indietro
olivieropdp
indice

IV. Il patalogo 10: la stagione 1986/1987

 

 

IV.1. La scoperta del videoteatro

 

Il video come forma espressiva, i suoi rapporti con il teatro, il suo ingresso sulla scena costituiscono il nucleo della prima sezione monografica del Patalogo 10. Attraverso una raccolta di interventi vengono indagati tutti gli aspetti in cui si manifesta l’incontro tra video e teatro. La localizzazione di questa tematica all’interno del volume è estremamente puntuale, i materiali vengono a costituire una vera e propria “zona”, in cui l’argomento è trattato da differenti angolature, e viene raccontato attraverso molteplici esperienze. Il punto di partenza è la crescente centralità assunta dagli elementi video in molta parte della sperimentazione teatrale. La commistione tra i due mondi – quello in praesentia della scena e quello in absentia della ripresa, i prestiti e i travasi reciproci dall’uno all’altro - sono analizzati attraverso alcuni percorsi artistici esemplari. All’interno della sezione si può ravvisare una duplicità di struttura: da una parte i contributi sono linearmente distribuiti pagina dopo pagina, dall’altra però il discorso sul videoteatro acquista anche una dimensione circolare: si apre infatti con l’analisi delle regie televisive di Beckett e si chiude tornando ancora a Beckett, i cui videodrammi sono proiettati in esclusiva per l’Italia nel corso della III edizione del festival Riccione TTV. Il punto di arrivo di questo excursus sul rapporto tra teatro e video riporta il discorso al momento iniziale.

 

La sezione si apre su quello che si può definire "video d'autore". Il supporto elettronico in questa accezione non è un elemento inserito insieme ad altri nella rappresentazione teatrale, ma l'orizzonte ultimo in cui si manifesta la creazione artistica. Le tecniche di registrazione delle immagini sono il mezzo prescelto per veicolare il senso di un testo: recitazione, scenografie, luci, parole si inscrivono dunque in un'operazione espressiva che ha la ripresa televisiva come obiettivo finale. Un esempio autorevole di questo approccio è rappresentato dai videodrammi che Samuel Beckett ha realizzato per la Süddeutsche Rundfunk di Stoccarda. Le produzioni televisive di Beckett sono raccontate dalla voce di Jim Lewis, l'operatore che ha collaborato alle riprese del maestro irlandese per poco meno di vent'anni. In una lunga intervista Lewis spiega i criteri seguiti, la metodologia di lavoro e le preferenze.

In primo luogo sottolinea il ruolo che Beckett assegna alla telecamera. E’ sempre fissa e ha un unico punto prospettico da cui riprendere la scena, che la esclude.[1] Viene in questo modo a incarnare le funzioni di un occhio che osserva continuamente e "oggettivamente" quanto accade ai personaggi sul set. E' un registratore meccanico, utilizzato dal regista con un'esattezza razionale, "quasi matematica". Questo particolare uso della telecamera, escludendo di per sé le riprese "soggettive"[2], dà luogo a lunghi piani sequenza, che sono la cifra stilistica del lavoro di Beckett sul video. Proprio nel piano sequenza infatti, più che in ogni altro tipo di ripresa, si può realizzare quest'idea della telecamera come "occhio che osserva":

 

L'elemento essenziale è questo sguardo che penetra senza pietà. E' l'osservazione impietosa, è tutto lì. Proprio a causa di queste lunghe sequenze ininterrotte. A volte tiene la stessa inquadratura così a lungo che viene voglia di cambiarla.[3]

 

Nel caso di Beckett si ha dunque un utilizzo espressivo delle potenzialità offerte dal mezzo elettronico. Ma anche tutti gli altri elementi della videoripresa sono impiegati in funzione del senso che l'autore intende veicolare. Ecco il caso esauriente delle luci:

 

Le luci sono sempre deboli, pallide, molto pallide, in modo che i personaggi si vedano appena. Sono rare le situazioni in cui c'è molta luce. [...] Nella maggioranza dei casi, si evoca il passato, la memoria, la notte e anche i sogni. [...] I ricordi sono sempre vaghi, perché tutto è accaduto molto tempo fa. O addirittura il personaggio che ricorda non esiste più, nemmeno lui. E' nell'oltretomba. E' una cosa che affiora sempre in Beckett ed è probabilmente per questo che c'è questa oscurità, questa luce debole.[4]

 

