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Un'intervista a Franco Quadri

 

Come autorevole conferma delle ipotesi iniziali si riportano qui, dalla viva voce dell'inventore ed editore del Patalogo, i motivi che hanno dato luogo a questa esperienza e le caratteristiche peculiari dell'Annuario dello Spettacolo.

 

Come mai ha deciso di creare un annuario dello spettacolo, e quali sono state le tappe che hanno portato alla nascita del Patalogo? Le sue esperienze precedenti, soprattutto quelle di "Sipario" e della rivista "Ubu" sono state determinanti?

 

I dieci anni passati nella redazione di "Sipario" sono stati molto importanti. Con "Ubu" poi, che è durata un solo anno, la forma era interdisciplinare, all'insegna del "Tutto è spettacolo" che andava di moda in quegli anni. Si cercava di allargare il più possibile il campo. Quando alla fine degli anni '70 Gianni Sassi e Nanni Balestrini - che guidavano il gruppo Area, che forniva i servizi editoriali ad una serie di altre redazioni - mi hanno chiesto di collaborare con loro, la mia proposta è stata quella di fondare una specie di rivista che raccogliesse e mettesse in contatto le più diverse forme di spettacolo, come era da tempo mio desiderio. All'inizio consideravo l'annuario come una rivista moltiplicata per dodici... Ma dopo un po’ di tempo il gruppo di Area, per una serie di problemi, ha smesso la sua attività. Così è nata la Ubulibri, come casa editrice che aveva come "sigla" il Patalogo, una pubblicazione che si articolava in più voci. Le quattro sezioni - Cinema, Teatro, Musica e Televisione - avevano quattro diversi direttori. Con Giovanni Buttafava, creatore della sezione dedicata al Cinema, collaboravamo anche all'impaginazione per cui fondamentale è stato il contributo di Pierluigi Cerri, l'art designer che ha impostato il progetto grafico del Patalogo. La sua idea era quella di utilizzare una forma simile a quella del dizionario, con molte pagine scritte in piccolo, dove in particolare avevano importanza nella parte saggistica le colonne di servizio riservate alle citazioni, alle curiosità, alle note divaganti, a riferimenti che avevano il compito di “ambientare” i pezzi e di completarli sforando in altri campi. Un’abitudine che purtroppo si è un po’ persa per la strada. Il numero 1, costruito sulla confusione, è sicuramente il più "patafisico": bada molto a vedere le cose con ironia, a cercare immagini che gli altri non notano, a far risaltare un'idea di teatro diversa... Poi c'era un ragazzo che con molta generosità si occupava di tutto quanto riguarda la parte tecnica, e poi è sparito, se n'è andato perfino dall'Italia, esausto: senza di lui non saremmo sicuramente arrivati alla fine. Per il gioco degli opposti, dopo un primo numero così fortunoso, ne abbiamo fatto uno con l'Electa, che è il più lussuoso.[1] Ma, anche per i ritardi di uscita, dal punto di vista delle vendite non è stato il successo che ci si poteva immaginare...

 

La volontà di stabilire un contatto tra i vari ambiti artistici è dunque uno degli elementi costitutivi di questa esperienza. La tendenza all'interdisciplinarietà occupava anche il settore specificamente destinato al teatro?

 

Sì, perché significava scovare il teatro anche nel mondo delle arti visive, voleva dire occuparsi un po' di tutto. In quegli anni il teatro andava verso le arti, se si consideravano i risultati di maggior interesse bisognava andare al di là dello specifico teatrale, esplorare i terreni della commistione e della contaminazione tra scena e arti visive. Dopo è seguito invece un periodo di maggiore chiusura.

 

Come mai da un certo punto in poi il Patalogo ha abbandonato gli altri settori dello spettacolo e si è concentrato esclusivamente sul teatro?

 

Ci sono stati dei problemi di organizzazione e di costi. E certamente ha pesato la scomparsa di Giovanni Buttafava, forse con lui saremmo riusciti ugualmente a far continuare almeno la sezione cinematografica, più difficile da condurre perché veniva impostata all'esterno della redazione, in cui c'era anche una certa mancanza di redattori adatti... Però noi ci siamo sempre considerati orfani del Patalogo Cinema. Si è sempre considerato che questo Annuario avesse almeno due facce... Speriamo di poter riprendere e completare il discorso, perché il Patalogo non si è mai posto come un discorso soltanto teatrale.

 

Qual è la funzione specifica del Patalogo?E quali sono le caratteristiche che lo differenziano dagli altri annuari?

