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vii. il patalogo 20: la stagione 1996/1997

 

 

VII.1. La violenza in scena

 

L'edizione del ventennale si presenta particolarmente ricca di spunti di riflessione. La struttura dell'Annuario procede per tappe, che evidenziano ciascuna un particolare aspetto caratteristico della stagione. A conclusione poi, il Patalogo 20 raccoglie una "metariflessione" articolata sul percorso compiuto nei vent'anni, cui si è già precedentemente accennato.[1] Ma molte sono le sezioni "speciali" dedicate a temi specifici. Tra esse, una è particolarmente significativa di una tendenza emergente sia in patria che all’estero: lo sviluppo di drammaturgie ed esiti scenici strettamente connessi alla dimensione della crudeltà, del sangue, della carne umiliata ed esibita. E’ automatico e immediato il riferimento al Teatro della Crudeltà di Antonin Artaud, che infatti è riecheggiato sin dal sottotitolo della sezione[2]: “Una scena dionisiaca e feroce dopo i cent’anni di Artaud”. Il filo rosso che congiunge le diverse esperienze raccolte è la comune volontà di portare la scena ad un livello quasi “mitico” e archetipico di ferocia. Ma anche l’esibizione del morbo, dell’atrocità della guerra, l’allusione (metaforica e non) a un potere sempre più efficiente e disumano. Questa unità di partenza si declina poi, ovviamente, nei più disparati modi, a seconda delle diverse concezioni artistiche dei gruppi e dei singoli. Ma l’obiettivo sembra essere in tutte queste esperienze mostrare un corpo “disumanizzato”, o “più che umano”, sempre in contatto con la sfera del dolore e della morte.

 

Il Premio Ubu per lo Spettacolo dell’anno nel 1997 è conferito a larga maggioranza[3] al Giulio Cesare che la Societas Raffaello Sanzio ha tratto dall’opera di Shakespeare e degli storici latini. Le riflessioni del gruppo cesenate introducono gli interventi della sezione dedicata alla Crudeltà. Romeo Castellucci spiega la sua lettura del testo shakespeariano come “rituale” arcaico del potere:

 

Nel Giulio Cesare si coglie l'operazione buia, sotterranea, acefala del potere, dove tutto converge e tutto congiura verso una morte che è densa di tratti primitivi ritualistici. E' il dramma dell'uccisione rituale del Re, così com'è descritta dalla più classica letteratura antropologica.[4]

 

La chiave antropologica ha il sopravvento: gli elementi di una carnalità ancestrale, di una forza brutale delle parole sono fatti emergere attraverso strumenti tecnologici di immediato impatto emotivo sugli spettatori:

 

Ci si è dotati di apparecchi che possano visualizzare non più il corpo, ma addirittura la carne delle parole. C'è un endoscopio che l'attore si inserisce in una narice e che permette di vedere il viaggio a ritroso della voce fino alla soglia delle corde vocali. Una proiezione centrale permetterà la visione della gola da cui esce la voce: il boccascena diventa una bocca e lascia vedere sul suo fondo le corde vocali, parmettendoci di arrivare a una letteralità che diventa vertigine. L'immagine vista realizza infatti la totale coincidenza fra la parola e la sua visione (la visione della sua origine carnale) e produce uno sbandamento perché non si sa più bene qual è la parte che prevale: se la lettera detta, o la veduta della lettera.[5]

 

Attraverso una trasfigurazione “elettronica” del corpo dell’attore recitante si ottiene il riavvicinamento delle parole al proprio significato primordiale, in cui la loro violenza è espressione di energia e di vita. Questo riavvicinamento muta l’essenza percettiva stessa delle parole e le fa divenire “carne”: in questo senso è giustificato parlare di “carne delle parole”.

 

L’attore come “strumento”, la voce e la parola intese nel loro significato pulsionale e primordiale stanno al centro di un’esperienza senza dubbio diversa da quella della Societas Raffaello Sanzio, ma che in un discorso sulle potenzialità fisiche di esprimere una forza cieca vi si può in questa sede accostare: si tratta del lavoro di Motus, il gruppo romagnolo che nella stagione 1996/1997 ha iniziato una serie di studi sull’Orlando furioso di Ariosto:[6]

 

Pensiamo agli attori come “macchine sonore” innanzitutto, amplificati, elettronizzati, sonorizzati, […] pensiamo alla “prevalenza dell’urlo”, alla vocalità che sta aldilà delle parole, […] pensiamo a una vocalità estrema che gratta le corde vocali, che fa accapponare la pelle, pensiamo alla voce che parte dal basso ventre… e poi sale sale al cervello acuta tagliente, pensiamo a una voce-lama cromata…[7]