Lewis fornisce la spiegazione di ciascun accorgimento tecnico. Le luci soffuse indicano lontananza, ricordo, memoria di un tempo lontano o addirittura perduto. E' questo universo semantico l'oggetto della meticolosa osservazione della telecamera, che non stacca mai. Si tratta di uno sguardo senza soluzione di continuità su un passato remoto e confuso, scontornato, richiamato continuamente nella sua indefinitezza dall'oscurità dell'ambientazione, dall'assenza di luce. Questa dimensione - riscontrabile spesso anche nelle opere drammatiche - è restituita efficacemente, forse più efficacemente che nella rappresentazione teatrale, dalle immagini video. In questo contesto si inserisce anche la preferenza di Beckett per la ripresa in bianco e nero:

 

Si tratta sempre di produzioni in bianco e nero. [...] Questo bianco e nero pone l'accento su quell'impressione di vaghezza e indeterminatezza cui accennavo prima. Questa non esistenza e la memoria... penso che tutto questo si esprima meglio in bianco e nero che a colori, perché il colore racconta un'altra storia. [...] Il colore può creare una forte distrazione, anche se ce n'è molto poco, distrae e disturba e questo non è essenziale. [...] E a Beckett, fondamentalmente, interessa l'essenziale.[5]

 

L'essenzialità emerge come un'altra caratteristica del lavoro di Beckett in ambito televisivo. E quest'essenzialità si sposa bene con la progressiva tendenza dell'autore all'eliminazione della parola in favore di un diffuso e continuo silenzio. Nel regno dell'assenza sopravvive però ancora la possibilità di creare delle immagini silenziose e significanti:

 

Ogni parola che scrive gli dà l'impressione che si tratti di una menzogna e questa è una delle ragioni che lo ha spinto verso la televisione, perché è stato ridotto al silenzio ma l'immagine continua a esistere. E' ancora possibile avere l'immagine.[6]

 

Il lavoro di Beckett sui suoi videodrammi è analizzato da Lewis in tutte le sue sfacettature, dai dettagli tecnici alle implicazioni espressive e semantiche che li determina. Nella lunga intervista l'operatore, oltre che descrivere il modus operandi beckettiano, racconta il rapporto che si è instaurato tra loro, offrendo un quadro affascinante ed esaustivo di una lunga esperienza di collaborazione.

 

Il passaggio di una pièce teatrale al videodramma, operato da Beckett nel caso di Quoi où, è il tema della recensione di Tom Bishop. Nella sua analisi si colgono i mutamenti (e i miglioramenti, secondo il critico) che il dramma subisce nel momento in cui cambiano gli strumenti della sua rappresentazione. La pièce specifica serve poi a Bishop per fornire indicazioni più generali sul lavoro di Beckett per la televisione. In queste indicazioni si possono ravvisare alcuni punti di contatto con il discorso di Jim Lewis:

 

La trasposizione [di Quoi où] è interessante per due motivi. La versione televisiva apre infatti nuove prospettive nella maniera in cui Beckett utilizza il video come mezzo espressivo, grazie alle soluzioni scelte e utilizzate; inoltre è appassionante esaminare le diverse tecniche prese in considerazione dall'autore e successivamente scartate. E' un procedimento all'essenziale che costituisce da solo un vero e proprio microcosmo del combattimento che Beckett ha sostenuto lungo tutto l'arco della sua esistenza per giungere a uno stato di concentrazione sempre più radicale.[7]

 

Questa ricerca dell'essenzialità è stata in più occasioni ribadita da Lewis, fino a definirla il motivo principale delle scelte operate da Beckett. Ma Bishop arriva a stabilire un confronto tra le due versioni - scenica ed elettronica - di Quoi où , e a mettere in evidenza come, nel passaggio dalla scena al video, la pièce si definisca meglio nella sua struttura portante e significante.[8]

 

La videoripresa come elemento inserito nel contesto più ampio della scena teatrale occupa invece le riflessioni di Mario Martone, regista di teatro con molte esperienze televisive al suo attivo. Martone prima di tutto sgombra il campo dai possibili equivoci che possono insorgere affrontando il tema del lavoro con la telecamera. Infatti - nota - esistono due grandi aree artistiche che hanno al loro centro l'immagine registrata:

 

La prima distinzione va operata tra il lavoro all'interno dello schermo (il lavoro per il broadcast, la macro-televisione) e quello in cui lo schermo si integra sulla scena con altri elementi grazie a precedenti registrazioni o al circuito chiuso (come per le video-installazioni, la micro-televisione).[9]