 

Si è puntato a divenire un po' il termometro di quello che succedeva nel teatro più avanzato, fermandosi a chiedersi che senso aveva fare teatro, se ne aveva ancora... Si è cercato di tener dietro al cambiamento della scena italiana, evolvendo insieme all'evolversi del teatro. Certamente il Patalogo è sempre partito da un'identificazione dei punti focali di discussione sul teatro, su quello che deve e può essere il teatro. Ci sono state le scoperte, sia dei generi che degli artisti. Il primo accento è stato posto sulla politica del regista, seguendo in modo capillare l'opera di personaggi come Ronconi, Grüber, Wilson, Stein... Poi si è prestata molta attenzione anche alla politica dell'autore, inteso come drammaturgo. Come momento importante della discussione ricordo ad esempio il numero in cui si parla della crisi dell'avanguardia, che ha fatto scalpore tra l'avanguardia stessa.[2] Ogni tanto, per esplorare un tema in profondità, ci si è serviti di inchieste. Anche successivamente è stato lanciato un grido d'allarme, sono stati interpellati diversi personaggi davanti a una crisi, anche politica, che sembrava irreversibile.

 

Anche se si nota una particolare attenzione per un determinato modo di intendere e di vivere il teatro, mi sembra che il Patalogo tenga conto di tutte le declinazioni del teatro della stagione. Prevale la necessità di registrare il maggior numero di informazioni possibile oppure c'è un criterio selettivo?

 

Non si è mai presa in esame la par condicio, in modo per esempio che tutti gli Stabili debbano essere trattati allo stesso modo... Sicuramente un riflesso di tutto quello che succede c'è, però nel modo in cui i diversi materiali vengono trattati è insita anche una linea critica verso determinato modo di intendere il teatro. Questo è abbastanza evidente, tanto è vero che per la maggior parte della gente di teatro i Premi Ubu sono sempre un premio di tendenza, anche se ci sono state molte prove che non lo erano proprio... Peraltro non è detto neanche che noi si riesca a seguire sempre il teatro più avanzato. Per esempio l'aspetto dei cambiamenti mediatici è stato meno seguito, c'è stato un discorso sul videoteatro, ma in generale questo filone non è stato perseguito molto a fondo. Non ha mai smesso di occuparsene Oliviero Ponte di Pino, che del Patalogo è sempre stato una colonna e ha analizzato il teatro in televisione, con l'avvento degli attori-narratori, come Paolo Rossi e Marco Paolini.

 

La redazione, in questo tipo di pubblicazione, ha un ruolo determinante. Quali sono state le evoluzioni del lavoro di redazione nel corso degli anni?

 

Il lavoro in principio era molto più ristretto, si davano molte cose da fare fuori. Bisogna anche pensare che c'era un fronte di critici amici schierato, che si spartiva un po' i compiti, era anche un po' un'operazione di parte... C'erano persone che non facevano parte della redazione ma lavoravano con noi. Si chiedevano dei contributi a personaggi esterni, con la limitazione che poi non si pagava, o si pagava poco. Mi viene in mente Arbasino, che ci ha dato un pezzo sul musical, montando un collage di suoi saggi, articoli e appunti. C'era Gianni Manzella che si occupava dell'architettura teatrale. Poi c'è sempre stato anche qualcuno che chiedeva di poter intervenire sul Patalogo su un certo argomento. Così i compiti della redazione potevano essere magari più limitati alla parte relativa alla raccolta dei materiali che arrivavano da fuori. C'è poi da tener presente che gli elenchi dei dati erano molto più incompleti di quello che poi sono diventati. In principio forse registrare tutto quello che era successo non era l'aspetto dominante: era sì importante registrare un certo numero di spettacoli, però non si pretendeva la completezza, si cercava di allargare gli orizzonti guardando all'estero, o in altri campi. Poi ha preso sempre più piede l'idea di una registrazione esaustiva, nei limiti del possibile, di tutto quanto accadeva. E si sono aggiunte anche delle collaborazioni forti, per esempio Oliviero,[3] che aveva cominciato molto giovane a lavorare, contemporaneamente a Lastrucci che si occupava della sezione cinema, e dopo è cresciuto molto, è maturato, arrivando a organizzare il lavoro e a dare una linea. Per esempio c'è stato un Patalogo, credo il 7, quando io stavo a Venezia per la Biennale, in cui la redazione ha organizzato i materiali quasi da sola. Nel frattempo era entrata a far parte della Ubu Renata Molinari, che prima era soltanto un'amica e poi è diventata un po' l'anima del Patalogo, il punto di riferimento obbligatorio. Anche da quando ha preferito restare più all'esterno, è stata - ed è - sempre interpellata per scegliere una linea, e risolvere ogni genere di problema di relazione con l'ambiente teatrale.

 

Un elemento peculiare della struttura del Patalogo è senza dubbio la sua particolare impaginazione. Che valore ha questo lavoro, nel suo continuo alternarsi di testo ed immagini, ai fini del risultato definitivo?

 

L'impaginazione è sicuramente fondamentale. Si è sempre proseguito, pur con qualche aggiustamento, sulla linea iniziale stabilita da Cerri. C'è attenzione alle immagini grandi magari per descrivere, per segnare un punto, però c'è anche la ridda dei minimali, delle foto piccole per poter dare più completezza... Un'altra caratteristica degli inizi che è rimasta immutata riguarda la grafica: il Patalogo non è una pubblicazione dai titoli appariscenti, si cerca di conservare un certo ordine e un certo equilibrio... Io mi sono chiesto in questi anni, dato che la grafica va cambiando e tende all'esplosione delle parole, a "fare colpo", se non fosse il caso di riesaminare l'impostazione e cambiare faccia, ma avendo una storia ormai, e avendo sempre seguito una linea, anche se ovviamente dei cambiamenti ci sono stati, mi sembrava logico mantenerla. Se poi a un certo punto ci si accorgerà che questo impianto è superato, bisognerà fare un pensierino a uniformarsi alle nuove tendenze, sempre che si vada avanti...

