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vi. il patalogo 17: la stagione 1993/1994

 

 

VI.1. Teatro e contesto

 

Il Patalogo 17 presenta un’articolazione precisa e rigorosa, che scompone gli aspetti più significativi della stagione in aree tematiche distinte e individuabili, vere e proprie “polarità” immediatamente e facilmente riconoscibili sfogliando l'indice iniziale.

Gli eventi e i personaggi che caratterizzano il periodo sono rubricati secondo uno schema "a calendario": mese per mese, dall'agosto 1993 all'agosto 1994, il teatro italiano è analizzato in tutti i suoi aspetti, sia i più specifici e "tecnici", che appartengono cioè a pieno titolo all'universo teatrale, che quelli più legati al contesto socio-politico.[1] Al di fuori di questa distribuzione temporale delle notizie, si sviluppano autonomamente alcuni discorsi specifici.

Il primo tema affrontato riguarda il rapporto tra teatro e "istituzioni", e fotografa attraverso le opinioni di molti uomini di teatro e addetti ai lavori la situazione (non felice) del teatro italiano negli anni '90. All'esame della realtà spesso seguono alcune proposte per uscire dalla crisi - che tutti gli interventi mettono in risalto - e restituire vitalità e forza alla scena nazionale.[2] Molte sono le cause evocate a spiegazione di questo fenomeno di inaridimento delle nostre scene. Al centro di tutte le riflessioni sta una critica radicale dell'assetto politico-istituzionale in cui il teatro italiano è inscritto. Luca Ronconi parte dalla constatazione della perdita del pubblico, cioè della frattura che si è stabilita tra protagonisti e spettatori. In questa dicotomia, in questa avvenuta separazione, il regista vede il motivo scatenante e principale della difficile situazione.[3] La differenza tra la realtà italiana e quella di molti altri paesi in cui il teatro gode di una fertilità maggiore consiste per Ronconi nell'inadeguata "politica culturale" attuata in Italia da molti decenni. E il regista si spinge oltre nella critica: il teatro italiano è in crisi perché in tutti gli interventi, parziali e disorganici, che si sono susseguiti è sempre mancata un'attenzione a quella che è da lui stesso definita "rilevanza culturale" del teatro. In questo quadro si inseriscono i dubbi esplicitati dal regista sul termine stesso di "istituzione culturale":

 

Trovandosi in una simile situazione c'è da chiedersi: allora, c'è posto in Italia per una istituzione? ha senso che ci sia un'istituzione? che cosa dev'essere un'istituzione? e, se è un'istituzione, quale dev'essere il suo fine istituzionale? Non ci si può porre solo dei problemi puramente amministrativi, e invece solamente questi si tenta di risolvere. [...] I nostri teatri stabili non sono istituzione; non basta il fatto che siano sovvenzionati a farne un'istituzione; e al di fuori di questi non si può dire che esista un altro teatro, ma tanti altri.[4]

 

Il giudizio di Ronconi critica alla radice l'approccio che lo Stato ha avuto e continua ad avere nei confronti del teatro, che viene visto - afferma - in un'ottica puramente amministrativa e finanziaria, che trascura del tutto le realtà che progressivamente nascono sul territorio, e si concentra sulle attività "protette" dei Teatri Stabili, organismi desueti che non adempiono al ruolo per cui sono nati, quello cioè di essere istituzioni pubbliche che producono e distribuiscono il teatro per le valenze culturali che esso veicola.

Lo stesso giudizio negativo sulla situazione politico-istituzionale lo dà Massimo Castri, di cui Ettore Capriolo in un breve saggio riporta il pensiero[5]. In primo luogo è lamentata l'assenza di una legge, eterno tormento del teatro di prosa italiano che l'aspetta invano da decenni, che regolamenti l'attività teatrale secondo criteri precisi e univoci. In seconda istanza si analizza più tecnicamente il meccanismo delle sovvenzioni statali ai Teatri Stabili. Viene criticato aspramente il procedimento attraverso il quale il teatro pubblico accede ai finanziamenti: il breve respiro delle erogazioni stagione per stagione impedisce di fatto una programmazione lungimirante e di qualità. Castri dunque concorda con Ronconi sull'inadeguatezza dei Teatri Stabili come istituzioni culturali. Questa critica si accompagna alla proposta di costituire una “casa” del teatro:

 

S'intende per "casa" un luogo teatrale finalizzato non soltanto alla produzione di spettacoli - cosa che i nostri Stabili fanno già più o meno egregiamente - ma all'elaborazione di progetti che si protraggano nel tempo e soprattutto al permettere quelle condizioni di lavoro indispensabili alla realizzazione di tali progetti.

