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V. Il Patalogo 15: la stagione 1991/1992

 

 

V.1. Ricerca addio?

 

Il Patalogo 15 propone un unico, grande "speciale". E si tratta ancora di un'inchiesta, curata da Renata Molinari e Oliviero Ponte di Pino. Il dibattito, cui sono invitati a partecipare i maggiori esponenti del teatro italiano, si incentra sul concetto di "ricerca", molto utilizzato nei decenni precedenti per indicare un teatro che si pone come obiettivo la sperimentazione individuando nuovi percorsi, e promuovendo una riforma della macchina scenica sclerotizzata nelle forme della tradizione. Agli inizi degli anni '90 è ancora possibile parlare di teatro di ricerca? Questo è l'interrogativo principale, che dà luogo ad un'altra serie di domande correlate:

 

La ricerca teatrale in Italia è morta? Questo fenomeno riguarda solo il nostro paese o si manifesta, con ovvie differenze, anche nel contesto internazionale? Si è semplicemente esaurito un ciclo, oppure qualcuno ha, per così dire, commesso un assassinio? O invece la ricerca è solo diventata meno individuabile? Oppure, a voler essere ancora più radicali, non è mai esistita? Come ti collochi in questa dimensione e come vivi l’attuale, problematico momento? E quali sono le prospettive per il futuro?[1]

 

Questo quesito, nella sua formulazione in parte provocatoria, si presta alle considerazioni più disparate. Ma leggendo tra le righe, le varie risposte si possono accorpare secondo alcune linee di tendenza che emergono costanti all’interno dei diversi punti di vista. In primo luogo si riscontra da parte di alcuni degli interpellati un senso di fastidio - probabilmente previsto dagli stessi promotori dell’inchiesta - per i quesiti, che sembrano essere considerati alla stregua di inutili sovrastrutture poco attinenti al mondo del teatro e alle sue evoluzioni. Tra coloro che hanno optato per un “Non è questo il punto” un po’ snobistico ecco Elio De Capitani che, nel suo intervento, rivendica la condizione di “crisi” come elemento peculiare della stessa natura del teatro, sempre in bilico tra la sopravvivenza e la scomparsa. In questo senso egli rifiuta di definire i nascenti anni ’90 come l’inizio della fine della ricerca teatrale. La morte del teatro – sempre in agguato – non è che lo stimolo a continuare.[2]

Più decisa e polemica la risposta di Claudio Remondi e Riccardo Caporossi, che non celano dietro la gentilezza il loro intento polemico[3]: la critica del duo si rivolge a quello che viene visto come un eccessivo dogmatismo nella categorizzazione delle forme del teatro. Da cui deriva una presa di posizione a difesa della propria soggettività artistica fuori dalle etichette.

Andrea Taddei si oppone ad un’idea di ricerca teatrale “assistita” e sovvenzionata, e muove alle tesi proposte l’accusa di essere eminentemente teoriche, non fondate sul reale lavoro degli artisti:

 

La "Ricerca", come attitudine, è indipendente da settori e da manovre amministrative, si è fatta in tempi e in luoghi in cui la Pubblica Assistenza non esisteva, si è fatta dopo e si continuerà a fare [...]. Mi pare che la parola in questione sia più sulla bocca di critici e studiosi che su quella degli attori; un artista, se lavora onestamente, lo fa senza barriere di terminologia.[4]

 

Questo intervento introduce un altro punto ricorrente. Il parere di molti interpellati infatti è che ormai una netta divisione tra “tradizione” da una parte e “ricerca”, “sperimentazione” dall’altra non sia più attuale. Questo il senso dell’intervento del Centro Servizi e Spettacoli di Udine, che invoca il superamento di una dicotomia, tutta italiana, tra le forme più “avanzate” di teatro e le zone invece dove si annida la conservazione. Da qui l’auspicio a considerare queste categorie non più attuali ma nel loro significato storico, sperando nel loro superamento e nella successiva riunificazione in un unico ambito, il teatro stesso. Il gruppo udinese spinge verso un aggiornamento delle categorie di giudizio, anche in vista del cambiamento di aspettative da parte degli spettatori.[5]