 

Un orizzonte di morte, cimiteriale ed infantile ad un tempo, è quello che caratterizza un altro dei gruppi romagnoli emergenti, Fanny & Alexander. La loro poetica si snoda sempre attorno ai due poli antitetici dell’adolescenza e della fine, in un gioco continuo di morte e rinascita, che coinvolge l’universo della violenza inquadrandola però in una .dimensione onirica.[8]

 

Il terreno della violenza, sia essa strumento di denuncia, forza espressiva e simbolo allegorico, o manifestazione di una fisicità malata e martoriata che può condurre a scenari apocalittici o a viatici di purificazione è il tratto unificante di drammaturgie distanti sia geograficamente che esteticamente. L’avvento della “crudeltà”, con i suoi echi artaudiani, permette di considerarle, fatte salve le diversità specifiche, in un discorso unitario e omogeneo.

Enzo Moscato nel suo Lingua, Carne, soffio compie una contaminazione tra citazioni artaudiane e frammenti in napoletano. La vicinanza al visionario teorico francese si compie nei presupposti di tutta la sua operazione linguistica:

 

Il peso e la presenza di Antonin Artaud nel mio teatro, nel mio atteggiamento spirituale e pratico verso il teatro, non hanno bisogno di commenti. Gli ibridi-contaminati alfabeti di teatro che, dalla crudeltà, dalla malattia, dall'esagerazione - come forme naturali di vita, d'espressione - ho balbettato finora, traendoli dalla lezione di Artaud, sono credo, dentro gli occhi e gli orecchi di chiunque abbia potuto, per ventura, essere presente a un mio spettacolo: verifica in carne, sangue, umori, sudori, tremori, di ciò che penso debba essere la scrittura: sabbia, sabbia mobile, su cui scrivere di continuo, parole di continuo cancellate[9].

 

“Carne, sangue, umori, sudori, tremori”: queste sono le linee guida della drammaturgia di Moscato. Ma nello specifico del suo ultimo lavoro prende corpo soprattutto la dimensione del morbo, dell’infezione, del contagio:

 

Tra gli attributi, anzi, tra gli accidenti, di questi ibridi alfabeti, esposti di continuo, sulla scena alla cancellazione, alla effrazione, alla de-territorializzazione, del più spinto immaginario, l'attenzione, stavolta, mi si è focalizzata intorno allo spazio della peste, dell'infezione, dello scoppio, virulento e metafisico, del male, sul crollo degli ordini cosmici e umani precedenti, sulla formazione fulminante di quelli nuovi, come rinascenti, a loro volta, dalla cenere bollente e immaterica dell'Apocalisse. [10]

 

Una bestialità, un’oscenità della lingua si ritrova come punto forte anche della scrittura di Mariangela Gualtieri. Una primitività aggressiva del linguaggio contraddistingue l’operazione drammaturgica da lei svolta per Nei leoni e nei lupi, lo spettacolo presentato dal Teatro Valdoca nel corso della stagione:

 

Ogni attore ha sintassi propria. Dentro alla quale sta imprigionato e dalla quale comunica per intensità, per stupore, per schianti improvvisi che subito si richiudono. Lingua comune è quella bestiale dei corpi, delle bastonate, del rito osceno, del riso. Ciò che essi pronunciano è dentro la babele terrestre, lingua dal senso sfinito, suoni che preparano, come rampa di lancio, qualche rado verso da scagliare frontalmente.[11]

 

Sono descritte le necessità primarie, i desideri fondamentali che si esprimono nella loro corporeità primitiva all’interno della rappresentazione. E’ un emergere incontrollato delle pulsioni allo stato primordiale, che conduce l’attore ad una dimensione di arcaica e incontrollata ferinità animalesca.[12]

 

La violenza, la sopraffazione, la crudeltà sono elementi ricorrenti in territorio anglosassone. Questi temi si ritrovano nella scrittura di Harold Pinter, che recupera una pièce composta quarant’anni prima, La serra, individuando nella contemporaneità della fine del millennio gli elementi di sopraffazione, di totalitarismo e atrocità veicolati dal suo dramma, che diviene dunque tragicamente attuale:

 

Il mondo ha raggiunto La serra. Vi si parla di un regime totalitario, cioè un pazzo che è un assassino e ci sono molte persone chiamate pazienti, ma che sono prigionieri politici e noi del mondo fingiamo che non esistano più. Da quando ho scritto la commedia, le torture sono divenute sistematiche in tutti i paesi, anche nei cosiddetti paesi democratici, anche in Europa. [...] Il potere è diventato terribile.[13]