 

Le conclusioni a cui arrivano i due registi sono perfettamente sovrapponibili. Manca la progettazione, l'educazione, la predisposizione di luoghi e di risorse umane, oltre a un maggior intervento dello Stato in ambito finanziario. Il punto di maggiore consonanza tra i due registi è l'esigenza di un radicale mutamento di prospettiva e di approccio al teatro, sia per quanto riguarda le istituzioni pubbliche, di cui si sottolinea la carenza di progetto culturale, sia per quanto riguarda l'accesso ai finanziamenti, agli spazi, alle strutture pubbliche da parte delle realtà che sono fuori dal "circuito" dell'intervento pubblico.

A queste riflessioni si collegano anche le critiche e le proposte mosse in un comunicato-manifesto di riforma del teatro dai responsabili dei maggiori festival teatrali italiani: Asti Teatro, Festival di Santarcangelo, Festival di Polverigi, Volterra Teatro, Toscana delle Culture. Nel loro pamphlet, "Per una nuova idea di teatro pubblico", vengono ribadite le considerazioni esposte precedentemente, sottolineando come elemento determinante nel progressivo declino della scena italiana la mentalità economico-mercantile come presupposto base su cui misurare l'importanza del teatro:

 

Siamo al punto terminale di una fase che ha visto l'affermazione prima e il declino poi del teatro inteso come servizio pubblico, del decentramento, dei circuiti. In questi ultimi anni inoltre si è imposta una fuorviante concezione aziendalistica del teatro e della cultura che ne sta inaridendo le fondamenta di libero pensiero. Occorre restituire un senso al teatro d'arte come anima di un nuovo teatro pubblico, e rilanciare il teatro e la cultura non come mezzi di potere o di consenso, o sottoprodotti, ma come necessità primarie per uno stato sociale.[6]

 

Ecco allora che dai festival nasce la solecitazione a una riforma radicale dell'ambito politico-istituzionale, che ne ridefinisca e ridimensioni i ruoli e che sproni le stesse istituzioni pubbliche ad un grande processo di rinnovamento.[7] La proposta più specifica e forte è quella di rilanciare l'attività teatrale a partire dalle realtà locali, e soprattutto dai festival e dalle rassegne, considerati il luogo dove maggiormente si esprimono quei fermenti di vitalità e freschezza a partire dai quali si dovrebbe procedere alla rifondazione del teatro nazionale.

Sulla stessa linea si attesta anche Leo de Berardinis, nella sua duplice veste di autore/attore e di direttore artistico del festival di Santarcangelo. Anche lui parte dalla constatazione dell'impasse in cui versa il teatro italiano, e mette in evidenza il ruolo determinante avuto nella dissoluzione delle scene il ragionare esclusivamente in termini di "mercato", considerando il teatro in relazione a quanto esso produce in termini di incasso e di consenso. De Berardinis propone un diverso tipo di teatro, che recuperi la sua dimensione di servizio e la sua funzione di "collante sociale" di una comunità.[8] Anche l'artista napoletano nel suo discorso arriva a concordare con Ronconi e Castri. Al di là delle differenze che dividono questi artisti, il problema irrisolto su cui si deve concentrare l'attenzione è infatti il recupero di quella "valenza" culturale di cui parla Ronconi, e che Leo definisce invece "politica culturale":

 

Il problema centrale è quello della politica culturale e di come trasformarla in cultura politica, nel senso pieno, forte, partecipativo del termine.[…] Non è questo il momento di fare discorsi di categoria o di bottega, non è il momento di esclusioni. Bisogna mettersi tutti insieme, senza escludere nessuno.[9]

 

Leo de Berardinis pone l'accento sul valore "politico" dell'attività teatrale, ma in questo senso il termine "politico" è utilizzato estensivamente, per definire l'esigenza di partecipazione, di aggregazione sociale, di comunità, ambiti di per sé caratterizzanti il mondo teatrale nei suoi periodi d'oro.