Della necessità di appianare una così netta e radicale divisione tra i due mondi del teatro italiano, che si guardano a vicenda con sospetto e disprezzo, parla anche Sandro Lombardi, attore storico di uno dei gruppi più “sperimentali” degli anni ’80, quello dei Magazzini:

 

C'è stato un momento in cui molti hanno creduto che il mondo si potesse facilmente dividere manicheisticamente in due: di qua il bene di là il male, di qua la ricerca di là la tradizione, di qua il nuovo di là il vecchio, di qua l'avanguardia di là la routine... Ma come tutti gli schemi, anche questo andava stretto alla realtà delle cose e a un certo momento abbiamo sentito la necessità di scegliere tra l'elaborazione di nuovi schemi, contrapposizioni, schieramenti, strategie, frontiere; e l'abbandono di ogni schema...[6]

 

In queste parole si scorge la necessità di ridefinire il campo di intervento, di eliminare steccati che ormai vanno “stretti alla realtà delle cose”. E’ insomma una proposta di azzeramento delle esperienze precedenti – custodite però gelosamente nel vissuto e nella memoria, come dice lo stesso Lombardi in un altro passo del suo intervento – per ricominciare di nuovo secondo altri schemi.

L’esaurimento di una fase storica e il conseguente desiderio di indirizzare la ricerca teatrale verso percorsi nuovi, senza reclinare nella riproposta di esperienze importanti, ma concluse, stanno al centro dell’intervento di un altro artista nato e cresciuto in una dimensione di alta “sperimentazione”, Giorgio Barberio Corsetti. A suo parere è nella rifondazione e nella ridefinizione dei campi d’intervento che può nascere una ricerca “nuova” e vitale.[7] Questo anche in considerazione di una mutata situazione sociale e istituzionale, che tende ad allontanare gli spettatori dal teatro sperimentale.[8] Il mancato radicamento delle esperienze sperimentali degli anni ’70 e ’80 suggerisce a Corsetti di reperire nuove forme, nuovi canali e nuovi spazi per “ricercare” diversamente il teatro.

Mario Martone si dichiara convinto che la sperimentazione teatrale non possa scomparire, e individua proprio nella “ricerca” di nuove vie il fondamento di qualsiasi forma d’arte. Ma concorda nell’affermare che si è verificato un superamento delle forme con cui la ricerca teatrale si è manifestata negli anni addietro:

 

Si è esaurita la corrente artistica del nuovo teatro, così come si era definita tra la fine degli anni Sessanta e l'inizio degli Ottanta: il teatro immagine, il teatro concettuale, la postavanguardia, il terzo teatro...[9]

 

Giancarlo Cauteruccio, pur convenendo sul fatto che la ricerca teatrale in Italia sia ad un punto cruciale, ad un passo dalla scomparsa e bisognosa di ridefinizione, d’altro canto ravvisa i pericoli di uno slittamento del teatro sperimentale verso forme più tradizionali, che implicherebbe un abbandono del percorso compiuto nel decennio precedente e un ripiegamento “di convenienza” verso pratiche sceniche “accademiche”. Il fondatore di Krypton, gruppo fortemente legato alle esperienze di teatro “visuale” che hanno attraversato gli anni ’80, rifiuta quello che lui percepisce come un “ritorno all’indietro”.[10]

Nanni Garella infine analizza la situazione del teatro italiano partendo dai luoghi fisici, dagli stessi edifici teatrali. E individua in essi una stagnazione, una fossilizzazione, una sclerosi della scena, che si coniuga ad un abbandono delle sale da parte degli spettatori.[11]

 

Un’altra serie di interventi si focalizza sul vuoto istituzionale come causa principale della crisi del teatro di ricerca. La critica della politica culturale statale si lega alla richiesta di un maggior impegno, anche - ma non solo - sul versante finanziario.[12] Renato Borsoni sottolinea l’inadeguatezza del contesto culturale in cui è inserito il teatro italiano, e punta il dito contro l’indifferenza dello Stato, chiedendo finanziamenti adeguati alle esigenze della sperimentazione.[13]

