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parte seconda

 

Elementi drammaturgici del Patalogo:

un’analisi testuale
i. - il patalogo 1: la stagione 1977/1978

 

 

I.1. Nuovi luoghi, nuovi spazi

 

La riflessione sullo spazio teatrale occupa un ruolo centrale all’interno del Patalogo 1. Attorno a questo tema si raggruppa una lunga serie di interventi.[1] L’argomento è affrontato secondo due assi principali: quello di spazio come elemento drammaturgico e quello del rapporto tra azione teatrale e tessuto urbano. La tesi di fondo che unisce le varie riflessioni è quella del rifiuto di un “luogo del teatro” come edificio istituzionale, con la sua consuetudine e tradizione, e della conseguente ricerca di uno spazio "altro", il recupero alla teatralità di luoghi "non teatrali", adibiti consuetamente ad altre funzioni, e che proprio nell'incontro con il teatro assumono valenze e suggestioni nuove.

 

 

I.1.1. Lo “spazio drammaturgico”

 

Nel corso della stagione 1977-1978 due esperienze teatrali diverse individuano nella ricerca dello spazio il momento fondamentale da cui partire. Sia nel caso della Torre di Hugo von Hofmannsthal nella versione di Luca Ronconi al Laboratorio di Prato che in quello di Winterreise di Klaus-Michel Grüber all'Olympia Stadion di Berlino il lavoro sul testo è preceduto dall’individuazione e costruzione del luogo in cui poterlo rappresentare, che diviene perciò il primo elemento della drammaturgia dello spettacolo. Gae Aulenti, l’architetto-scenografa che lavora al Laboratorio con Ronconi, motiva il rifiuto a servirsi di uno spazio non predefinito e istituzionale:

 

Il teatro dopo aver rifiutato il palcoscenico va nelle cantine, si porta nei luoghi di lavoro, della residenza, cioè in luoghi altri da quelli destinati al teatro, prova le strade, prova le piazze, va alla ricerca nella città del suo luogo, vuole in un certo senso avere un luogo a sé destinato, ma non esiste. Non esiste perché c'è l'impossibilità di determinare una tipologia teatrale che tutti possano riconoscere. Questo è il lavoro di Prato, la ricerca, il riconoscimento di un luogo.[2]

 

Aulenti ravvisa l’assenza di un luogo preposto al teatro, che sia come tale riconosciuto da tutti. E partendo da queste premesse, individua nell’identificazione di uno spazio il punto essenziale per la costruzione di un evento teatrale:

 

Oggi c'è il bisogno, la necessità di determinare il luogo dell'azione prima che l'azione si svolga, prima che l'azione si dipani con tutte le sue articolazioni. [...] La determinazione del luogo è come una necessità di ancoraggio, in un momento in cui non esiste un luogo teatrale, una tipologia teatrale.[3]

 

In quest'affermazione si coglie il momento fondativo della scelta - e della costruzione - dello spazio, come contenitore, ancoraggio, su cui far poggiare l'ossatura dello spettacolo.

Queste riflessioni teoriche si riflettono poi sul lavoro pratico svolto dalla Aulenti per La torre di Hofmannsthal, in cui un luogo non teatrale è selezionato e “costruito” in funzione della rappresentazione. Per La torre è prescelto un edificio industriale, il Fabbricone, che viene a sua volta modificato, creando al suo interno un luogo “altro”:

 

Ci siamo serviti di luoghi che non erano quelli teatrali [...], ma, e questo è importante, dichiarandone l'esclusione, difatti non a caso, questa stanza per La torre, è parallela esattamente al Fabbricone e lo esclude, proprio per parallelismo, è un luogo entro un altro luogo, è una volontà di volere il luogo adatto, il luogo pertinente, il luogo dove tutte le corrispondenze teatrali siano possibili.[4]

 

L’ambientazione diviene in queste parole un momento essenziale. Partendo da un testo come La torre, il lavoro di costruzione dello spazio che lo possa “contenere” diviene il punto caratterizzante di tutta l'operazione. Infatti è sottolineata la volontà di determinare, all’interno di una realtà architettonica preesistente, un luogo entro un altro luogo. La valenza drammaturgica dello spazio nel lavoro sulla Torre è data proprio dalla mescolanza di "reale"- la struttura del Fabbricone - e di "posticcio" - la stanza costruita per l'occasione -. La definizione di questo spazio “ambiguo”[5] è messa in diretta correlazione con il testo drammatico per il quale esso è stato pensato:

 

Il dramma di Hofmannsthal è il dramma della perdita di tutti i valori e della ricerca di identità di Sigismondo, ma anche di un'identità nazionale; ecco che allora l'inserimento in un'architettura del periodo precedente a quella in cui Hoffmansthal ha scritto questo dramma [una reggia di epoca barocca, ndr.] significa proprio ritrovare quel consolidamento, quella situazione stabile la cui perdita genera il dramma, e allora l'ancoraggio è proprio un luogo, questa stanza così orgogliosa, che dica cosa era prima questo valore unitario, politico, sociale e culturale. Però fatta ad arte, ricostruita, riprodotta secondo le leggi della scenotecnica [...], infatti il rapporto ambiguo tra il reale e la finzione è molto importante proprio rispetto a questo testo così pieno e così slittato.[6]

 

Qui il progetto che sta a monte del lavoro sulla scenografia e sulla regia si delinea appieno. Lo spazio della rappresentazione viene modellato partendo dalle suggestioni evocate nel testo. Il gioco sembra consistere in un incastro continuo di elementi "veri” e “falsi": la ricostruzione della stanza è verisimile, "naturalistica", ma esprime nella sua "verità" - è costruita tutta con materiali veri, senza artifici scenici - il suo carattere di finzione, venendo a contrapporsi nella sua realtà "scenica" alla struttura "reale" del Fabbricone. In questo sta l'ambiguità denunciata dalla Aulenti.