Un tentativo concreto di cambiare la situazione di generalizzato degrado arriva dalla proposta della compagnia Teatri Uniti di Napoli, che partendo anch'essa dall'analisi del momento storico si apre poi ad un progetto di riforma:

 

Crediamo che sia assolutamente necessario che i teatri tornino ad essere "case". Il sistema che domina nel teatro italiano tende a cartelloni indifferenziati [...]. Il pubblico è pigro, si reca a teatro per consumare un rito stanco e per riconoscere il divo televisivo di turno. Non sembra esserci più né voglia né necessità di teatro. E invece noi pensiamo che proprio adesso che si afferma la comunicazione omologante dei mass-media, il teatro debba costituire il luogo dove tener vivi valori assolutamente alternativi a quelli dominanti.[10]

 

Ed ecco la conseguenza pratica delle considerazioni precedenti: Teatri Uniti si propone come elemento unificante in reazione ai "cartelloni indifferenziati". E anche in questo caso la risposta positiva alla crisi si riconduce a livello locale, si colloca sul territorio: la strada scelta dal gruppo partenopeo è infatti quella di sviluppare un “teatro napoletano”.[11] Questa proposta ha un chiaro valore programmatico. Contro la frammentazione, contro l'invasione del teatro "gastronomico" mordi e fuggi, viene ipotizzata un'attività stanziale, che elabori e sviluppi un progetto di carattere eminentemente locale, socialmente e culturalmente condiviso dalla collettività napoletana. Si torna al discorso di Leo de Berardinis, che mette al primo punto del suo ragionamento sul teatro il senso di appartenenza e la spinta alla partecipazione.

A chiudere la sezione che tratta il rapporto tra teatro e istituzioni pubbliche affiora un caso concreto, come di consuetudine nel Patalogo, che nella scelta delle tematiche prende sempre le mosse dagli eventi reali. La Societas Raffaello Sanzio di Cesena, gruppo di punta della sperimentazione teatrale, nel dicembre 1993 è stata radiata dal "novero" delle compagnie finanziate dallo Stato "in base a un inappellabile giudizio di merito artistico".[12] Contro questa forma di censura indiretta e contro l'ingerenza dello Stato in materia d'arte e ricerca la Raffaello Sanzio ha radunato a Cesena l'anno successivo, nel marzo 1994, un convegno cui critici e protagonisti del teatro italiano hanno analizzato (e stigmatizzato) le interferenze della burocratica organizzazione statale in ambito artistico. Al termine degli incontri è stato stilato un documento di appoggio alla compagnia cesenate, di cui qui sotto si riporta uno stralcio:

 

Una corrente ministeriale sta operando per scoraggiare la ricerca e a ridurre il nuovo teatro allo stato di impotenza, facendone un museo privo di ricambio socio-culturale. [...] Va rivendicato il rispetto ministeriale dell'indipendenza di chi fa teatro, senza discriminare artisti e operatori che non appartengono alle organizzazioni omologate. [...] Va attuata una politica di nuova apertura e di stimolo: la biologia teatrale non può fare a meno dei giovani. Eppure anche l'attività di formazione, determinante per lo sviluppo del teatro, è totalmente ignorata dall'attuale ordinamento ministeriale. E' dunque necessaria una ridefinizione della normativa specifica, perché si inverta l'attuale preminenza del lavoro morto (cartaceo e burocratico) sul lavoro vivo (artistico e produttivo).[13]

 

 

VI.2. La stagione shakespeariana

 

Il protagonista della stagione teatrale 1993/1994 viene individuato in William Shakespeare. Sia in Italia che all'estero infatti si moltiplicano le rappresentazioni dei testi del Bardo, le attualizzazioni, i riadattamenti, gli spettacoli che traggono lo spunto da una commedia per indirizzarsi poi verso tutt'altri percorsi. Il Patalogo 17 dedica agli allestimenti shakespeariani un'ampia zona, che prende in considerazione dapprima i lavori italiani per poi aprirsi al panorama internazionale.

Le produzioni nazionali sono introdotte da un saggio di Oliviero Ponte di Pino, che ne analizza le tendenze dominanti e mette in risalto le caratteristiche comuni a più esperienze:

 

Sono state soprattutto due le strade imboccate. Semplificando, la prima potrebbe essere ricondotta a Carmelo Bene, che procede per sottrazioni, svuotamenti e sintesi, seguendo una deriva nichilista che porta all'annullamento e alla dissoluzione del personaggio, e alla riduzione del plot a sua ossessione. [...] All'estremo opposto c'è invece la strategia "massimalista" imboccata da Leo de Berardinis, che negli stessi testi cerca le tracce di una sapienza che trascende la storia e i personaggi, per riscattarli in una dimensione che vuol essere insieme poetica e filosofica.[14]

 

Un procedimento per sottrazioni, dunque, cui si contrappone un disegno di ampio respiro teorico-filosofico. Ponte di Pino procede poi ad una divertita classificazione delle varie edizioni shakespeariane della stagione, suddividendole in "alla Carmelo", e in "alla Leo". Ma al di là delle differenze strutturali, l'autore del saggio individua un tratto che lega tra loro i diversi approcci alla parola shakespeariana:

 