Gigi Dall’Aglio parte dall’analisi sconsolata della realtà per sottolineare come, per uscire dall’impasse, le istituzioni dovrebbero abbandonare la logica del facile consenso e rischiare in prima persona.[14]

La mancanza di un punto di riferimento istituzionale è evidenziata anche dal j’accuse di Pippo Di Marca, che invoca un cambio di mentalità, e l’apertura di spazi e risorse per una ricerca libera dalle greppie di una visione del teatro in termini di mero consenso e botteghino:

 

Non c’è nessun quadro istituzionale. […] Perché invece dei palliativi di qualche concessione o di qualche timida “parvenza” di laboratorio […], non si riducono i pesi e i condizionamenti da aziende private commerciali ai quali sono sottoposti i gruppi della Ricerca? O, meglio ancora, perché non si creano, come in altri paesi in cui il sistema teatrale è più evoluto, strutture pubbliche per la Ricerca affidate agli artisti? Perché non si trasformano tanti inutili carrozzoni di teatri Stabili in veri Spazi per la Ricerca?[15]

 

 

Un ultimo gruppo di interpellati si occupa invece dei nuovi possibili territori in cui incanalare la sperimentazione. E uno soprattutto viene messo in particolare evidenza dall’intervento di Angelo Savelli, che vede nella drammaturgia il nuovo orizzonte della ricerca:

 

In ultima analisi io credo che il laboratorio del nuovo si stia spostando dalla Scena (luogo ormai usurato dai continui capovolgimenti e stravolgimenti, esaltato e negato in tutte le combinazioni) verso la Scrittura, dove, grazie a drammaturghi come Scaldati e Moscato [...] si aprono adesso più concrete possibilità di sperimentare nuovi modelli di rappresentazione. [...] Oggi è nella scrittura che si è istallata la ricerca della contemporaneità ed è proprio da qui che la ricerca teatrale deve ripartire[16].

 

Una risposta a queste affermazioni viene proprio da uno degli autori citati da Savelli, Franco Scaldati, che illustra la sua accezione del termine “ricerca”, riferendosi alle proprie pratiche espressive[17].

 

Dalle risposte raccolte, pur nelle differenze di opinioni e valutazioni, emerge una tendenza generale a non dare la ricerca teatrale per morta, anche se tutti gli interpellati concordano nel definire i primi anni ’90 come un periodo da una parte di stagnazione dei fermenti di novità e dall’altra di ripensamento a tutto tondo delle pratiche teatrali in relazione al contesto socio-culturale in cui si iscrivono. Stanti queste considerazioni comuni, alcuni artisti pongono l’accento sull’esaurimento di un filone, quello che ha attraversato i due decenni precedenti, e cercano di individuare nuovi percorsi. Altri considerano sorpassate le stesse nozioni di “ricerca” e “sperimentazione” nella loro contrapposizione frontale con il terreno della cosiddetta “tradizione”, e auspicano il superamento di questa dicotomia. Altri ancora puntano il dito contro le istituzioni pubbliche, ree di non manifestare alcun interesse (sia culturale che finanziario) per il teatro di ricerca, e di porre al primo posto della valutazione di un’esperienza artistica il consenso (soprattutto economico) che essa porta con sé. Non mancano poi i nostalgici del passato, che si rifiutano di dichiarare l’estinzione e la consunzione delle precedenti sperimentazioni. Ma c’è anche chi individua concretamente i nuovi percorsi da seguire, le nuove forme da incoraggiare: all’interno di questo gruppo d’interventi assume particolare importanza l’attenzione rivolta alle nuove drammaturgie, che da lì a pochi anni esploderanno come fenomeno trainante di rinnovamento del teatro.[18]

 

 

V.2. Il lavoro di tre maestri

 