Il gioco tra “vero” e “falso”, tra “reale” e “simbolico”, che emerge dalle parole della scenografa, è ripreso anche da Franco Quadri nel suo saggio sul “ritorno al naturalismo” come tendenza ricorrente in molti registi di quegli anni. In quest’ottica il lavoro sullo spazio assume valore fondante:

 

Ecco l'invenzione di una serie di scatole abitabili concentriche: dentro alla struttura industriale del Fabbricone, il salone imperiale della reggia germanica di Würzburg, coi suoi stucchi bianchissimi e barocchi, coperto da un soffio tiepolesco che nasconde sopra di sé la volta anonima del capannone, ma senza l'esterno. La riproduzione è così esatta da imporre assieme alla sua verità il carattere convenzionale da copia-modellino. [...] Da un quadro all'altro, l'interno della sala, visitato da una luce perlopiù diffusa di finto giorno proveniente dalle finte finestre, cambia sette volte, entro le immutabili pareti [...]; e il gioco di trompe l'oeil sarà alimentato da una predisposizione di oggetti veri per i materiali usati, ma sempre simbolici.[7]

 

La costruzione del luogo dell’azione per La torre è visto qui come uno degli elementi essenziali della poetica del regista. L'oscillazione di "vero" e "simbolico" è il tratto distintivo di tutta l’operazione sul testo. La costruzione dello spazio è una chiave di lettura attraverso la quale è possibile leggere questo lavoro. Tale oscillazione poi è evidenziata anche nel lavoro degli attori:

 

Alla presenza ritornante di una fiamma allusiva che continua a bruciare, la recitazione insegue i moduli naturalistici, ma si stempera di battuta in battuta, secondo una complessa analisi del linguaggio che interviene a volte come memoria tramandata, come comunicazione o come rappresentazione, o nei due sensi contemporaneamente [...]. Sotto alla ricerca del gesto e della parola psicologicamente veri, traspare quindi sempre la possibilità dell'altra interpretazione, di una più profonda verità raggiunta attraverso il riferimento simbolico.[8]

 

Lo spazio teatrale scelto ed elaborato per La torre è la base, l'inizio, il centro dello spettacolo stesso.[9] E si tratta di uno spazio "extrateatrale", che viene riutilizzato, rimodellato in base alla poetica che sottostà e comprende tutta l'operazione. Gli elementi "reali", "veri", si confondono con la convenzione, il "posticcio", il "fatto apposta": in questa duplicità regista, scenografa e attori cercano di rendere il senso di spaesamento e di perdita che è veicolato dal dramma di Hofmannsthal. A suggello si citano queste parole di Gae Aulenti ancora a proposito della Torre:

 

L'azione teatrale, per ognuno dei sette quadri dei cinque atti […] ha determinato dei movimenti che derivavano sì dall'analisi del testo, e dalle modalità recitative in rapporto agli spettatori, ma che sono corrisposti, come lettura finale, alle uniche possibili tracce della geometria generatrice di quello spazio.[10]

 

 

Un altro esempio di “spazio drammaturgico” è quello di Winterreise, lo spettacolo di Klaus Michael Grüber tratto dall'Hyperion di Hölderlin e rappresentato all'Olympia Stadion di Berlino per ottocento spettatori a sera.[11] La vicenda di Iperione è rappresentata, in inverno, in uno stadio, dove lo scenografo Antonio Recalcati ha costruito un itinerario per stazioni, che raccontano l'esilio e la fuga del protagonista. Anche qui lo spazio prescelto è uno degli elementi generatori dello spettacolo. Nel suo progetto Grüber afferma:

 

Ciascuno dei luoghi [un cimitero non finito, una cascata, i ruderi di una stazione, un accampamento, ndr] così definiti è un mondo a parte, ma questa pluralità di mondi, con delle attività particolari e degli abitanti ben precisi, costituisce tuttavia un'unità: oltre all'unità architettonica dello stadio, questi mondi diversi comunicano in una clandestinità sospetta e si dividono lo spazio del prato con amicizia, come legati da una tacita solidarietà. Solo gli abitanti normali e abituali dello stadio, gli sportivi, appaiono ora come corpi estranei, ostinati nel loro sforzo, assurdi con un freddo simile. L'Hyperion è il viaggio che porterà un uomo, torvo, clandestino, stanco, ma ancora forte, attraverso tutti questi mondi.[12]

 

La localizzazione della storia di Iperione all'interno dello stadio, all’aperto, è una scelta registica che mette in primo piano lo spazio. Perché portare uno spettacolo teatrale in uno stadio? A questa domanda una risposta la dà ancora Franco Quadri, analizzando il cosiddetto "iperrealismo" del regista tedesco. L'idea simbolica, metaforica del gelo, che è lo specchio della condizione dell'eroe e allo stesso tempo richiama la condizione dell'uomo contemporaneo, viene restituita attraverso le sensazioni fisiche:

 

Il gelo della Germania è dato dunque come tema: è un gelo metaforico, e però diventa avvolgente tramite la sua fisicizzazione, provocatoria, da respingere (ma come?), eguagliando nella stessa situazione di insopportabilità il personaggio Hyperion e i suoi disgraziati amici - che solo in questa cornice possono realizzarsi - e gli spettatori, trascinati invece nell'ambiente dalla loro esclusiva volontà.[13]

 

Anche qui attraverso l'ambiente, il luogo scelto e rimodellato per l’occasione, l'obiettivo è creare una sensazione metaforica, che alluda ad una condizione esistenziale, attraverso la realtà fisica, cioè il gelo di un luogo aperto e ventoso come uno stadio nel pieno dell'inverno.[14]

Se questo è un effetto dato dallo spazio in cui ha luogo la rappresentazione, non riguarda però il luogo di per sé: ci sono molti luoghi freddi e aperti come uno stadio. Ma la scelta dell'Olympia Stadion, con la costruzione attuata da Antonio Recalcati al suo interno (anche questa volta si tratta di un luogo che preesiste all'evento teatrale su cui vengono a sovrapporsi elementi scenici) non è casuale. Ancora Quadri:

 

Secondo elemento, lo stadio, assunto come microcosmo concentrazionario, coi diretti riferimenti che conosciamo sia al nazismo di chi vi ha individuato un tempio per l'uomo classico, sia alla funzione negli ultimi anni attribuita a queste attrezzature sportive dalle dittature fasciste dell'America Latina.[15]

 

Infine lo stadio semplicemente come luogo non teatrale. Il che ha alcune implicazioni nella fruizione del pubblico dell'azione di teatro:

 

Ma lo stadio viene preso anche per se stesso, come contenitore e basta, impossibile da travestire - non un palcoscenico da arredare - e diventa quindi determinante per la condizione non teatrale dello spettatore.[16]

 

In entrambe le esperienze il problema dello spazio è cruciale: partendo dal testo scelto per la rappresentazione, e dal senso che esso veicola, Ronconi-Aulenti e Grüber-Recalcati procedono – nelle differenti cornici in cui si iscrive il loro lavoro[17] – all’individuazione del luogo in cui inserire l’azione drammatica. Questa selezione contiene già una serie di elementi significativi: lo spazio industriale del Fabbricone e l’Olympia Stadion non sono spazi neutri, la loro particolare morfologia contiene un riferimento metaforico forte al testo per cui vengono scelti. Attuata la scelta, questi spazi sono “modificati”, vengono rielaborati e piegati alle esigenze sceniche con interventi ad hoc. In questo modo lo spazio teatrale diviene il primo grande elemento semantico dello spettacolo. L’elaborazione dell’ambiente è strutturale al testo da rappresentare e organico alla lettura che di questo testo viene offerta nel lavoro registico. L’evento teatrale in tutti e due i casi è irrapresentabile al di fuori dal luogo per cui è stato pensato.[18] In questo senso lo spazio diviene il centro d’irradiazione, il motore delle tappe successive che portano alla rappresentazione definitiva. Per questa sua influenza determinante nella costituzione dell’esperienza teatrale, e per la sua forte pregnanza semantica, lo spazio utilizzato per la Torre e per Winterreise è stato definito “drammaturgico”.