Il presupposto comune consiste nel filtrare il testo attraverso la soggettività, nel ridurne la complessità drammaturgica, la prospettiva corale, alla dimensione lirica, facendo conflagrare nella pratica scenica il personaggio e l'attore creativo.[15]

 

La soggettività come filtro, il rivivere il proprio percorso attraverso il personaggio, concentrando l'attenzione sulla sua storia individuale e paradigmatica e di conseguenza tralasciando l'intreccio e la complessità del plot: queste sono le linee interpretative che emergono dall'analisi dell'autore. Questa soggettività come elemento centrale e costitutivo dei diversi lavori attorno a Shakespeare si riscontra negli altri interventi, che sono di volta in volta brani di recensioni o dichiarazioni dei protagonisti. Franco Quadri traccia i contorni dell'ultima tappa del percorso di Carmelo Bene all'interno del mondo shakespeariano, Hamlet Suite.[16] L'operazione è descritta come una personale "ricerca d'identità" dell'autore/attore Carmelo, che ricompone in un insieme unitario i frammenti dei suoi numerosi (e nascosti, e inconsapevoli) Amleti incarnati "quando non recitava Amleto". La dimensione soggettiva è fortissima.

Ed in chiave personale l'Amleto è letto anche da Federico Tiezzi, nel disegnare un progetto che includa paradigmaticamente e simbolicamente tre figure di "figli":

 

Ho in mente già da tempo una trilogia di cui Edipus è la prima parte, Porcile la seconda e l'Amleto di Shakespeare sarà la terza. In tutti e tre i testi c'è un risvolto freudiano: un'ombra paterna che chiede obbedienza ai figli e non la ottiene perché dai figli arriva la disobbedienza che significa rinnovamento.[17]

 

La soggettività emerge ancora in un altro esperimento su un testo di Shakespeare, l'Enrico V. Nella prospettiva di Pippo Delbono, la guerra di Enrico acquista i connotati di una lotta di liberazione interiore, di espressione definitiva della personalità, ottenuta attraverso una sfida impossibile come quella che Enrico compie nel dichiarare guerra alla Francia.[18]

Giorgio Barberio Corsetti, nel decrivere il suo lavoro sulla Dodicesima notte spiega la sua particolare lettura del testo shakespeariano, e il filtro personale ritorna ad essere il perno dell'operazione sul testo:

 

Filtrare la memoria, il testo, attraverso la soggettività (corpo e pensiero di un soggetto che vive ora) e restituirlo allo stato essenziale.[19]

 

Anche Elio De Capitani, nel suo Amleto, mette in risalto l'esemplarità della figura del principe di Danimarca. Già nell'utilizzo del titolo per esteso, La tragedia di Amleto, principe di Danimarca, il regista di Teatridithalia pone l'accento sulla vicenda singolare e individuale del protagonista, che diviene il “portavoce” dell’intero genere umano.

Di rielaborazione soggettiva parla anche Alfonso Santagata, che cerca un rapporto diretto con gli autori, da cui far scaturire una nuova - personale - scrittura drammatica. Nel presentare il suo Sonnorubato, pièce che si rifà al Macbeth, delinea con chiarezza questa sua metodologia:

 

Per me "la tentazione" è possedere qualcosa di tuo da un altro, il tuo sguardo rubato a un altro: un innamoramento di sentimenti che sono già tuoi. Nei miei lavori precedenti ho incontrato: Büchner in Büchner mon amour e Pà ubliè, Dostoevskij in Omsk, Cervantes in Saavedra, Handke in Dopo. Mai interessato a catturare le pagine già pronte di questi autori, ma per viaggiare attraverso le loro follie, le loro malattie, per far scattare il mio teatro, la mia scrittura, un gesto d'amore e di tradimento nello stesso tempo.[20]

 

 Sulla stessa linea - dare valore preponderante alla propria particolare prospettiva, a partire dalla quale leggere i personaggi di Shakespeare - si attestano anche i numerosi lavori presentati al festival di Santarcangelo nell'edizione del '94. Ancora Oliviero Ponte di Pino mette in risalto questo denominatore comune:

 

Gli Shakespeare di Santarcangelo '94 hanno imboccato la via del confronto diretto tra l'artista-creatore e il personaggio shakespeariano, esplorandone le possibili varianti. [...] E' da questo scontro con l'essenza (vera e presunta) del testo, dalle ossessioni che nascono da questa conflagrazione che diventa realmente possibile misurarsi con l'attualità del classico.[21]

 

L'immedesimazione con l'Amleto-attore è il tema intorno al quale ruota il Within Amleto di Reon Teatro (il legame tra artista e personaggio si coglie già dal titolo):