Tre percorsi esemplari sono riassunti nelle recensioni critiche e nelle dichiarazioni dei protagonisti della "mini-sezione" intitolata "Dall'estero". Più che di un’area tematica omogenea si tratta in realtà della cristallizzazione sulla pagina di alcuni momenti di grande teatro. Gli spettacoli considerati non sono infatti affini e collegabili, non presentano particolari elementi comuni, tranne quello – importante - di essere stati, nella diversità dell’elaborazione di ciascuno, dei grandi eventi. Il lavoro degli stessi creatori - Robert Lepage, Robert Wilson e Peter Stein – non offre alcun elemento a una ricerca di elementi unitari. La selezione del Patalogo si riferisce esclusivamente alle diverse messinscene che ognuno dei tre registi ha portato in giro per l’Europa nel corso della stagione. L’attenzione è rivolta a quello spettacolo particolare, come evento memorabile, caratterizzante l’intero anno teatrale e perciò degno di essere fissato per sempre sulla carta. E’ un altro dei modi scelti dal Patalogo per raccontare il teatro di una stagione: attraverso i commenti degli stessi artisti e le recensioni critiche offre un’articolata testimonianza di tre grandi spettacoli.

Nell’analisi di questi spettacoli - La Trilogie des Dragons, Poligraphe e Les aiguilles et l'opium per Lepage, Doctor Faustus Lights the Lights per Wilson e lo shakespeariano Julius Caesar per Stein – al centro sta la figura del regista come organizzatore della scena e sorta di "deus ex machina" dello spettacolo.

Attraverso questa raccolta di materiali vengono evidenziati gli elementi portanti di ciascuna rappresentazione, nelle loro relazioni con l’estetica del regista che l’ha concepita ed allestita.

Nel caso di Lepage, la caratteristica maggiormente posta in risalto è la dimensione da grande opera, da kolossal, presente – in modo diverso di volta in volta - in tutti gli spettacoli portati in giro per l’Europa da questo giovane regista canadese nel momento della sua consacrazione tra i grandi della scena di fine millennio. Il continuo intreccio di piani narrrativi, spazi e tempi che caratterizza la Trilogie des Dragons emerge dalla selezione di interventi offerta dal Patalogo 15.[19]

Franco Quadri mette in evidenza la fitta trama di connessioni che determina anche il secondo spettacolo del regista canadese, Polygraphe:

 

Lo spettacolo [...] racconta stavolta un poliziesco sui generis, la vicenda in flashback di un delitto che si sovrappone a un precedente delitto per cui l'attuale protagonista [...] è sospettato e su cui si sta girando un film dove rimarrà vittima per violenza la protagonista femminile.[20]

 

La sovrapposizione di diversi piani narrativi compare infine in altra forma anche nel monologo di Les aiguiles et l'opium - di cui Lepage è oltre che interprete autore, scenografo, e creatore delle luci – per come ci è raccontato dal critico francese Jean St-Hilaire[21], che mette poi in evidenza come l’ampiezza delle dimensioni, sia sul piano spaziale che su quello temporale, contraddistingua anche il disegno della storia.[22]

 

Il discorso su Doctor Faustus Lights the Lights è incentrato sul lavoro compiuto dal regista insieme al suo gruppo di attori - tutti provenienti dall'ex Germania Est - sul testo di Gertrude Stein, una sorta di parodia "mefistofelica" del capolavoro goethiano dalla scrittura altisonante e ritmata. L’intervento registico sul testo, che ne amplifica e perfeziona le potenzialità, è descritto creando una corrispondenza tra le tortuosità testuali e l'impianto scenico.[23]

Ma è soprattutto l'effetto ottenuto dall'incontro tra un testo dalla particolare struttura "formulare", il lavoro di Wilson alla composizione delle scene e la recitazione degli attori, digiuni di pronuncia inglese, che rende memorabile lo spettacolo.[24]

Del testo di Gertrude Stein parla infine anche lo stesso Wilson, di cui è riportato un lungo brano da un intervento in occasione della prima di Doctor Faustus Lights the Lights a Berlino. Il regista catalizza la sua attenzione sull'interpretazione degli attori (tutti giovanissimi), e esprime il suo apprezzamento per il lavoro da essi svolto su un testo di così difficile approccio:

 

Uno dei motivi di fascino risiede nell'ascolto del teatro inglese detto con strani accenti tedeschi: è una cosa bellissima, una specie di musica che io non saprei esprimere. [...] E' un testo difficile da dire, non bisogna caricarlo di troppa forza; occorre conservare le sonorità delle parole nella propria testa e lasciarle risuonare, per poterne sentire il suono, ciascuno a suo modo.[25]

 

 

Nelle descrizioni del Giulio Cesare di Shakespeare secondo Peter Stein - con cui il regista esordisce nel 1992 alla direzione artistica del Salzburger Festival - emergono soprattutto gli elementi di analisi "politica" della realtà. Sono infatti le scene di massa a colpire maggiormente i critici, che le descrivono come metafore della costante inclinazione dell’uomo a essere in ogni epoca affascinato e sedotto dal potere: anche nel momento in cui è in atto una lotta di liberazione, infatti, un nuovo potere è in agguato, pronto a sostituirsi al precedente, detronizzandolo in nome della libertà. Questo è il filo comune che lega le diverse recensioni allo spettacolo, nelle quali viene messa in risalto l'abilità con cui il regista contrappone alle grandi figure individuali del dramma shakespeariano l'indistinto della folla, tragicamente manipolata dagli stessi individui che affermano di volerla affrancare, attraverso l'omicidio di Giulio Cesare, dal giogo della tirannia.[26]

La guerra fratricida è il risultato finale di un movimento sociale che ha come obiettivo la rivoluzione e la democrazia. Stein si dimostra il maestro che è nel far affiorare questo fenomeno di manipolazione delle masse popolari. [27] La scelta registica di far vestire alla folla abiti indistintamente "moderni" e proletari colloca questa condizione di asservimento - inconsapevole - al potere e alla sua forza di persuasione in una dimensione astorica che bene può richiamare l'attualità. [28]

 

Lo stesso Peter Stein, in un'intervista di cui il Patalogo riporta ampi stralci, fa riferimento alla sua scelta di caratterizzare in chiave "moderna", contemporanea, il coro della folla:

 

All'inizio di Giulio Cesare sembra di stare in un paese d'oggi, con la presenza degli operai. L'immagine delle masse è legata a quello che abbiamo visto negli ultimi anni.[29]

 

 

Gli spettacoli allestiti da tre maestri sono prescelti, all’interno del Patalogo 15, per dare un saggio del teatro che si svolge fuori dai confini nazionali. Di ciascuna di queste rappresentazioni viene ricostruito il tratto dominante, l’elemento che più la contraddistingue: dei tre spettacoli di Lepage è sottolineata la grandiosità del disegno complessivo dell’opera; nel caso di Wilson è messa in evidenza la sinergia tra il testo prescelto, la direzione registica e l’interpretazione degli attori; nella versione del Giulio Cesare shakespeariano curata da Peter Stein emerge come determinante la volontà di potere dell’uomo e la conseguente manipolazione delle masse per ottenerlo, viste in un’ottica contemporanea. Il racconto sui tre spettacoli si polarizza attorno a queste chiavi di lettura, attraverso le parole degli stessi registi e una scelta di contributi critici.


 



[1] Cfr. “La ricerca è morta? Inchiesta a cura di Renata Molinari e Oliviero Ponte di Pino”, in: il Patalogo 15, pp. 263 – 282.

 

[2] “Da quando faccio teatro mi trovo davanti, più o meno travestita, la stessa domanda fanfarona sul teatro e le sue condizioni di salute. Mi risulta che il teatro sia in costante crisi da cento e più anni. Forse da secoli. E’ il momento di rendersi conto che la crisi e la morte sono la condizione permanente del teatro, quasi uno statuto costitutivo, non meritano l’enfasi imbalsamata dell’attualità rilanciata ogni tre mesi”. (Ibidem, p. 268).