 

 

I.1.2. Teatro e città

 

Il rapporto tra contesto urbano e pratiche teatrali è il secondo asse attorno al quale ruotano gli interventi che il Patalogo 1 dedica al tema dello spazio. Questo tema viene affrontato attraverso la raccolta di una serie di esperienze che all’interno della stagione ‘77-’78 hanno, con finalità e con procedure diverse, sviscerato le possibilità del teatro di utilizzare il territorio cittadino in senso teatrale. Dunque non è solo un elenco di eventi “sullo” spazio, ma una riflessione sullo spazio a partire dall’individuazione degli eventi, con un procedimento induttivo che, collegando tra loro avvenimenti con caratteristiche comuni, giunge a definire e sviscerare nelle sue diverse declinazioni un nodo cruciale dell’attività teatrale che ha caratterizzato la stagione.

Il discorso anche qui prende le mosse dall'esperienza del Laboratorio di Prato di Luca Ronconi e Gae Aulenti. A Prato infatti il teatro è nel tessuto cittadino, occupa il territorio, e lo fa programmaticamente.[19]

 

Attraverso il lavoro sulla comunicazione teatrale, lo studio dei luoghi a essa destinati, costituisce una lettura pertinente del Territorio. [...] Questa attività è critica: si prende gioco delle gerarchie e delle divisioni che il territorio impone cosicché Teatro, Banca, Capannone industriale, Orfanotrofio, Cementificio diventano tutti luoghi di comunicazione, e all'interno di queste tipologie, il teatro esercita la sua attività indifferente alle convenienze dei generi, dei soggetti, dei fini di questi edifici.[20]

 

Grazie alla serie di spettacoli progettati all’interno del Laboratorio, il territorio urbano subisce un sovvertimento, viene come "riplasmato", azzerando le differenze e le destinazioni d'uso di edifici, zone, quartieri. Si tratta anche di una "riappropriazione" del tessuto cittadino da parte del teatro, che raccoglie, seleziona, scarta a suo piacimento luoghi e spazi, conferisce dignità a zone degradate, trasformandole e rivitalizzandole secondo il proprio disegno, l'azione teatrale:

 

Questi luoghi attraverso la funzione teatro determinano altre forze associative, articolano una diversa narrazione della città, la loro descrizione topografica diventa una topologia che non stabilisce nessuna preminenza morale, ma solo strutturale.[21]

 

Uscire dal teatro per impadronirsi “teatralmente” della città è l’obiettivo che si pone il romano Beat 72. Grazie alle "Iniziative di ii", all'interno della manifestazione "La Città del Teatro", è proposta nell’arco della stagione una serie di episodi di teatro per la città. Il Beat infatti - dopo aver decretato la chiusura del suo stesso palcoscenico – si pone l’obiettivo programmatico di ristabilire il contatto perduto con la città e i suoi abitanti, promuovendo degli eventi teatrali un po' dovunque per la capitale.[22] Il tentativo è di trasformare la città stessa in un palcoscenico continuo che si distribuisce a macchia d’olio per tutto il territorio:

 

L'immagine di fondo è di una nervatura, [...] percorsa da una febbre di comportamento teatrale collettivo, tra il desiderio di esprimersi e l'impossibilità di rappresentarsi, allo scoperto [...]. Il viaggio nella "Città del Teatro" è continuo e intermittente al tempo stesso; ciò che finisce in un luogo rinasce altrove, ogni gesto prolifera e muore contemporaneamente.[23]

 

Quello che gli ideatori ricercano (o vagheggiano) non è dare luogo ad una serie di eventi particolari e slegati, ma costituire un tessuto connettivo che comprenda questa collettività di esperienze:

 

Non si tratta in altre parole di performances stravaganti o devianti, dal comportamento al mentale, dal concettuale al narrativo, in un terreno scivoloso e ambiguo di convergenze metadisciplinari; poiché è la Città del Teatro nel suo insieme che avanza e che viene tradotta per immagini con specifico tradimento di realtà individuali e di ricerche sperimentali da laboratorio.[24]

 

“Il Teatro Invisibile”, un progetto del gruppo Cfr. di Firenze, si pone come obiettivo il recupero – attraverso l’azione teatrale - di zone urbane degradate. All’interno di sei spazi concessi dall’amministrazione comunale – dormitorio pubblico, bagni comunali, inceneritore dei rifiuti, macelli pubblici, chiostro delle Oblate - si svolgono nel periodo tra il marzo e l’aprile del 1978 sei diversi eventi teatrali. Il progetto coniuga elementi teatrali e motivazioni “politiche”. Lo scopo è restituire energia, rivitalizzare la città attraverso un riutilizzo inedito e straniante degli spazi:

 

Riscoprire la città nella sua doppia e segreta valenza: una città nella città, con luoghi “mitici” sotterranei nascosti e insieme tragicamente reali. La forzata solitudine dell’emarginazione che diventa ostentazione violenta: i luoghi, volutamente o inconsciamente (attraverso un processo psicologico di rimozione) dimenticati o ignorati che si impongono (fisicamente, architettonicamente, come luoghi “reali”) nello spazio e all’attenzione degli abitanti della città.[25]

 

A ciascuno di questi luoghi viene associato un tema (ad esempio il “sonno” al dormitorio pubblico, la “carne” al macello…), che diviene il fulcro dell’azione teatrale. Le sei “tappe” sono collegate tra loro nel formare un itinerario, una sorta di discesa agli inferi drammatizzata:

 

Il sonno, Vapori, La carne, Il fuoco, L’acqua, Il sogno hanno costituito l’idea teatrale di questa “via crucis” laica, di questo percorso urbano a tappe, […] alla ricerca di segni antropologici in via d’estinzione.[26]

 

