulle loro battute, qualche tempo fa, abbiamo riso in molti. Ora che la realtà ha superato anche la loro immaginazione, di cosa ridemo? Forse tra poco nascerà un comico tanto bravo che saprà prevedere l'Apocalisse italiana. Da questa intuizione, ricaverà una farsa sgangherata e apparentemente assurda, ma molto, molto divertente. E noi ci divertiremo da morire: la nostra Apocalisse prenderà allora la forma della gigantesca risata sotto cui ci seppelliremo, noi e i nostri problemi, noi e le nostre vergogne, noi e le nostre bassezze, noi e i nostri egoismi. Ma forse non c'è bisogno di preoccuparsi tanto. Forse quel comico così bravo e divertente non può esistere. Forse l'attuale ipertrofia del comico è una moda passeggera, frutto di un periodo di crisi, che lascerà qualche traccia nella storia del teatro e del costume, ma non ci travolgerà. Forse aveva ragione Alberto Savinio, quando annotava nella Nuova enciclopedia che "il comico ha vita breve. Presto si spegne e anche più presto si corrompe. (...) Il comico, per essere fresco ed efficiente, va rinnovato di giorno in giorno, se non addirittura di ora in ora. Guardate come una freddura, una barzelletta invecchiano nel giro di pochi giorni."
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