[3] “E' fin dal nostro inizio che ci vengono rivolte domande di questo tipo. Noi speriamo che considerarle ancora una volta permetta finalmente a chi le formula la necessaria riflessione dei danni che ha provocato e che ancora può provocare. Il teatro non è l'applicazione di una ricetta, è la consapevolezza di cosa si sta facendo, è la manifestazione di un pensiero che ha necessità di trovare la propria espressione mediante quel segno, giusto e comunicativo”. (Ibidem, p. 275).

[4] Ibidem, p. 279.

[5] “Quello della ricerca e sperimentazione è un fenomeno che solo in Italia ha trovato uno spessore e una caratterizzazione tali da configurarne un vero e proprio settore teatrale. […] In nessun altro paese europeo la ricerca ha saputo (o dovuto, per l’impermeabilità del sistema) creare una sorta di specializzazione parallela, che ha condizionato un’intera generazione, non solo in senso anagrafico, ma anche culturale e di costume. […] Per un largo periodo questa vicenda ha quindi proposto la coesistenza di due modelli, che nemmeno superficialmente si assomigliavano, ma che anzi vedevano quello della ricerca antitetico a quello che potremmo definire convenzionale. […] Entrambi oggi […] sono categorie storiche invece che culturali, che non testimoniano più l’una in alternativa all’altra, non più sistemi culturali contrapposti ed escludenti”. (Ibidem, p. 265).

[6] Ibidem, p. 271.

[7] “La ricerca non è morta né in Italia né altrove. Probabilmente si deve ricominciare da capo. […] Un contesto che aveva favorito la nascita e la proliferazione delle esperienze teatrali, di ricerca, dell’attività culturale in generale è definitivamente scomparso negli anni ’80. […] Scena, attori, pubblico: si deve iniziare di nuovo, senza dare per scontato nessuno di questi termini, rifondandoli e spostandoli, mettendo in moto ogni strategia per la conquista di un territorio devastato”. (Ibidem, p. 264).

[8] “Se una forte spinta della ricerca c’è stata, è mancata la possibilità di un radicamento, spazi, teatri, luoghi dove agire, tramandare l’esperienza, creare un’abitudine, uno scambio che facesse crescere il rapporto con un pubblico numeroso che per lungo tempo ha seguito il lavoro e che tende ora a essere sempre più indifferenziato. Se il pubblico ora è più indifferenziato e indifferente, meno curioso, è perché non si identifica, non partecipa, semplicemente va a vedere, e spesso non sa cosa vedere”. (Ibidem, p. 264).

[9] Ibidem, p. 273.

[10] “Credo che non si possa parlare di morte del teatro di ricerca, ma piuttosto di confusione. Certo la crisi che ha investito il teatro ufficiale non ha risparmiato la ricerca, la quale, anzi, è diventata capro espiatorio di una situazione generale gravissima. [...] Molte compagnie della ricerca, costrette da un lato, sedotte dall'altro, hanno attuato svolte estetiche repentine, distruggendo quella grande energia degli anni Ottanta basata principalmente su un teatro di immagini, di ritmo, di fisicità dell'attore-performer, in favore di quegli elementi meglio definibili come tradizionali (la parola, quindi il testo, spesso d'autore riconosciuto anche se rivisitato, il lavoro sull'attore con tecniche molto vicine all'accademia)”. (Ibidem, p. 270).

[11] Ibidem, p. 270.

[12] Questo argomento – come vedremo – occuperà un’intera sezione del Patalogo 17, che indaga i rapporti, a volte difficili, tra teatro e istituzioni.

[13] “Il teatro di questa fine millennio […] ha estremo bisogno di regolamentazione, di punti di riferimento collettivi, di riconoscimento da parte della società organizzata […]. Uno stato moderno dovrebbe consentire al teatro di radicarsi omogeneamente su tutto il territorio per iniziative delle istituzioni pubbliche decentrate; di organizzare le sue scuole di formazione; di costruirsi – o di ricostruire – i luoghi si spettacolo e di lavoro… Per fare ciò occorrono […] risorse”. (Ibidem, p. 265).