 

Oltre alla scrittura pinteriana, ormai “classica”, in Gran Bretagna negli ultimi anni ’90 sboccia una nuova generazione di drammaturghi che, per la loro predisposizione alla violenza in scena, sono definiti “New Angry Men”. Il leit-motiv che collega tutti questi nuovi autori, da Sarah Kane a Mark Ravenhill, da Martin Crimp a Philip Ridley - è un moto di ribellione verso la società che si palesa nell’addensare una grande dose di atrocità nelle proprie pièce. Il critico Michael Billington collega questa tendenza alla critica situazione sociale che ha caratterizzato il Regno Unito durante il ventennio di ininterrotto governo thacheriano, e analizza gli elementi comuni alle diverse scritture:

 

Sospetto che in parte questo fenomeno sia legato alla peculiarità della situazione politica inglese. [...] Questi nuovi drammaturghi provengono da una cultura comune. Condividono anche alcune opinioni: il rifiuto morale della società del guadagno, la fascinazione per il linguaggio, la preoccupazione per la violenza, la convinzione che non c'è niente che il teatro non possa mostrare.[14]

 

Il caso esemplare di Blasted il testo di Sarah Kane che per i suoi contenuti cruenti ha suscitato l’indignazione dei benpensanti inglesi dopo il suo allestimento al Royal Court Theatre nel 1995, ha mobilitato in favore della giovane autrice i maggiori intellettuali del Regno Unito. Edward Bond difende il dramma affermando che i suoi elementi di violenza sono ravvisabili in qualsiasi grande opera drammatica del passato. Anche un altro testo incriminato, Shopping & Fucking di Mark Ravenhill è al centro di una appassionata apologia ancora da parte di Michael Billington.[15]

Il nuovo teatro inglese[16] viene visto come il frutto di un’indignazione che si fa ribellione nella pagina e sulle scene, con l’obiettivo di scuotere con un linguaggio verbale e gestuale scioccante l’indifferenza degli spettatori.

 

Violenza, morte, morbo, carne, sangue sono elementi che ritornano anche nell’ultima parte della sezione, occupata da un’ampia ricognizione sul mondo della “nuova” performance. Francesca Alfano Miglietti, nel suo “Progetto di territori corporali”, raduna una schiera di performer e artisti visivi che piegano il proprio corpo ad alterazioni, mutilazioni e metamorfosi inseguendo il proprio codice espressivo.[17]

L’umiliazione, la malattia, la diversità,[18] l’alterazione sono i tratti comuni a questi artisti. Questi elementi si definiscono, come si è detto, attraverso il particolare uso che essi fanno del loro corpo in scena: “un corpo come struttura manipolabile pronta a ricevere al proprio interno innesti tecnologici che possono operare, agire, evolversi autonomamente, sostituendosi a organi destinati al decadimento fisiologico”.[19] Per ciascuno dei performer è tratteggiato un breve profilo artistico. Tagliarsi, sanguinare in scena, utilizzare pratiche sado-maso, crearsi delle stimmate artificiali attraverso corone di aghi sulla pelle sono tutti elementi di una tecnica che mira a esprimere e a mostrare la sofferenza attraverso l’immediatezza del corpo esibito. Franco B., Marcel.li Antunez Roca, Ron Athey, ClareAnnMatz, ciascuno seguendo il proprio percorso, cercano di “portare fuori” il proprio corpo, considerato come territorio di dolore e di vita, di morte e di rinascita.[20]

Un’esperienza parzialmente diversa, che si inserisce nella sfera dell’arte visiva ma che vede comunque una manipolazione del corpo attraverso la tecnologia elettronica è infine quella di Giancarlo Cauteruccio, impegnato con il suo gruppo Krypton nel loro Corpo sterminato.[21]

VII. 2. Il teatro della Differenza

 