 

[Amleto] è un attore fuori parte, inattuale, che fa fuori con rabbia e malinconia la sua storia, la sua "compagna" di vita.[22]

 

Questa immedesimazione si fa ancora più forte nel discorso di Claudio Morganti, che attraverso un procedimento onirico si sostituisce al personaggio di Riccardo:

 

La notte che precede la battaglia di Bosworth Riccardo di Gloucester ha un incubo. Mi è capitato di sognare quell'incubo. Non c'erano più le vive presenze degli spettri che vaticinano disperazione e morte, ma lo stesso Riccardo sospeso e rarefatto nel sogno della sua vita, nel momento che precede la sua morte.[23]

 

Sul versante della soggettività come discriminante dell'interpretazione dei testi shakespeariani si inserisce infine Enzo Moscato, che riscrive completamente l’Amleto, contaminando passi dell’originale, inserendo elementi dialettali, e concentrandosi – attraverso un percorso a tappe, come le stazioni di una via crucis – esclusivamente sul personaggio di Amleto. Nella sua riscrittura, è sottolineato il carattere emotivo e irrazionale del dubitare di Amleto, che diviene il rappresentante dell'umanità tutta.[24]

 

Con il festival di Santarcangelo di conclude la panoramica sugli Shakespeare italiani, e si passa in campo internazionale, in cui vengono analizzati i lavori di alcuni registi illustri.

Un particolare aspetto della scrittura shakespeariana è messo in risalto da Stuart Seide, il regista che nel febbraio del '93 ha messo in scena l'Enrico VI al Centre Dramatique Poitou-Charentes di Parigi. Nella lunga intervista a lui dedicata, Seide spiega le motivazioni che lo hanno spinto a scegliere questo particolare testo, poco rappresentato e generalmente poco apprezzato. Il regista parla di "drammaturgia shakespeariana", con questo sintagma intendendo mettere in evidenza l’evoluzione che la scrittura di Shakespeare subisce all’interno di quello stesso testo: da un inizio “corale” e collettivo, Seide ravvisa il passaggio ad un epilogo segnato da una maggior “individualizzazione” dei personaggi, che assumono caratteri più contrastati e meno lineari. E afferma che la sua versione dell’Enrico VI segue questa linea interpretativa del testo.[25]

 

Il fulcro degli interventi dedicati alle messinscene shakespeariane europee è però un duplice confronto, svolto da Franco Quadri, tra i diversi modi di leggere e rappresentare due testi del Bardo: Racconto d'inverno, allestito da Irmgard Bergman al Dramatiska Teatern di Stoccolma e da Stéphane Braunschweig al Centre Dramatique National di Orléans, e Antonio e Cleopatra, nella versione di Peter Zadek per i Wiener Festwochen e di Peter Stein ai Festspiele di Salisburgo.

Il confronto tra Bergman e Braunschweig dà conto delle diversità - culturali, ma anche anagrafiche - che dividono i due registi:

 

La scorsa stagione ha offerto nel più vasto ambito europeo la rara fortuna di due bellissime messinscene del capolavoro, sviluppate su due linee del tutto divergenti eppure interessanti da ravvicinare, anche per la differente età dei due registi che vi si sono cimentati: un sommo al culmine della carriera come Shakespeare quando componeva la sua opera e un esponente della nuova generazione, men che trentenne, alla prova della consacrazione.[26]

 

Vengono individuate due linee di lettura antitetiche. Quella di Bergman, grande conoscitore dei sentimenti umani, che focalizza la sua attenzione sui risvolti psicologici della pièce, e quella del giovane Braunschweig, che invece parte da un'analisi capillare del testo. In questa diversità di prospettiva Quadri individua due diversi percorsi, uno che va dalla vita al teatro, e l'altro che viceversa partendo dal teatro (dal testo) viene progressivamente ad occuparsi della vita:

 

Significativamente il vecchio Bergman s'è accostato all'opera come poteva consigliarlo la sua esperienza, approfondendone i lati psicologici senza risolverne forse le ambiguità, ma radicandole in una visione estrema, conforme allo stesso tempo alla letteratura del suo paese e quindi interna a un personale universo creativo. Il giovane Braunschweig invece si interroga sui molti perché del testo [...], partendo da un'indagine strutturale. Un singolare tragitto rovesciato viene percorso dai due, se è vero che il primo prende spunto dalla vita (per quanto già evidenziandone, attraverso la cornice adattata, la finzione) per sorprendersi a giocare al teatro con la gioia di chi vi ritrova anni lontani, mentre il secondo, investigando sulla natura della pièce, arriva imprevedibilmente a cogliervi i segreti della vita, e naturalmente del suo teatralizzarsi.[27]