[14] “Il cosiddetto teatro di ricerca non c’è più. […] La ricerca è esistita, eccome. Anzi […] potrei accusare gli addetti ai lavori dell’informazione teatrale di non essere stati mai abbastanza lungimiranti nel definire il campo della ricerca e di aver definito come tale solo quella più esplicita e relativa soprattutto agli elementi dello spettacolo […] e di aver ignorato […] gli elementi della ricerca strutturale più profonda, basata sulle forme della relazione totale col pubblico. […] Oggi è ancora possibile la ricerca. Ma occorrono grandi strutture per poterla sviluppare. […] Per fare la ricerca bisogna rischiare. E non mi si venga a fare della retorica sulla parola “rischio”. Sto parlando di finanze”. (Ibidem, pp. 266 – 267).

[15] Ibidem, p. 269.

[16] Ibidem, p. 276.

[17] “Per me la parola "ricerca" indica, meglio di qualunque altra, la qualità del mio lavoro teatrale. Ricercare, per me, significa fare teatro. La scrittura è essenzialmente l'atto di ricerca di una necessità della scrittura. Per scrittura intendo soprattutto scrittura scenica, la pratica di tradurre concretamente una tensione poetica in evento comunicabile, in fatto teatrale.” (Ibidem, p. 277).

[18] Anche il campo della nuova scrittura teatrale avrà particolare risalto nei successivi numeri del Patalogo. In particolare ad essa è dedicata un’ampia sezione nel Patalogo 17, dal titolo “L’Italia delle drammaturgie”.

[19] Si veda la recensione di Irving Wardle per il “Times”: “Se anche il Festival Internazionale di Teatro di Londra non avesse presentato nient'altro, si sarebbe comunque guadagnato la sua rinomanza grazie al mirabile spettacolo del Téâtre Repère di Québec. La Trilogia dei Dragoni, la cui azione occupa settant'anni e si svolge in sette epoche diverse, recitata in inglese, francese e cinese è, infatti, un festival in se stessa: un'esplorazione del tempo e dello spazio canadese che demolisce trionfalmente l'idea di una dipendenza culturale dall'Europa o dagli Stati Uniti.” (Cfr. il Patalogo 15, p. 252). L’assimilazione di materiali eterogenei, e la complessa articolazione è sottolineata da Franco Quadri: “La struttura è quella del romanzo fiume, la saga familiare, depurata dalla cornice spettacolare dei film del genere, che attraversa tre generazioni. [...] La preoccupazione di documentare, caratteristica di Lepage quanto quella di trasfigurare, suggerisce di incamerare tutto ciò che può essere assimilabile: ed ecco fare capitolino un personaggio nato a Hiroshima, o Mao che fa la ginnastica mentre una suora missionaria tesse l'elogio della bicicletta.” (Cfr. il Patalogo 15,, p. 254).

[20]Cfr. il Patalogo 15, p. 254.

[21] “Ancora una volta [Lepage] insegue il vecchio sogno di un teatro totale: citazioni di film e di dischi impreziosiscono il racconto. Gioca anche con gli oggetti proiettati da dietro sullo schermo, ricorre alla fotografia, alla pittura, al disegno eseguito in diretta. [...] La messinscena si apparenta al montaggio cinematografico con i suoi continui passaggi da un luogo all'altro e in particolare con i suoi flashback.” (Cfr. il Patalogo 15, p. 255).

[22] “Luglio 1989, un quebecois fa una cura di disintossicazione amorosa in un hotel di Parigi, già noto per la sua clientela esistenzialista. Due artisti che egli idolatra, lo scrittore e cineasta Jean Cocteau e il jazzista Miles Davis, l'aiutano ad anestetizzare il suo male. In sogno evoca un paio di settimane del '49, in cui il primo soggiorna a New York e il secondo conquista con la sua tromba Parigi e Juliette Greco. [...] Tutto ciò abbraccia un grande arco di tempo e di spazio. Un piede in Europa, l'altro in America, Lepage soppesa le sue affinità culturali.” (Cfr. il Patalogo 15,, p. 255).