La differenza, l’emarginazione, l’esilio, la lontananza: queste sono le parole che uniscono idealmente le diverse esperienze che formano la sezione del Patalogo 20 intitolata “Nomadi”. In essa confluiscono idee diverse di teatro, dal “caso” dei “barboni” di Pippo Delbono alle varie forme di teatro-narrazione, dal lavoro con i detenuti svolto da Armando Punzo con la sua Compagnia della Fortezza alla lingua vernacola dei sobborghi palermitani nella drammaturgia di Franco Scaldati… Questi – ed altri – “teatri”, riuniti in un’area tematica omogenea, si collegano tra loro per l’attenzione in tutti presente verso l’“altro”. Si tratta in tutti i casi di una “drammaturgia della differenza”, che viene da ciascun artista e da ciascun gruppo declinata secondo i propri canoni estetici. Il denominatore comune di queste esperienze non è però in nessun caso il “teatro-terapia”, o il “teatro-recupero”: l’obiettivo finale è sempre lo spettacolo. A livello generale, ancora, questa sezione è caratterizzata dal “cambio di prospettiva”, si tratta cioè di “teatro in movimento”: la mobilità può essere quella dello sguardo, che cambiando ottica riesce a considerare l’alterità come normalità, oppure quella prettamente fisica dell’emigrante, o ancora quella che attua un rovescimento totale della percezione e della visione delle cose... Questa mobilità è sottolineata anche dal titolo, che implica un insieme di realtà in costante “movimento”.

 

L’emarginazione e l’alterità, in ciascuna delle esperienze radunate in questa sezione, si presentano in forme diverse. Possono ad esempio caratterizzare la formazione della stessa compagnia. E’ il caso di Pippo Delbono, che ha formato il suo gruppo di lavoro mescolando gli attori che già lavoravano con lui ad altri attori, incontrati tra la strada  e l’ospedale: sono i “barboni” che danno il titolo al suo spettacolo, appunto Barboni[22]. Ma Pippo più che porre la questione in termini di “normalità”/“diversità” parla di due tipi di “diversità”: quella che contraddistingue la sua personale storia e quella propria di persone come Bobò, il sordomuto microcefalo che lo stesso Delbono ha fatto uscire dall’Ospedale Psichiatrico di Aversa dopo quarant’anni di degenza, o come Mr. Puma, “rocker” da strada, o ancora come Armando Cozzuto, “barbone” poliomelitico. Storie di sofferenze individuali si incontrano, interagiscono, si fondono in un’unità che si esprime attraverso il teatro, che abbatte i confini che lo separano dalla vita reale. Attraverso la direzione registica di Pippo i frammenti di “vita vissuta” si compongono in un disegno unitario: questo è il segreto di Barboni.[23]

 

La Compagnia della Fortezza si avvicina al mondo dell’emarginazione sia a livello di formazione del gruppo di attori (tutti detenuti del carcere di Volterra) sia a quello delle condizioni di lavoro (il recinto dello stesso carcere). In queste condizioni, il regista della Compagnia, Armando Punzo, allestisce nella stagione ‘96/’97 I negri di Jean Genet, una scelta non casuale, come lui stesso afferma:

 

"Una compagnia di negri recita per un pubblico di bianchi". Quando ho chiuso il testo dopo averlo letto per la prima volta ho pensato: i Negri sono loro. Un pensiero così semplice e allo stesso tempo così inquietante. [...] Abbiamo lavorato privilegiando questa condizione di fondo rispetto alla vicenda raccontata nel testo. Ci siamo chiesti, come suggerito dallo stesso Genet, cosa significa essere Negri e, soprattutto, come ci si sente a essere Negri.[24]

 

Più che sul testo in sé, qui l’operazione verte su una condizione esistenziale: la “negritudine”. Cioè, ancora una volta, l’emarginazione della differenza. Genet mette in luce nel suo testo esattamente questa condizione di esclusione: Punzo accoglie il suggerimento, e lavora ad una drammaturgia che, se si discosta dall’originale nella lettera, ne incarna perfettamente il senso.[25]

 

Un altro approccio ai territori della differenza, dell’emarginazione, dell’“anormalità” in senso esteso è caratterizzato dalla scelta dei temi da portare in scena. Su questo versante si possono collocare tre esperienze diverse, ma che hanno un forte punto di contatto proprio nella selezione delle tematiche. La prima è rappresentata dalla messinscena di un testo di Antonio Tarantino, Lustrini, ad opera di Cherif. In questo caso è il testo, la storia prescelta, a portare l’emarginazione all’interno del teatro. la sofferenza dei due protagonisti, Lustrini e Cavagna, barboni che vivono per strada nel bresciano, è restituita in modo graffiante ed ironico, pur mantenendo alta la poesia dell’amicizia particolare che li lega. La dimensione narrativa di Tarantino, che nel Vespro della Beata Vergine e nella Passione secondo Giovanni aveva già affrontato i territori del disagio e del dolore, coglie gli aspetti grotteschi della vita per strada, e con atteggiamento divertito li restituisce in un misto di comicità e di tenerezza. Cherif racconta così i due personaggi:

 