 

Il discorso analitico-critico poi si biforca nell'esame dei diversi esiti cui queste due modalità di interpretare il testo hanno dato luogo. Il "ritorno all'infanzia" contraddistingue il lavoro del regista svedese, che, dall’alto della sua genialità ed esperienza, guarda quanto avviene sul palcoscenico con gli occhi incantati di un bambino.[28] Della versione firmata da Braunschweig è messa in risalto soprattutto la capacità di sintesi, che rende “vero e avvincente l’oscuro viluppo, che segue un ritmo da romanzo, facendo brillare la metafora con l’ironia distaccata di una lettura brechtiana”.[29]

In una lunga intervista poi, lo stesso Stéphane Braunschweig spiega lo studio compiuto sul testo shakespeariano, e il lavoro con gli attori sui personaggi.[30]

 

Il secondo confronto è stabilito tra due riconosciuti maestri della scena internazionale. Le due realizzazioni, molto diverse tra loro, sono descritte puntualmente nelle loro caratteristiche peculiari. La messinscena di Zadek viene analizzata nel solco della tradizione del regista inglese, nel suo consueto procedimento di attualizzazione della vicenda:

 

Per lo specialista Zadek ovviamente l'attualizzazione è d'obbligo anche in questo spettacolo. [...] Ecco l'Antonio biondo e mattatore di Gert Voss, che ricalca di preferenza Lawrence d'Arabia, ma grazie a un cambio di copricapo ammicca a volte ad Arafat, incerto tra la djellabah e l'accapatoio, ma nelle campagne militari orientato verso le divise coloniali inizio secolo e circondato da soldati in kaki o con la bottiglia di whisky. [...] I romani ortodossi invece sono tutti banchieri della City.[31]

 

L'edizione di Peter Stein invece ci appare come un rigoroso esempio di fedeltà filologica al testo, fino al punto di limitare al minimo gli interventi di regia, per far prevalere la forza naturale del testo recitato:

 

Certo la concorrenza con l'altra edizione non ha motivo di esistere [...]. Stein ci propone infatti un maestoso e monumentale esempio di rigore, nella traduzione che lui stesso firma. [...] Sarei portato a credere che Stein, anche rimeditando precedenti storici, miri a sperimentare per la particolare ambientazione di Salisburgo un inedito linguaggio: diretto, forte, spogliato di convenzioni e artifici, che privilegi con la sua linearità il rapporto testo-attore-pubblico e veda il regista in veste di arcano armonizzatore.[32]


 



[1] Cfr. Allegato 1.

[2] La sezione e significativamente intitolata "Un'idea di teatro...", ed è introdotta dalle parole di tre maestri, che pongono interrogativi sull'arte teatrale e sulla vita stessa (Julian Beck, p. 104), descrivono l'esperienza sviluppata in Italia (Jerzy Grotowski, p. 109), raccontano le tappe del proprio percorso artistico (Eugenio Barba, p. 114).

[3] Cfr. Luca Ronconi, "A proposito di istituzioni", in: il Patalogo 17, pp. 123 – 124.

[4] Ibidem, p. 124.

[5] Ecco un passaggio del discorso di Ettore Capriolo: “Secondo Castri, sarebbe improprio dire che si sia costituito in Italia un teatro pubblico degno di questo nome. Anche per ragioni economiche: perdurando da decenni quel sistema di finanziamento a stagione (in attesa di una legge organica sul teatro tante volte sollecitata e/o promessa, ma mai uscita dal limbo delle chiacchiere) che impedisce, o rende spesso velleitaria una programmazione nel tempo non limitata a una serie di titoli da inserire nei cartelloni, il teatro pubblico in Italia [...] non è diventato quasi mai, per usare un termine caro a Castri, una "casa". (Cfr. "La casa del teatro. Massimo Castri secondo Ettore Capriolo", in: il Patalogo 17, p. 129).

[6] Cfr. "Per una nuova idea di teatro pubblico. Proposta di riflessione per la nascita di un teatro d'arte", in: il Patalogo 17, p. 131.

[7] Questo un brano della proposta: “Bisogna ridefinire le competenze del ruolo istituzionale e del ruolo artistico, riconoscendone differenze a autonomie, sia a livello centrale che locale, perché il rinnovamento non sia soltanto sulle scene, ma costituisca un ciclo virtuoso, riformulando una politica culturale in cui l'innovazione sia più forte della norma”. (Cfr. "Per una nuova idea di teatro pubblico. Proposta di riflessione per la nascita di un teatro d'arte", cit., p. 131).