Sono gli stessi spazi concessi a determinare le azioni, che concorrono a “riformulare” queste zone territoriali, a ridefinirne i confini attraverso spunti drammatici e ironici. Il loro utilizzo teatrale si sovrappone a quello consueto e quotidiano:

 

I luoghi sono stati usati per quello che veramente sono. E sono strutture di servizio tutt’ora funzionanti e che, durante l’esperimento teatrale, non hanno mani smesso di funzionare. […] Si è lentamente dipanato un filo di teatro al negativo, o meglio, di negazione del teatro: i riflettori sono stati puntati tutti sui luoghi, la presenza umana (l’attore) è stata solo rivelatrice di questi luoghi, la parola (poco usata) ha avuto la stessa funzione: rendere la fisicità degli spazi.[27]

 

La città come luogo da cui fuggire, attraverso cui transitare, come luogo di partenza e di arrivo. E' il caso di John Cage e del suo spettacolo a bordo di un treno. Dal 26 al 28 giugno 1978, Alla ricerca del silenzio perduto, happening itinerante su rotaia, ha percorso l'Emilia Romagna da Bologna a Rimini, in tre giornate di andate e ritorni. Cage, nello stendere il progetto, propone:

 

che lo happening abbia come titolo Alla ricerca del silenzio perduto e come sottotitolo 3 escursioni in un treno preparato, variazioni su un tema di Tito Gotti di John Cage [...]. E che i tre "movimenti" siano previsti (sui programmi o sugli annunci particolareggiati) ognuno con la sua data, il suo orario, la destinazione e le fermate lungo la strada in modo tale da suggerire un lavoro musicale.[28]

 

L’artista americano individua dunque tre percorsi lungo i quali svolgere la propria azione teatrale. Si tratta di un vero e proprio viaggio attraverso l’Emilia Romagna, che tocca il territorio tra Bologna e Rimini. Secondo il progetto di Cage la città diviene il punto di partenza e quello – circolare, trattandosi di tre viaggi di andata e ritorno – di arrivo. E’ un percorso che entra ed esce dal contesto urbano. In questa dimensione itinerante una grande rilevanza assumono le soste che il treno fa. Le stazioni ferroviarie sono i luoghi dove si concentra l’azione teatrale. Cage progetta attentamente le varie fasi della performance all’interno delle stazioni.[29]

Il tentativo è qui raccogliere, transitando, gli elementi peculiari della cultura autoctona, convocati a far parte dell’esperienza e organizzati secondo una struttura che oscilla tra il movimento e la sosta.

 

La commistione di “teatrale” e non “teatrale” all’interno del tessuto urbano coinvolge anche l’esperimento messo in opera dal gruppo del Carrozzone per Rapporto confidenziale. Il loro “intervento teatrale” è suddiviso in due luoghi, uno esterno e uno interno. Per l’esterno viene scelto un piazzale bolognese delimitato ai quattro lati da un capannone, una palazzina, una rete e un albergo. Questo spazio esterno è “adattato” per l’azione teatrale.[30] In questo caso un luogo della città, preso inizialmente per come si presenta in una situazione normale, viene progressivamente riempito degli elementi che caratterizzano l’intervento. Si tratta qui di un’appropriazione totale dello spazio urbano, che viene piegato alle esigenze della rappresentazione. Il piazzale perde mano a mano la sua dimensione “normale”, quotidiana, per assumere connotati e contorni diversi.

Anche l’edificio prescelto come interno non è consuetamente adibito a pratiche teatrali. Si tratta di una palazzina a due piani, comprendente una scala e una corte. Anch’essa viene “smembrata”, adattata e trasformata: tutti gli spazi che essa fornisce sono utilizzati nell’azione. Lo svolgimento dell’“intervento teatrale” è descritto punto per punto, riferendo i movimenti di ciascun attore.

 

La realtà urbana infine come contenitore dell’evento teatrale, che trae dalla vita gli spunti all’azione stessa, in un gioco di incastri tra “scena” e “strada”. E’ questo il caso di Pig, Child, Fire! dello Squat Theatre. Questo gruppo ungherese, esule negli Stati Uniti, colloca l'azione in un negozio di New York. Questa scelta crea un legame fortissimo tra lo spettacolo teatrale e il territorio cittadino, tra gli uomini di teatro e i normali abitanti di un quartiere. Tra la vita teatrale, scandita dai tempi dello spettacolo, e la vita "vitale", cioè quella di tutti i giorni, è instaurato un contatto costante. L’oscillare tra questi due universi è continuamente previsto: l’azione teatrale prende spunto da quanto accade “per strada”, ma anche la “strada”, i passanti, sono in qualche modo sollecitati ad entrare nella realtà scenica. Emblematica in questo senso è la testimonianza di Anna Koos, una delle attrici del gruppo, che narra un fatto accaduto durante una replica:

 

Un rapimento è entrato a far parte dello spettacolo. Stavo leggendo la lettera di Artaud a André Breton sul marciapiede all'esterno, col pubblico all'interno [...], quando ho sentito improvvisamente gridare dietro di me. Ho smesso di leggere, mi sono voltata e ho visto che una ragazza veniva caricata a forza da due uomini su di un piccolo furgoncino Volkswagen grigio, la porta scorrevole si chiudeva e il pulmino partiva, ma così velocemente che, sebbene ogni spettatore fosse testimone della scena, nessuno potè interferire [...]. Del resto il pubblico pensava che si trattasse di un ready-made incluso nello spettacolo.[31]

 

L’interscambiabilità dei due mondi è una costante di questa esperienza. E nel descrivere il loro spettacolo successivo, L'ultimo amore di Andy Warhol, i componenti del gruppo si interrogano su altri possibili riutilizzi dello spazio urbano, e riferendosi a Pig, Child, Fire! analizzano quali implicazioni scaturiscano dalla non separazione dei due piani:

 

In Pig, Child, Fire! [...] lo spazio teatrale attraverso la vetrina del negozio si apriva sulla strada, su uno spazio non teatrale, verso avvenimenti non teatrali: il teatro porta la maschera della vita e la vita porta la maschera del teatro: lasciandoli a interpretarsi l'un l'altro. Il poliziotto reale che una volta è intervenuto a mettere le manette ai polsi degli attori che "duellavano" nella strada, la ragazza che è stata rapita di fronte alla vetrina, sono tutti diventati attori; il passante o il viso di chi dall'esterno lanciava un'occhiata sono diventati il coro della tragedia greca.[32]

La città è il centro di tutte le riflessioni qui raccolte. Ma l’idea di tessuto urbano non è considerata in modo univoco dai protagonisti delle varie esperienze. Il rapporto tra attività teatrale e contesto cittadino viene declinato secondo angolature e prospettive diverse.