Lustrini è una delirante e oppiacea miscela di mostri d'amore e di morte, di una comicità irriverente e sarcastica irresistibile. E' vile, e allo stesso tempo insondabile, l'inferno quotidiano di questo amore minuto e portatile nei labirinti delle strade.[26]

 

Ancora la scrittura è il mezzo per raggiungere i luoghi dell’emarginazione nell’allestimento che Roberto Guicciardini compie della Locanda invisibile di Franco Scaldati: nel testo sono “raccontati” i rioni della vecchia Palermo, descritti nel loro degrado totale ma anche con un senso di onirica nostalgia per il passato. L’autore conferisce alla parola un valore quasi magico, di riscoperta della memoria come antidoto alla disgregazione del tessuto sociale della sua città. La sua ricerca sembra seguire la strada pasoliniana del recupero di una vitalità e di un’umanità in via di estinzione.[27]

Anche Thierry Salmon, nel suo lungo lavoro sulla Pentesilea di Kleist, o meglio nel suo studio approfondito sul popolo delle Amazzoni, che della diversità fece la propria bandiera, si accosta al mondo del “diverso” a partire da uno spunto tematico. Il mito delle Amazzoni è restituito dall’immaginario individuale di ciascuno dei protagonisti di questo percorso, e questi contributi personali si trasformano in una “scrittura collettiva”. In questo modo prende forma l’essenza di un popolo affascinante e “differente”. Il percorso sulle tracce delle Amazzoni, che si dispiega in tre tappe tra Palermo, Bruxelles e Pontedera, è raccontato da Renata Molinari:

 

“Simbologie personali e collettive che si nominano attraverso il mito delle Amazzoni, o meglio le mitologie attorno alle Amazzoni: un immaginario collettivo che attraverso le avventure del tempo, prima ancora che nelle forme dell'arte, accompagna esplorazioni e conquiste, avventure nell'ignoto e sogni di radicamento. L'immaginario e i racconti, cui l'arte dà forma, su un popolo di donne, un popolo "separato", un popolo senza padri [...]: il mistero e il fascino di una comunità minacciosa nella sua dichiarazione di autosufficienza, inquietante nella sua forza, seducente nella sua bellezza. Un popolo di creature che accentuano il mistero della differenza mutilando il segno stesso di tale differenza”.[28]

 

L’estraneità, la non appartenenza, l’alterità si possono individuare anche attraverso il costituirsi di un linguaggio. E proprio il linguaggio collega tra sé due artisti diversi come Marco Paolini e Marco Baliani.

Il primo, nel suo Milione, tratta il problema dell’emigrazione. E lo fa dando voce a chi sta “fuori”, ai “foresti”, alla gente arrivata in una terra  - il Veneto, con la sua aristocratica capitale Venezia – che non è la sua, e dove si sente rifiutato perché non partecipa dell’élite provinciale dei “nostrani”, degli autoctoni. La lingua di Paolini è il risultato di un’operazione di collage, che molti confondono con il dialetto veneto o veneziano. In essa si innestano le più svariate cadenze, da quella del meridionale immigrato a quella del lavavetri extracomunitario che tenta di integrarsi, a quella ancora delle zone rurali che scimmiotta il “parlar fino” delle città. Con questa operazione linguistica l’artista trevigiano dà voce all’inesauribile schiera dei “foresti”.[29]

Il movimento, la migrazione sono gli elementi cardine dell’esperienza di Marco Baliani in Migranti, la prima tappa del suo progetto “I porti del Mediterraneo”. Anche in questa esperienza fondamentale appare la costituzione di un linguaggio “franco”, formato dalle diverse realtà culturali che si scontrano nella necessità della migrazione. Baliani insiste su questo tema:

 

Un ensemble teatrale, in un'idea di teatro epico e corale, assomiglia davvero a un equipaggio marino e la capacità di creare un dialetto è l'insieme di gesti, relazioni, istinti ed esercizi, tecniche, che vanno a poco a poco a formare un comune sentire, un sapere condiviso da ognuno sul percorso, sui modi di attuarlo, sul senso etico di ciò che si va a realizzare. [...] Un linguaggio che è tale solo a patto di rispettare le differenze di cui ognuno è portatore, comprese le difficoltà di intendersi nella varie lingue, i gesti diversi con cui nelle varie culture ci si esprime.[30]

 

 