[8] “Noi oggi viviamo in un momento grave, questo è chiaro a tutti. Ma era grave anche due anni fa, cinque, dieci. [...] La cultura in genere e in particolare il teatro è stata vittima dell'equivoco della sovrastruttura, e di un altro equivoco, quello dei consensi: meno gente va a teatro rispetto a quella che vede la televisione, quindi col teatro si potrebbe ottenere poco consenso, di conseguenza si potrebbe farne a meno. In realtà, se facciamo i conti e guardiamo come si muove ogni gruppo, con quali persone parla, che rapporti ha col suo pubblico, vediamo che milioni di persone possono essere sensibilizzate al discorso del teatro. [...] C'è bisogno oggi di un teatro che riscopra il suo senso come assemblea civile, e insieme come momento di incontro autentico fra persone reali”. (Cfr. "Politica culturale e cultura politica. Ugo Volli intervista Leo de Berardinis" in: il Patalogo 17, p. 133).

[9] Ibidem, p. 134.

[10] "Per un teatro d'arte. Un documento di Teatri Uniti", in: il Patalogo 17, p. 135.

[11] Ecco i termini della proposta di Teatri Uniti: “Noi oggi ci sentiamo pronti a programmare, col nostro proprio lavoro, per un periodo abbastanza ampio di tempo, un teatro napoletano. Un teatro di produzioni, e non di ospitalità, se non in casi particolari e per ragioni profondamente motivate. [...] Noi pensiamo a un teatro dove possiamo rappresentare i nostri spettacoli anche a lungo, dove possiamo provare, sperimentare, sbagliare, cambiare, imparare e insegnare. Un teatro legato a Napoli tematicamente, alla sua tradizione e alla sua sperimentazione [...]. Un teatro dove i testi non vengano proposti per ragioni di ammiccamento culturale, ma per la loro potenzialità di arrivare qui e ora, attraverso la messa in scena, con chiarezza agli spettatori”. (Cfr. "Per un teatro d'arte. Un documento di Teatri Uniti", cit., p. 136).

[12] Cfr. "La cultura teatrale tra bene comune e spirito di corpo. Forme contemporanee della censura di stato", in: il Patalogo 17, p. 139.

[13] Cfr. "La cultura teatrale tra bene comune e spirito di corpo. Forme contemporanee della censura di stato", cit., p. 139. Il grido d’allarme lanciato dalla Societas Raffaello Sanzio sembra avere sortito l’effetto voluto. Infatti nello stesso 1994 la compagnia cesenate si aggiudica il Premio Ubu Speciale “per la resistenza nel lavoro e nella posizione pubblica”.

[14] Cfr. Oliviero Ponte di Pino, "Il bardo alla nuova italiana", in: il Patalogo 17, p. 215.

[15] Ibidem, p. 215.

[16] “C'era una volta Amleto, ma non solo. Il percorso, costellato di ostacoli e entusiasmanti sorprese [...] ritorna indietro, inseguendo una ricerca d'identità tra gli innumeri Amleti che il grande attore ha interpretato quando non recitava Amleto, ma altri personaggi dentro ai quali cercava di sfuggire a se stesso. [...] Prima che a un revival l'excursus serve a ricomporre il senso di un personaggio nel quale è comunque impossibile non scovare di nuovo le testimonianze interiori dell'amato artifex, mentre il suo sussurro insinua la lettura edipica di Freud.” (Cfr. Franco Quadri, "Hamlet suite, il ritorno di Carmelo Bene", in: il Patalogo 17, p. 215).

[17] Cfr. Federico Tiezzi, "Un Amleto prossimo venturo", in: il Patalogo 17, p. 216.

[18] “Ho scelto l'Enrico V di Shakespeare come spunto per raccontare il cammino di un uomo che si è dato come obiettivo il raggiungimento di una cosa ritenuta da tutti impossibile (la conquista della Francia). E' la storia di una guerra che in realtà quest'uomo  sta conducendo dentro se stesso. Tutti gli ostacoli che gli si presentano - il tradimento dell'amico, la paura, il dubbio, l'arroganza - saranno necessari per arrivare alla sua vittoria. La conquista della Francia di per sé non è importante, ma è l'occasione che costringe il re a diventare un guerriero, inteso come colui che cerca dentro di sé un potere profondo e totale che gli permette di essere libero”. (Cfr. Pippo Delbono, "Una drammaturgia fisica per Shakespeare. A proposito di un Enrico V", in: il Patalogo 17, p. 217.