[23] Cfr. Si veda la recensione di Franco Quadri: “Il testo è costruito su un moltiplicarsi infinito di giochi di parole mono o bisillabiche, dove cambiando magari una sola consonante si fanno saltellare gli stessi suoni da un verso all'altro, come i ritornelli di un incantato scioglilingua. [...] Al labirinto della pagina Wilson risponde declinando i corpi secondo il ferreo alfabeto gestuale dei suoi esemplari spettacoli astratti, consumati in un gioco di linee, tra luce e controluce.” (Cfr. il Patalogo 15, p. 256).

[24] Si riporta la citazione di Gianfranco Capitta sull’argomento: “L'apparente insensata vaghezza della scrittura di Gertrude Stein e l'invenzione continua e rigorosa di Wilson contagiano i giovani attori, spesso irresistibili, con il loro inglese che la recente acquisizione rende comprensibile anche a chi si limiti a possedere un vago basic.” (Cfr. il Patalogo 15, p. 257). Anche Renato Palazzi compie un’analisi delle corrispondenze tra costruzione del testo e impianto spettacolare, rimarcando la felicità dell’esito finale, dovuta anche all’interpretazione degli attori: “A Bob Wilson il tracciato narrativo ideato da Stein non pare interessare più di tanto: il libretto [...] è infatti soprattutto una traccia eminentemente poetica, di cui balzano in primo piano - più che i passaggi della costruzione drammaturgica - le specifiche qualità della scrittura, una scrittura tutta "avanguardistica" e alquanto labirintica, fatta di assonanze, ripetizioni, cortocircuiti sonori, giochi di parole, ritmi punteggiati da improvvise rotture che non rimandano ad altro che a se stesse, una ricerca intrinsecamente musicale. [...] E' infatti davvero molto affascinante [...] la chiave interpretativa a cui approdano attraverso una sorta di azzeramento semantico o di congelamento del significato specifico delle singole battute, incapsulate in una scansione atona, senza coloriture, distaccata e quasi rigorosamente impersonale, caricata di una specie di ironico "straniamento" naturale.” (Cfr. il Patalogo 15, p. 257).

[25]Ibidem, p. 258.

[26] Franco Quadri sottolinea quest'aspetto di coralità drammatica: “ Clamorosamente Stein mette a nudo le arti furenti e gli effetti micidiali della manipolazione sulle masse e con grande intelligenza li esemplifica direttamente con l'uso di effetti captatori nei riguardi del pubblico. Come monito finale il proletariato sarà suddiviso nei due eserciti fratricidi a duellare con identiche uniformi.”(Cfr. il Patalogo 15, p. 260).

[27] L'istintualità ingenua che porta il popolo ad essere ingannato e circuito è al centro della riflessione di Maria Grazia Gregori: “I popolani irrompono dalle aperture laterali e dall'alto delle logge, pronti a gridare il loro entusiasmo, in un turbinio istintuale che li rende simili a tifosi che applaudono all'entrata nello stadio dei loro eroi, atleti di uno sport che ha come ricompensa il potere”. (Cfr. il Patalogo 15, p. 261).

[28] Gianfranco Capitta mette in risalto questo aspetto del Giulio Cesare come dramma della contemporaneità: “Stein dispiega la tragedia di Shakespeare lasciando trasparire in filigrana l'odierna tragedia del potere in una società governata per bande, i rapporti di forza e quelli di classe, la partecipazione e il peso del singolo nella politica, insomma il problema fondamentale della democrazia. [...] Le parole del poeta inglese prendono corpo e vita in personaggi che solo ammantano di panni curiali contemporanei abiti borghesi, mentre le masse [...] hanno abiti grigi e blu di foggia operaia, e fasce rosse sulla fronte e berretti da fabbrica in cui a seconda dei momenti si possono individuare Tien Am Men come la Danzica dei cantieri Lenin”. (Cfr. il Patalogo 15, p. 260).

[29] Cfr. il Patalogo 15, p. 261.


 
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