Un duplice “itinerario” conclude la sezione dei “Nomadi”. Da una parte infatti sta l’esperienza del gruppo italiano Laminarie, nel loro viaggio nella realtà desolante della Bosnia di Monstar, dove hanno portato il loro Poema della forza. Dai loro appunti di viaggio è testimoniato il valore di questa esperienza a metà tra le macerie della guerra e una grande voglia di ricostruire e di tornare a vivere. Un viaggio invece dalla Bosnia all’Italia è quello di una comunità Rom perseguitata in patria, che dà vita allo spettacolo allestito al Link di Bologna da Loredana Putignani. La regista racconta il grande senso di appartenenza di questa piccola e sfortunata comunità, da sempre “in viaggio”.[31]

Riassumendo, si può affermare che ciascuno di questi artisti e gruppi sceglie un diverso approccio ai terreni della sofferenza e dell’alterità. Dall’emarginazione sociale a quella etnica, dall’orgogliosa rivendicazione della propria differenza al sentimento crudele dell’esclusione, la “diversità” entra nel teatro, ne diviene il fulcro, la materia su cui fondare una drammaturgia, riuscendo a stare sempre all’interno della rappresentazione artistica e senza mai sfociare nel tanto discusso “teatro sociale”.


 



[1] Cfr. Capitolo 1, "Il Patalogo visto dagli autori".

[2] Intitolata per l’appunto “Chiamiamolo Teatro della Crudeltà”.

[3] Il ballottaggio tra i 56 votanti ha visto uno scarto di 10 voti tra il primo (21 voti) e il secondo classificato, Macbeth Horror Suite di Carmelo Bene (11 voti).

[4] Cfr. Romeo Castellucci, "Nel Giulio Cesare della Societas Raffaello Sanzio la carne delle parole", in: il Patalogo 20, p. 135.

[5] Ibidem, p. 136.

[6] Che culmineranno poi nella realizzazione definitiva, intitolata O.F. ovvero Orlando Furioso impunemente eseguito da Motus, che ha debuttato al festival “Teatri 90” Milano l’anno successivo.

[7] Cfr. “Pensieri dei Motus per un Orlando Furioso inseguendo su disco la meccanica del desiderio”, in: il Patalogo 20, p. 152.

[8] Cfr. un brano del “Commentario estratto dalla 100 parti della vita immaginaria di Fanny & Alexander”: “Mentre giaceva tranquillamente nel suo lettino accarezzando il ricciolo d'oro, F&A sentì che i soliti grilli con cui amava trastullarsi lo gratificavano di piccole croci color sangue. Finché egli non trovò cilicio più atto, costumò, con invenzione non più udita, di conservarsi la delizia di tali morsi. Tornavano all'affettuosa madre, la Fata, ogni settimana le camicie tutte sanguigne...” (Cfr. il Patalogo 20, p. 151).

[9] Cfr. Enzo Moscato, "Lingua, Carne, Soffio. Tragitto-epidemia per Antonin Artaud", in: il Patalogo 20, p. 138.

[10] Cfr. Enzo Moscato, "Lingua, Carne, Soffio. Tragitto-epidemia per Antonin Artaud", cit., p. 138. Enrico Fiore, nella sua recensione, vede Lingua, Carne, Soffio come un’estremizzazione “infetta” delle tematiche care a Moscato: un trionfo del “male” con poteri di rinnovamento e catarsi: “Adesso siamo al barocco appestato. E insomma, se è vero che il concetto di lingua come peste (un concetto agganciato all'ipotesi che proprio e solo dalla contaminazione e dalla corruzione si possa far scaturire il nuovo) informa da sempre il teatro di Moscato, è anche vero che Lingua, Carne, Soffio costituisce [...] il più duro, crudele, raggelante, estremo e radicale dei suoi allestimenti.” (Cfr. il Patalogo 20, p. 138).

[11] Cfr. Mariangela Gualtieri, "Nei leoni e nei lupi: la lingua bestiale dei corpi, delle bastonate, del rito osceno, del riso", in: il Patalogo 20, p. 139.

[12] Ancora Mariangela Gualtieri: “Nei leoni e nei lupi è il titolo di questo spettacolo pagano, proteso verso un segreto d'animalità vitale e a volte nascosto in ciascuno di noi. Regna quindi, col principio della reazione diretta, il gioco dei contrari nell'emergere di esigenze primordiali: la fame, la solitudine, il senso della morte, la frenesia sessuale come violenza subita e come voglia, in una successione che raggiunge la tragedia per dissolverla nella sfrenatezza da una comica oscenità quando si trasmette da una all'altra l'ansia di masturbarsi con un bastone.” (Cfr. il Patalogo 20, p. 140).

[13] Cfr. Harold Pinter, "L'autore, la violenza e La serra", in: il Patalogo 20, p. 140.

[14] Cfr. Michael Billington, "Un fenomeno legato a una repressione inglese", in: il Patalogo 20, p. 142.