[19] Cfr. Giorgio Barberio Corsetti, "L'unidicesima, la dodicesima e la tredicesima notte (dopo lo spettacolo)", in: il Patalogo 17, p. 219.

[20] Cfr. Alfonso Santagata, "Sonnorubato. Macbeth secondo Santagata", in: il Patalogo 17, p. 222.

[21] Cfr. il Patalogo 17, p. 223.

[22] Ibidem.

[23] Ibidem.

[24] Moscato descrive la sua operazione sul testo shakespeariano: “Lavorando su una traccia puramente metaforica/fonematica dell'Amleto, il percorso di scrittura e di scena proposto tende a mettere a fuoco non tanto l'aspetto razional-sillogistico, l'astuto calcolo logico, camuffato da idiozia, giocato a più riprese dal personaggio, quanto semmai l'impenetrabile mistero, l'enigma-significante della sua anima, quel suo lirico segreto, quei suoi riti solitari, fatti di dubitazioni, "calembour", incessanti domande intorno al senso. Della vita e della morte, prima di tutto e poi, a seguire, intorno al senso stesso del "senso" con un movimento perpetuo, spiraliforme, reiterante, ossessivo, tipico della poesia, e che ha nella Lingua, nelle Lingue, il proprio campo/oggetto privilegiato di riflessione/indagine”. (Cfr. il Patalogo 17, p. 233). Il testo di Mal-d’-Hamlé è stato pubblicato nel 1999 da Ubulibri insieme ad altre tre pièce presentate da Moscato a Santarcangelo (cfr. Enzo Moscato, Quadrilogia di Santarcangelo. Mal-d’-Hamlé, Recidiva, Lingua, Carne, Soffio, Aquarium Ardent, Ubulibri, Milano 1999).

[25] Ecco le parole di Stuart Seide: “La scrittura stessa cambia nel corso dell'opera. Ho cercato di far evolvere la teatralità della messinscena in funzione di tale cambiamento. La scrittura di Shakespeare prende forma a poco a poco nell'arco dei quindici atti. Nella prima parte è  ancora convenzionale, schematica - ancora ancora aggrappata al Medioevo -, con un aspetto di epopea, di romanzo illustrato. [...] Ma la scrittura, la drammaturgia, la teatralità, in seguito si evolvono. A poco a poco, prende forma un pensiero, la profondità di un pensiero. La scrittura diventa sempre più ambigua, i personaggi sono sempre più contrastati. [...] Per riassumere, direi che ci sono tre teatralità: una teatralità da grande arazzo [...], una teatralità violenta da palcoscenico nudo, con una forte presenza di sangue [...] e una teatralità più profonda. [...] Niente di singolare [...] nei primi tre, quattro atti; poi il pensiero di Shakespeare si singolarizza sempre più... All'inizio è: "c'era una volta...". E sullo slancio di questa meccanica primaria il pensiero prende quota. [...] Se all'inizio si può parlare di infanzia e li ludico, lo sviluppo [...] ci porta verso un tipo di riflessione e una teatralità del tutto adulti. In qualche modo, si assiste alla nascita della drammaturgia shakespeariana.” (Cfr. "La nascita della drammaturgia shakespeariana. Colloquio tra Stuart Seide, Bernard Sobel e Alain Etienne a proposito di Enrico VI", in: il Patalogo 17, p. 240).

[26] Cfr. Franco Quadri, "Due generazioni e due latitudini davanti alla metafora delle stagioni. Racconto d'inverno da Bergman a Braunschweig", in: il Patalogo 17, p. 224.

[27] Ibidem, p. 225.

[28] “Questa è una storia complessa che un mago degli stati d'animo fruga e rivolta con l'inventiva del suo grande cinema e il sorridente gusto d'un vecchio artista che sogna di tornare bambino, anzi di guardare le cose piazzandosi sul palcoscenico dal lato dell'infanzia.” (Cfr. Franco Quadri, "Due generazioni e due latitudini davanti alla metafora delle stagioni. Racconto d'inverno da Bergman a Braunschweig", cit., pp. 226 – 227).

[29] Cfr. Franco Quadri, "Due generazioni e due latitudini davanti alla metafora delle stagioni. Racconto d'inverno da Bergman a Braunschweig", cit., p. 228.

[30] Cfr. "Il reale ritrovato, Colloquio tra Stéphane Braunschweig e Anne-Françoise Benhamou su Racconto d'inverno", in: il Patalogo 20, p. 238.

[31] Cfr. Franco Quadri, "Due maestri per Antonio e Cleopatra. Peter Zadek a Vienna e Peter Stein a Salisburgo", in: il Patalogo 17, p. 251.

[32] Ibidem, p. 253.


 
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