Dal processo di simbiosi tra creazione scenica e territorio, che permea l’esperienza del Laboratorio di Prato – in cui attraverso l’intervento teatrale si rimodella la realtà urbana fornendole nuove possibilità significanti - si passa all’idea di metropoli come palcoscenico, in cui eventi scenici diversi si collegano attraverso l’immagine di una nervatura, una sorta di organismo “biologico” all’interno del quale distendere le diverse azioni in una visione collettiva e unitaria (l’esperienza della “città del teatro” romana organizzata dal gruppo Beat 72).

In modo ancora diverso è inteso l’intervento all’interno della città nell’esperienza del gruppo fiorentino Cfr., che non modifica le realtà in cui viene ad operare, ma al contrario trae spunto proprio dai luoghi in cui inserisce l’azione scenica, creando una corrispondenza tra realtà urbana e fatto teatrale, che convivono all’interno dello stesso spazio. E’ il caso – pur in contesti e con motivazioni differenti – anche del lavoro dello Squat Theatre, che sceglie un ambiente non neutro, con delle caratteristiche estranee alla realtà scenica, per operare teatralmente al suo interno, utilizzando le suggestioni che provengono dal “fuori”, dalla strada, dalla vita quotidiana, a loro volta influenzate dalla performance teatrale.

La città, una porzione ben delimitata dello spazio urbano bolognese – che comprende interni ed esterni – viene “trasformata” progressivamente in “altra cosa”, in realtà “altra” dall’operazione del Carrozzone, che vi inserisce una serie di elementi che nel procedere dell’intervento teatrale si sovrappongono alla “normalità” della vita quotidiana fino a farla scomparire all’interno dell’azione spettacolare.

La città infine compare “in negativo” nell’esperienza di John Cage, che progetta un’uscita dalla realtà urbana creando delle zone “franche” – l’interno del treno in cui si svolge la performance, le stazioni ferroviarie come punti centrali di una ricerca di “segni antropologici” autoctoni. Ma questo fuoriuscire dal tessuto urbano è concepito come viaggio di andata e ritorno, come un “uscire-entrare” che prende comunque la realtà cittadina come punto di partenza e di arrivo del proprio itinerario.

 

 

I.2. Il ritorno dell’attore

 

La prima stagione del Patalogo, l’anno che va dal giugno ’77 al giugno ’78, è ricca di fermenti e di proposte teatrali: in Italia, per citare solo alcuni dei protagonisti, passa Tadeusz Kantor con la sua Classe morta, l’Odin Teatret di Eugenio Barba presenta Anabasis e Robert Wilson I was sitting on my patio this guy appeared I thought I was hallucinating. Luca Ronconi mette in scena la trilogia del Laboratorio di Prato, che comprende Le baccanti di Euripide, La torre di Hugo von Hofmannsthal e il Calderon di Pier Paolo Pasolini, Giorgio Strehler allestisce un nuovo Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni e La tempesta di Shakespeare, L’idiota di Dostoevskij è adattato per le scene da Aldo Trionfo. Anche sul versante del “nuovo teatro” si susseguono le esperienze del Carrozzone, con le loro Vedute di Porto Said, Interni in esterno Esterni in interno, della Gaia Scienza con Blu oltremare e di Memé Perlini alle prese con Risveglio di primavera di Frank Wedekind. Il teatro “tradizionale” è ben rappresentato dalla compagnia di Edmonda Aldini e Duilio Del Prete, che porta sulle scene Confessione scandalosa di Ruth Wolff per la regia di Giuseppe Patroni Griffi, e dal Romeo e Giulietta con traduzione, adattamento e regia di Orazio Costa Giovangigli. Denominatore comune a tutte queste esperienze – pur nell’evidente eterogeneità dei punti di partenza e degli esiti – è la figura determinante del regista. Il lavoro di regia, nelle sue diverse declinazioni, permea tutti gli spettacoli menzionati.[33]

Ma parallelamente si viene affermando un “genere” che avrà molta fortuna negli anni avvenire, quello del cosiddetto “teatro d’attore”, quel teatro, cioè, che ha al centro una figura di attore, attorno alla quale ruota tutto lo spettacolo. E il Patalogo, nel tentativo di fornire un quadro il più variegato e completo possibile sulle tendenze in atto nel corso della stagione[34] si occupa anche di questo “genere” in quel periodo nascente, o meglio “risorgente” dal passato dei capocomici e delle compagnie di giro. Attraverso il saggio di Elena De Angeli, “Il Grande Capocomico chiede il sorpasso”[35], ne vengono delineati i protagonisti e le forme.

In primo luogo il “teatro d’attore” viene presentato in opposizione al “teatro di regia”:

 

Il Grande Capocomico […] ben difficilmente – per non dire mai – accetta il connubio con il Grande Regista, anche perché, e con le migliori ragioni di questo mondo (dal suo punto di vista, naturalmente), in genere lo odia.[36]

 

La conseguenza di questo rapporto mancato tra (grand)attore e (grande) regista è uno spettacolo costruito esclusivamente sulla personalità e sulle bravure dell’interprete:

 

[Il Grande Capocomico] si fa il suo spettacolo su misura, nel quale esibisce la sua idea di teatro, o se stesso, o – quando gli riesce – tutt’e due insieme.[37]

 

L’autoreferenzialità è dunque la prima caratteristica di questo tipo di teatro. Il prodotto ottenuto è uno spettacolo che più di tutto si propone di offrire al pubblico l’attore stesso. Vittorio Gassman e Luigi Proietti -  nella diversità dei loro approcci - incarnano pienamente questa tipologia. Il primo presenta, nel corso della stagione, il suo lavoro su un testo difficile e discusso, Affabulazione di Pier Paolo Pasolini. E’ questo il caso di un maestro della recitazione che sceglie un testo controverso, ne cura la regia e veste i panni del protagonista, lasciando agli altri componenti della compagnia il ruolo di comprimari:

 

Il capocomico di scuola […] si sceglie il ruolo (e quindi il testo), e organizza una compagnia chiamata a fare da basso continuo in sostegno e in appoggio alla voce solista. Gassman recita in maniera eccellente […]. Tutto il resto – scene costumi azioni luci attori – è silenzio: il teatro, in quanto tale, tace.[38]

 

Vengono qui analizzate dettagliatamente le peculiarità di quest’operazione. E le parole pronunciate dallo stesso Gassman a commento dello spettacolo confermano quest’interpretazione:

 

La commedia, così come è scritta, parliamoci chiaro, sarebbe addirittura da bocciare a un esame di drammaturgia elementare. Ho fatto Affabulazione esattamente come era scritta.[39]

 

La rivendicazione orgogliosa di aver utilizzato un testo ostico, problematico, “da bocciare”, non fa che mettere in evidenza quanto stia a cuore all’attore, cioè il superamento – grazie alla sua esclusiva abilità scenica – delle difficoltà incontrate. Mettere in scena Affabulazione “esattamente come era scritta” significa sfidare e vincere l’incomprensibilità del testo servendosi della propria arte.