 

Parlando delle immagini lei ha fatto riferimento all'individuazione di alcuni "punti", "snodi" volutamente messi in evidenza. E' possibile, più in generale, isolare all'interno della struttura di ciascun Patalogo delle "zone tematiche" particolarmente rilevanti, che possano restituire in chiave narrativa il corso di una stagione teatrale? E' possibile, cioè, considerare il Patalogo come un "racconto" della stagione?

 

Non so se proprio una dimensione narrativa, ma comunque una scelta di indirizzo, cioè un modo di leggere il teatro e di seguire e promuovere determinati tipi di espressione teatrale. Il racconto è comunque senza dubbio un'aspirazione, e lo si vede già dai primi numeri. Come critico mi sono accorto progressivamente che quello che mi interessa è raccontare lo spettacolo piuttosto che dare dei giudizi, perciò è logico che anche in un lavoro di questo genere si miri prevalentemente a quello.

 

Crede che il Patalogo, per i lettori a venire, possa servire come  una sorta di racconto-testimonianza?

 

Credo che quello che vuole essere sia proprio questo, non so se poi siamo riusciti a realizzarlo, ma l'intento è proprio quello di lasciare una testimonianza. Sono stupito che in tutti questi anni non sia mai stata data una tesi sul Patalogo. Questo vuol dire che o il nostro annuario è stato sottovalutato, o che non è stato mai guardato seriamente da parte dei professori universitari, o è stato guardato soltanto come una fotografia di quello che è successo, o ancora come un fenomeno di tendenza, ma anche fosse stato solo un fenomeno di tendenza dovrebbe essere interessante analizzarlo...

 

L'impaginazione è un elemento narrativo forte?

 

Secondo me lo è. Noi abbiamo sempre ignorato la mutimedialità, i cd-rom, soprattutto per un fatto di organizzazione e di costi. Bisogna tenere conto dell'evoluzione della comunicazione e delle stesse forme in cui si presenta il racconto. Sarebbe interessante rivolgere l'attenzione anche in questa direzione.

 

Nell'elaborazione di questo lavoro si è ipotizzata, per il Patalogo, una particolare forma di composizione e distribuzione degli interventi e dei materiali secondo "blocchi", "snodi tematici", "aree omogenee". In questo senso si è stabilita un'analogia tra la struttura dell'Annuario e una scrittura di tipo teatrale, una drammaturgia. Ritiene che quest'impostazione sia corretta?

 

Quelle parti che potremmo chiamare "Speciali" a me sembrano costituire la chiave del Patalogo. Non è che si fa il Patalogo per sapere cosa si è fatto in quell'anno a Spilimbergo, ma per capire dove va il teatro, che cosa c'è di nuovo da scoprire e questo emerge soprattutto negli "Speciali", dove si analizzano certe tendenze e certi personaggi che si sono messi in vista...

Anche l'"alfabeto", che è ritornato spesso nel montaggio di queste sezioni, non è assolutamente una cosa casuale. Si fa molta fatica in genere a trovare le lettere giuste, ma si tratta di far apparire le linee di tendenza dell'anno. Se poi a volte vi compaiono degli elementi come Pantani o Ronaldo, è perché non si è smesso di guardare anche alla spettacolarizzazione della vita, e a quello che c'è intorno. Ci sono degli anni in cui ci si è occupati della moda, per esempio... Si segue quello che è il teatro, ma si guarda anche alla spettacolarizzazione che lo accompagna. Per due anni - oltre alle sezioni più informative - c'è stato anche un "Calendario", che nella mia mente voleva costituire un recupero del fatto politico, della memoria, in un momento di particolare distrazione che, anche nella lettura dei più importanti giornali, punta piuttosto sull'intrattenimento... In un altro numero c'è una sezione intitolata "Gli Ultimi", perché in quell'anno alcuni autori avevano fatto delle cose nuove, e allora abbiamo deciso di riunirle tutte assieme in una panoramica... Un altro esempio è la sezione dedicata in un numero alla "Stagione russa a Parigi": perché a Parigi quell'anno si era fatto il punto su quello che era il teatro russo in un momento storico... Si è sempre cercato, magari contro la tendenza dei redattori, di cambiare di volta in volta, cioè di non avere un cliché fisso.

 



[1]E' il Patalogo 2.

[2]Il riferimento è all'inchiesta, curata da Renata Molinari e Oliviero Ponte di Pino, sulla crisi della ricerca teatrale, che si trova all'interno del Patalogo 15.

[3]Ponte di Pino (NdR).


 
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