[15] Il critico inglese difende così il lavoro di Ravenhill: “Il suo testo è chiaramente il lavoro di uno scrittore preoccupato per la trasformazione dei rapporti sessuali in transazioni commerciali e per la tristezza e la disperazione di una società capitalista in cui, secondo le parole di uno dei personaggi, ‘il denaro è civiltà’. [...] Questi personaggi sono tutti vittime di una società che ha trasformato il sesso in un bene di consumo e che considera il denato più importante della vita umana. [...] E' anche affascinante il modo in cui usa il mangiare come simbolo della stupidità dei consumi: il suo testo termina con i personaggi che si imboccano l'un l'altro proprio come Blasted finisce con l'eroina che mette pane e salsiccia nella bocca del giornalista umiliato.” (Cfr. Michael Billington, "Da Shopping and Fucking a Mojo", in: il Patalogo 20, p. 144).

[16] Così è intitolato anche un volume della Ubulibri in cui sono raccolti Blasted di Sarah Kane, Shopping & Fucking di Mark Ravenhill, Mojo di Jez Butterworth, Attentati alla vita di lei di Martin Crimp e Il Killer Disney di Philip Ridley (cfr. Nuovo teatro inglese, Ubulibri, Milano 1997).

[17] La curatrice riassume così il senso della manifestazione: “Un progetto di territori corporali, una sperimentazione biologica, politica, teorica, un corpo mostrato nel passaggio dalla coercizione alla mutazione, la necessità della presenza nell'estrema possibilità del limite, una presenza che diventa discontinuità, caos, libertà, pazzia, spazio e tempo alterati. […] Una grande torsione che sperimenta altri canali espressivi, congegni di comunicazione che superano le concettualizzazioni astratte del linguaggio razionale per riaffermare e reinventare i linguaggi umiliati, repressi, oppressi, i linguaggi della malattia, del caos, della follia, della discontinuità, i linguaggi dell'alterazione.” (Cfr. "Corpi e anticorpi. Il teatro tra performance e arti visive. Progetto di territori corporali di Francesca Alfano Miglietti", in: il Patalogo 20, p. 146).

[18] E in questi elementi, di cui è cosparsa tutta la sezione, si ravvisa una vicinanza all’altra grande macroarea tematica, quella dedicata alle varie “diversità” che entrano a far parte dell’universo teatrale (vedi il paragrafo successivo, “Il teatro della differenza”).

[19] Cfr. "Corpi e anticorpi. Il teatro tra performance e arti visive. Progetto di territori corporali di Francesca Alfano Miglietti”, cit., p. 147.

[20] Si citano qui, a titolo esemplificativo, le dichiarazioni di Franco B., uno dei performer che ha partecipato alla manifestazione: “Il mio sangue è il mio corpo. [...] Il cancro è sangue. Quando lo sento, mi dà un senso di libertà, specialmente il fatto che sia il mio sangue. Non lavoro con il sangue animale, o qualsiasi altro sangue, perché non potrei avere relazioni con esso. Inoltre la gente ha vergogna dei propri fluidi corporali. Sono spaventati dai loro rifiuti, pensano che siano cose molto private, che quel che c’è nel corpo deve rimanere nel corpo. [...] Questo è il mio corpo: io lo apro e lo voglio portare fuori. Il taglio diventa una metafora”. (Cfr. "Franco B. Mamma I can't sing pan 4", in: il Patalogo 20, pp. 147 – 148).

[21]Corpo sterminato è un lavoro nel quale il corpo viene innestato dalla luce delle fibre ottiche, dove il corpo inerte viene trafitto dal laser come conduttore di un'architettura immateriale, come metafora della rete telematica che inevitabilmente lo espande in territori sterminati, nei luoghi delle contaminazioni che da esso stesso scaturiscono”. (Cfr. Giancarlo Cauteruccio, "Krypton. Corpo sterminato", in: il Patalogo 20, p. 149).

[22] Lo spettacolo ha debuttato a Napoli il 15 marzo 1997, e si è aggiudicato il Premio Ubu Speciale “per una ricerca condotta ai confini tra arte e vita” (cfr. il Patalogo 20, p. 93).

[23] Così è descritta quest’esperienza dalle stesse parole di Pippo Delbono: “Il nostro è uno strano zoo di artisti all'estremo, il mio un teatro senza scenografia, costruito sulla persona [...]. Ai miei nuovi amici che non sono mai saliti su un palcoscenico faccio vedere i miei attori randagi che evocano altre situazioni di altra gente randagia. Scocca inevitabile la scintilla e il gioco, e il piacere di raccontarsi inventando nuovi ritmi, nuove poetiche, nuove storie, dolorose ma anche divertenti, di gente randagia.” (Cfr. Pippo Delbono, “Sergio, Bobò, Mr. Puma, Armando… Pepe e io”, in: il Patalogo 20, p 175).