 

Diverso il caso di Luigi Proietti, che con il suo recital A me gli occhi, please, anch’esso in cartellone nella stagione, mette in scena unicamente se stesso, il suo lavoro di interprete.

 

L’assunto dello spettacolo […] è fin troppo noto: per uscire dalla propria crisi individuale di rapporto con il teatro, un attore mette in discussione, con gli strumenti dell’ironia, se stesso e il proprio ruolo, nonché il molteplice bagaglio delle esperienze acquisite, misurandosi criticamente con i materiali – in senso lato – della scena e del mestiere. In un simile contenitore, come risulta evidente, si può mettere – rimanendo sempre in perfetta buona fede – di tutto, da Shakespeare a Diego Fabbri.[40]

 

Lo spettacolo dunque assume dimensioni “centonatorie”, e ha come unico punto di contatto tra le sue varie parti la presenza, il corpo dell’attore.

 

Ma proprio analizzando lo spettacolo di Proietti, emerge uno degli aspetti determinanti di questo “genere” teatrale. Cioè la forte risposta del pubblico. Comune ai vari esperimenti di “teatro dell’attore” è infatti la grande affluenza di spettatori. Un primo grande motivo di questo successo consiste nell’offrire uno spettacolo di “evasione”, in cui i contenuti veicolati – ammesso che ve ne siano – passano in subordine rispetto al godimento estetico che deriva dall’assistere ad una serata di “grande teatro”. In questa prospettiva l’eterogeneità degli elementi che compongono A me gli occhi, please assume un significato unitario:

 

Molto Petrolini, […] molta musica, da Kurt Weil alla canzonaccia romanesca; molti omaggi alla tradizione, dal Dottor Balanzone a Rugantino, alla sceneggiata; ma anche molta filosofia spicciola, di quella che tutti si aspettano, e dalla quale tutti si sentono rassicurati, e soprattutto confermati nel proprio sacrosanto diritto alla famosa “evasione”. E il genere paga, naturalmente, e paga nella moneta di un pubblico vasto quanto difficilmente catalogabile, […] un pubblico che sembra avere molta voglia non soltanto di ridere – il che pure non guasta -, quanto e più di avere qualcuno da ammirare, qualcuno che “sa fare qualcosa benissimo”: dunque il virtuoso.[41]

 

Il virtuosismo dell’attore è l’elemento che più spinge il pubblico ad andare a teatro. L’aspettativa è quella di trovarsi di fronte ad un interlocutore – il grande attore, appunto – ben riconoscibile e tranquillizzante, da cui ci si attende nulla di più di un’esemplificazione della sua arte recitativa. E’ questo il punto che hanno in comune le due diverse esperienze di Proietti e Gassman[42]:

 

[Il pubblico] è venuto a assistere al “saggio di bravura”, ben disposto e disponibile a lasciarsi incantare e sedurre e ipnotizzare dal “fenomeno”, quel fenomeno che ha saputo – ed è certo un merito – piegare la platea all’attenzione per un testo, sia pur denso, ostico, sovraccarico di simboli e di parole.[43]

 

Questo spettatore “sedotto”, assolutamente acritico è certamente il frutto della sempre maggiore ricerca – da parte del pubblico - di “evasione” e di svago, di teatro “gastronomico” e disimpegnato. Ma l’atteggiamento passivo nella fruizione della rappresentazione teatrale viene collegato anche ad un altro fenomeno, allora nascente, e che prenderà sempre più piede nei successivi anni ’80 e ’90, soprattutto grazie alle nuove ondate di comici: l’influenza del mezzo televisivo nell’operare una selezione delle proposte teatrali. L’exploit di Proietti infatti è anche dovuto al passaggio televisivo:

 

Proietti […] ha imperversato in alcune tra le principali “piazze” della penisola – va detto, con clamorosa e numerabilissima soddisfazione delle medesime -, fino a approdare ai fasti serotini della rete due.[44]

 

Il rapporto di scambio tra televisione e teatro ha dato dunque i suoi frutti, almeno sotto l’aspetto dell’”audience” teatrale. Ma anche la costruzione stessa dello spettacolo risente delle fascinazioni televisive:

 

Proietti e Lerici [il coautore dei testi, ndr] scelgono la via del nazional-popolare, con un occhio […] pericolosamente puntato al piccolo schermo.[45]

 

 

La riflessione sull’avvento (o ritorno) del “Grande Attore” non si ferma alle forme di teatro più commerciali e di largo e indistinto consumo. In quest’ottica è analizzato infatti anche il lavoro di Carmelo Bene e Carlo Cecchi. Del primo, presente nella stagione con il suo Riccardo III da Shakespeare e con la ripresa di S.A.D.E. si mette in risalto il carattere di “solista”, pur nel rovesciamento delle prospettive delle esperienze precedentemente citate: a fronte di un’operazione “esibizionista” dell’attore, alla Gassman, che concede tutto se stesso al pubblico ammirato:

 

Il Nostro sulla scena si concede esclusivamente a se stesso, abbandonando gli astanti a una condizione voyeuristica, tale da sollecitare l’inconscio collettivo a percepire  - e quindi a vivere – una situazione di scambievole violenza.[46]

 

Nel suo “concedersi esclusivamente a se stesso” davanti alla scena Bene tuttavia attua un’operazione da grandattore, organizzando il testo e lo spettacolo affinché ruoti esclusivamente intorno alla sua figura:

 

Specchio deformante che ingigantisce e esalta tutti i congegni dell’Artificio (né è casuale il suo nominare senza sarcasmo l’attore quale “artifex ludorum scenicorum”), Bene è destinato a essere e rimanere per natura e vocazione un grande solitario, nonché condannato a perpetuare quell’aura di scandalo e quell’odor di zolfo il cui peso […] si traduce scenicamente in lucidissima e sempre più estenuata disperazione.[47]

 

Anche Carlo Cecchi, attore e regista ad un tempo, non sembra indenne alla tendenza a far confluire verso di sé il cuore e l’essenza degli spettacoli che dirige ed interpreta. Pur infatti restando

 

idealmente ancorato all’immagine romantica e sessantottarda del “lavoro di gruppo” […] in una situazione gestionale continuamente periclitante tra il pubblico e il privato, e in un habitat strutturale perennemente in bilico tra l’ipotesi collettivistica e l’oggettività capocomicale.[48]

l’attore, nel suo duplice lavoro al Borghese gentiluomo e al Don Giovanni, tende a mutare

 

il registro, aldilà delle singole e rispettive tendenze e tensioni degli attori, […] a seconda delle variabili che [egli stesso] gli imprime nell’incompiuta ricerca delle misure del suo personaggio.[49]

 

 

Dopo aver raccolto una serie di exempla che, nella loro assoluta diversità, convergono nel punto comune rappresentato dalla preminenza del lavoro dell’attore, il fenomeno è analizzato attraverso le forme in cui maggiormente si manifesta. Parallelamente all’emergere del “teatro dell’attore” prendono sempre più piede due modalità espressive che a questa tendenza si possono ragionevolmente accostare: il recital e il monologo. Elena De Angeli a questo proposito parla addirittura di “Era del Monologo”, come forma espressiva che più facilmente si presta alla manifestazione della bravura recitativa e che più permette all’interprete di esprimere compiutamente il proprio sé.[50]

 

Ultimo tassello dell’analisi del ritorno sulle scene del Grande Attore è la sua contestualizzazione storica e critica. Vengono cioè indagate le cause culturali della fioritura del “genere”, e il fenomeno viene collocato all’interno di una ben precisa situazione del teatro italiano di quegli anni:

 

La […] decadenza di un’ampia porzione dell’ideologia del gruppo può contribuire a spiegare il determinarsi del fenomeno: molti tra gli attori che hanno scelto il recital o il monologo provengono infatti da gruppi più o meno sperimentali già dispersi o in via di estinzione, e hanno quindi alle spalle un tipo di esperienza difficilmente trasferibile nell’ambito dello spettacolo cosiddetto “tradizionale”.[51]

 

L’attore, quindi, come centro della scena, come perno su cui costruire l’azione, il testo, il pubblico. L’orgoglio “narcisistico” del proprio “essere attori” riunisce in un insieme unitario artisti tra loro lontanissimi nel modo di fare ed intendere il teatro. L’individuazione di questo primato dell’“io recitante” permette di raggruppare esperienze isolate in un insieme coerente, che riesce a delineare nitidamente i contorni del fenomeno e a restituirli in forma di discorso organico, tenendo conto anche della situazione culturale in cui si verifica questa tendenza: da una parte la frammentazione del “gruppo” come unità inscindibile propria del teatro sperimentale, dall’altra la volontà di evasione disimpegnata di un pubblico sempre maggiormente influenzato nelle sue scelte dai media “domestici”.


 



[1] Tutti compresi nella cornice “Teatro/Tendenze/La strana parola di…” che è indicata in costa alle pagine.

[2]Cfr. “Nello spazio dell'ambiguità, intervista con Gae Aulenti a cura di Franco Quadri, in: il Patalogo 1, p.319.

[3]Ibidem.

[4]Ibidem.

[5]Il riferimento a quest’ambiguità è già evidenziato dal titolo dato all’intervista.

[6]Cfr. “Nello spazio dell'ambiguità, intervista con Gae Aulenti a cura di Franco Quadri, cit., p.322.

[7] Cfr. "Ronconi e il materiale verità come finzione", contenuto in: Franco Quadri, “Naturale, nuovo naturale, iperrealista, reale...” in: il Patalogo 1, p. 298 (i corsivi sono dell'autore).

[8]Ibidem, p. 300 (corsivo dell'autore). A suggello, si veda anche quello che dice Luca Ronconi a proposito delle Baccanti: “Secondo me una parola teatrale in questo caso, ma poi forse sempre, non ha una direzione sola, ne ha due; una che va al cuore del testo, che serve come indicazione di ciò che è il testo, e un'altra invece che va alla percezione, alla recezione del pubblico. Il lavoro che abbiamo cominciato a fare qui [...] è proprio in questo senso: ossia di riuscire a spaccare in due ogni termine, ogni frase, ogni concetto, proprio come se il foglio fosse spaccato per metà, di cui una parte ci serve come filo d'Arianna nel testo, e un'altra parte invece in assoluta autonomia è quello che viene dato agli spettatori come guida della rappresentazione. Tutto questo è stato sistemato in uno spazio” (cfr. il Patalogo 1, p.198).

[9] Ma lo stesso si può dire anche degli altri spettacoli del Laboratorio. Si veda in proposito la recensione alle Baccanti di Rita Cirio per "L'espresso", riportata a p. 331 del Patalogo 1: "Questo spettacolo si impone, quasi con il valore di un saggio teorico, come una tappa di grande importanza nella ricerca sulla comunicazione teatrale. Due almeno sono i capitoli di questo saggio in forma di spettacolo: il modo di usare lo spazio come un elemento della sintassi teatrale e l'analisi di un diverso rapporto tra testo e spettatore attraverso la mediazione dell'interprete. Per il quale la messinscena delle Baccanti individua infatti un ruolo totalmente inedito". Oppure, sullo stesso spettacolo, il commento di Siro Ferrone su "L'Unità": Ci sono due interventi contrari e purtuttavia cooperanti da parte della regia: mentre lo spazio si moltiplica, costringendo lo spettatore ad assumere di volta in volta un punto di vista diverso rispetto all'azione, le differenti ottiche dei personaggi vengono compresse in un unico attore." (cfr. il Patalogo 1, p. 336).

[10] Cfr. “Nello spazio dell'ambiguità”, cit., in: il Patalogo 1, p. 323. Il Laboratorio di Prato - sia detto per inciso - si è aggiudicato tutti i maggiori riconoscimenti della prima edizione del Premio Ubu: Le Baccanti miglior spettacolo, Luca Ronconi miglior regista (per tutto il terzetto) e Gae Aulenti miglior scenografa (cfr. il Patalogo 1, p. 265). A riprova dell'importanza del suo lavoro sullo spazio, la Aulenti è poi menzionata nel Patalogo 1 come "il personaggio dell'anno" (cfr. le pp. 317 - 330), mentre Le Baccanti sono denominate "Lo spettacolo dell'anno" (cfr. le pp. 331 - 337).

[11] Debutto il 1 dicembre 1977.

[12] Cfr. Klaus Michael Grüber e Bernard Pautrat, “Winterreise: Freddo e nebbia sull'Olympia Stadion”, in: il Patalogo 1, p. 347.

[13] Cfr. Franco Quadri, cit., p. 310 (corsivo dell'autore).