Barboni è anche il titolo del libro pubblicato da Ubulibri nel 1999, dove attraverso il racconto di Pippo e le immagini degli spettacoli è possibile formarsi un’idea del percorso di questo artista (Cfr. Alessandra Rossi Ghiglione (a cura di), Barboni. Il teatro di Pippo Delbono, con interventi di Pippo Delbono, Pepe Robledo, Oliviero Ponte di Pino, introduzione di Franco Quadri, fotografie di Guido Harari, Ubulibri, Milano 1999).

[24]Cfr. Armando Punzo, "Perché I negri", in: il Patalogo 20, p. 178.

[25] Questa sintonia tra il testo originale di Genet e il lavoro di Armando Punzo con i suoi attori è nitidamente raccontato nella recensione di Brigitte Salino per “Le Monde”: “Il teatro [...] non è lontano dalla prigione: dei muri grigio sporchi, uno spazio per l'azione che non supera i quindici metri quadrati. Sono in venti in questo spazio. Venti che girano intorno come nelle loro ore d'aria, contando i passi per concentrarsi prima dello spettacolo. [...] I detenuti non recitano I negri, ma li disossano in un'ora di crudeltà, che raggiunge a tratti quella sognata da Antonin Artaud. Mischiando al testo genettiano degli estratti del Trattato sull'antropomorfia criminale di Lombroso, ironizzando sulla loro "negritudine" sociale, si impossessano di certe battute della pièce - sull'amore, il delitto, l'odio - lavorandole corporalmente con un impegno fisico viscerale, da cui scatta la verità dei Negri: ‘Fate dunque della poesia, dato che è il solo campo che ci è consentito d'approfondire’.” (Cfr. il Patalogo 20, p. 179).

[26] Cfr. Cherif, "Due angeli sconfitti", in: il Patalogo 20, p. 178.

[27] Così Scaldati descrive il suo lavoro: “Io canto la poesia dei quartieri, in una sorta di reinvenzione continua della storia e della cultura dei rioni che vanno sparendo. [...] E' un percorso che rispecchia la malinconia di chi vive in una città che tende a disconoscere la propria identità per inventarsene una nuova, totalmente falsa.” (Cfr. il Patalogo 20, p. 184).

 

[28] Cfr. Renata Molinari, "Progetto Amazzone. Cancro al seno, realtà e mito tra scienza e teatro, Palermo 19 - 24 novembre 1996", in: il Patalogo 20, p. 184.

[29] “Essere nostrani è un bel vantaggio, ammettetelo. Condividere lingua terra storia ha un suo fascino esclusivo. Io scrivo in lingue foreste, lingue affini anche se non uguali a quelle dei padri. Uso queste lingue per raccontare storie di questa terra, terra di confini e vicinanze, di diffidenza e generosità, di buisness e d'ignoranza grossa. Terra di gente presuntuosa che vorrebbe distinguere il mondo tra nostrani e foresti, i nostrani tutti dentro e i foresti fuori, partendo dal presupposto che il peggiore dei nostrani è meglio del migliore dei foresti. Io non scrivo per loro. Mi rivolgo, anzi, a chi fa più fatica a capire le parole di questo dialetto, mi rivolgo alla loro intelligenza. Il milione è un ponte tra nostrani e foresti, uomini che non si riconoscono per la patria d'origine, ma per quella d'adozione, per quella a cui hanno deciso di dedicare i loro sforzi, il loro lavoro.” (Cfr. Marco Paolini, "Nota d'autore", in: il Patalogo 20, p. 182).

[30] Cfr. Marco Baliani, "Migranti persi nel Mediterraneo con Baliani", in: il Patalogo 20, p. 185.

[31] Loredana Putignani descrive la coesione di questa piccola comunità: “ Questo gruppo è una microsocietà considerata marginale, ma che porta in sé una forte - e oggi rara - identità, anche se carica di conflitti. In questa forte identità c'è la possibilità che il gesto, la parola, possano essere portatori di una tradizione, di un'origine, riconquistata attraverso la resa consapevole dell'atto e del linguaggio di una terra che è sempre terra di viaggio e di confine.” (Cfr. Loredana Putignani, "Rom Stalker", in: il Patalogo 20, p. 187).


 
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