[14] Non a caso Quadri poco prima parla di questo spettacolo come uno dei pochi attuali per cui "non vale il principio dell'odierna tecnica della comunicazione per cui il sapere viene ormai equiparato all'aver visto, come già fosse un termine di appropriazione dell'evento: in quest'operazione concettuale entrano invece elementi emozionali che difficilmente possono venir riempiti se non dalla partecipazione diretta, come l'angoscioso senso di impotenza di fronte allo spazio, e ancora prima quel freddo che non si può trasmettere col racconto" (Franco Quadri, cit., p. 310).

[15] Franco Quadri, cit.

[16] Franco Quadri, cit.

[17] Nel caso del Laboratorio di Prato il tema dello spazio si pone per tutto il progetto, comprensivo di più eventi teatrali, e assume una portata teorica che va oltre gli stessi esiti spettacolari.

[18] Si tratta infatti in entrambi i casi di eventi unici irripetibili e irripetuti.

[19] Il rapporto stabilito a Prato da Luca Ronconi tra pratiche teatrali e territorio è l’oggetto di un intervento politico: Claudio Martelli, esponente di spicco dell’allora Partito Socialista Italiano, propone un referendum perché gli abitanti di Prato si pronuncino a favore o contro la continuazione di quell’esperienza. Il Patalogo 1 riporta la notizia (cfr. p. 207), trasferendo così il tema dello spazio teatrale dal livello della riflessione teorico-critica a quello del piccolo fatto di cronaca.

[20] Cfr. Gae Aulenti, da "Lotus International" n. 17, dicembre 1977, in: il Patalogo 1, p.346.

[21]Ibidem.

[22] Tra i tanti gruppi che partecipano si menzionano qui almeno La Gaia Scienza, con Una notte sui tetti e Il Carrozzone, con Ombra diurna.

[23] Scheda a cura di Giuseppe Bartolucci, Ulisse Benedetti, Simone Carella, Franco Cordelli, in: il Patalogo 1, p.350.

[24] Ibidem.

[25] Cfr. il Patalogo 1, p. 351.

[26] Ibidem.

[27] Ibidem.

[28] Cfr. il Patalogo 1, pp. 354 – 355.

[29] Ecco nel dettaglio il progetto di Cage: “Negli spazi intorno alla stazione ci saranno tanti televisori quanti sono i canali tv, ognuno sintonizzato su una diversa stazione, ognuno collocato a un'altezza di circa otto piedi. [...] In aggiunta ci saranno tanti musicisti quanti ce ne siano che abbiano voglia di suonare simultaneamente e quanti possano essere disponibili in termini di bilancio. Questi gruppi dovrebbero essere residenti nei dintorni della stazione e rappresentare in modo genuino la vita del luogo e la sua cultura. [...] A un tempo prestabilito il sistema di annunci della stazione sarà usato per informare ripetutamente della partenza del treno, e saranno usati anche tutti i mezzi soliti - fischi, grida, eccetera - in modo che il pubblico ritorni alle carrozze” (cfr. il Patalogo 1, p. 355).

[30] Questa è la descrizione che il gruppo fa dell’esterno prescelto: “L’illuminazione dell’intera zona è inizialmente affidata a fonti luminose casuali: le luci delle vie circostanti, delle insegne dell’albergo, dei confinanti padiglioni della Fiera. Lo spazio è invaso solo sonoramente: quattro casse acustiche diffondono una conversazione-intervista con un tagliatore di diamanti a proposito delle tecniche e dei problemi relativi al taglio del diamante. La registrazione durerà l’intero arco temporale dell’intervento, anche quando il pubblico si sarà spostato all’interno della palazzina. […] Sulla facciata dell’Euro Crest Hotel viene proiettata una scena d’incendio tratta dall’Inferno di cristallo, per la durata di 5 minuti. […] Sei potenti quarzi si accendono. Ogni sasso, cespuglio, persona che si trovi nel piazzale proietta ombre nette e lunghissime. […] Un elicottero scende dall’alto al centro del piazzale. Mulinello di vento generato dalla rotazione delle pale. Sollevamento della polvere.” (cfr. “Nota del Carrozzone a Rapporto confidenziale”, in: il Patalogo 1, p. 357).

[31] Cfr. il Patalogo 1, p. 316.

[32] Cfr. il Patalogo 1, p. 363.

[33] Si tratti di regia individuale, oppure di “elaborazioni collettive”, il ruolo direttivo ricopre un ruolo fondamentale.

[34] Si vedano anche le sezioni dedicate alla sceneggiata napoletana e al teatro popolare e al ritorno del “naturalismo” (cfr. Allegato 1).

[35] Cfr. Elena De Angeli, “Il Grande Capocomico chiede il sorpasso”, in: il Patalogo 1, pp. 275 – 284.

[36] Ibidem, p. 275.

[37] Ibidem, 1, p. 275.

[38] Cfr. Elena De Angeli, “Il Grande Capocomico chiede il sorpasso”, cit.,, p. 276.

[39] Cfr. il Patalogo 1, p. 185.

[40] Cfr. Elena De Angeli, “Il Grande Capocomico chiede il sorpasso”, cit., p. 276.

[41] Ibidem.

[42] Che nel saggio citato sono presi ad emblema del “teatro dell’attore”.

[43] Cfr. Elena De Angeli, “Il Grande Capocomico chiede il sorpasso”, cit., p. 276.

[44] Ibidem, p. 275.

[45]Ibidem, p. 276.

[46]Cfr. Elena De Angeli, “Il Grande Capocomico chiede il sorpasso”, cit., p. 278.

[47]Ibidem, p. 278.

[48]Ibidem, p. 279.

[49]Cfr. Elena De Angeli, “Il Grande Capocomico chiede il sorpasso”, cit., p. 279.

[50] Del monologo viene descritta anche la composizione: “Un testo autoctono, o un collage altrui, possibilmente di forte carica polemica e/o deprecatoria; pochi e essenziali elementi scenici, preferibilmente scalcinati; un attore frustrato ma in vena di aggressività; un pubblico complice. Pochissima spesa, come si vede, e la garanzia di una qualche attenzione. Non ci vuole molto per capire che con questa formula elementare si può invadere l’Italia, né per immaginare che cosa potrà riservarci il domani.” (cfr. p. 281). Questa affermazione “profetica” verrà – come vedremo in seguito - confermata dagli eventi. Il Patalogo, infatti, nel corso degli anni riprenderà questo tema, di volta in volta aggiornato negli sviluppi e nelle evoluzioni che il “genere” del “teatro dell’attore” subirà.

[51] Cfr. Elena De Angeli, “Il Grande Capocomico chiede il sorpasso”, cit., p. 283.


 
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