 

Il discorso si concentra poi sulla seconda delle due aree. Martone esprime le motivazioni che l'hanno spinto a inserire le immagini videoregistrate nei suoi spettacoli. Ed emergono le possibilità espressive del mezzo elettronico: il video, ad esempio attraverso i monitor presenti sulla scena, diviene un elemento della costruzione drammaturgica dello spettacolo, e non un semplice ornamento estetico.[10] L'utilizzo degli schermi può avere una funzione comunicativa, come nel caso dell'adattamento di Mercedes di Thomas Brasch per il Teatro Biondo di Palermo. Qui infatti le immagini video fungono da collegamento tra le varie zone drammaturgiche della rappresentazione:

 

Telecamere e monitor incastonati nella scenografia lavoravano in diretta, permettendo ad azioni contemporanee di essere seguite da entrambi i lati. Ecco l'uso drammaturgico: le azioni erano collegate tra di loro, e la funzione spia degli occhi delle telecamere era parte integrante di un testo inquieto e di una scena data per frammenti: il video, con la sua parzialità, era così parte di un sistema linguistico che già violentava lo sguardo dello spettatore, lo rendeva intermittente.[11]

 

Gli strumenti elettronici in quest'ottica divengono elementi del tessuto linguistico dello spettacolo alla pari con gli altri presenti sulla scena. Martone torna a ribadire l'utilizzo del video in ambito drammaturgico e strutturale parlando della sua versione del Filottete di Sofocle, che debutta nel corso della stagione 1986/1987 al festival di Santarcangelo:

 

Qui il rapporto drammaturgico col video è portato su un piano maggiormente complesso e compiuto. Ho immaginato che l'eroe greco abbandonato sull'isola deserta di Lemno non fosse raggiunto da Ulisse e Neottolemo, come nella tragedia di Sofocle. Ma che sognasse, nel suo delirio, di incontrare gli altri personaggi. Nel lavoro sono state evidentemente privilegiate la scrittura [...] e l'interpretazione dell'attore [...], ma per dare vita alle ombre che in questo caso venivano a rappresentare Ulisse e Neottolemo ho usato il video.[12]

 

 

Interessante è il confronto dell'esperienza di Martone, che parla da uomo di teatro, con quella di Paolo Rosa, esponente di Studio Azzurro, un gruppo che si occupa di videoinstallazioni, o meglio di "videoambientazioni". L'approccio alla realtà della scena avviene grazie all'incontro con Giorgio Barberio Corsetti, con il quale Studio Azzurro inizia a lavorare attorno a un progetto teatrale. Rosa, nel suo intervento, mette in evidenza le possibilità emergenti dalla simbiosi delle due diverse tipologie espressive, rivendicando pari dignità alle apparecchiature elettroniche rispetto agli altri elementi scenici:

 

I monitor devono avere una drammaturgia propria, precisa; si devono muovere con la stessa importanza con cui si muovono gli attori, devono potersi esprimere come si esprime un corpo che si muove; devono confrontare alla pari il loro potenziale iperreale con la fisicità del personaggio che recita sino a mescolare le due cose, sino a confonderle. I monitor non devono essere componenti decorative e scenografiche [...]. C'è la possibilità, allargando e moltiplicando il proprio schermo, di creare pareti, fessure, sfondamenti, di violare con la loro luminosità il buio della scena, di prolungare i limiti spaziali travalicando le modalità di rappresentazione prospettica, evocando così dimensioni originali e non prevedibili.[13]

 

In questo discorso, che mira all'esaltazione dello specifico lavoro con e sul video, si ritrovano presenti, in altra ottica, gli stessi presupposti indicati da Martone come essenziali per l'inserimento dei supporti tecnologici all'interno di una rappresentazione teatrale. E' infatti anche qui sottolineata l'esigenza di utilizzare monitor e schermi per le loro particolari potenzialità significanti, e non come mero ornamento decorativo di matrice "modernista" o "postmoderna". Ma da queste affermazioni si delinea l'operazione attuata da Studio Azzurro e Barberio Corsetti nei suoi presupposti drammaturgici di fondo. Il mondo del visuale, l'immagine registrata, la telecamera e gli altri supporti tecnologici si inseriscono con la loro specificità espressiva nella struttura drammaturgica dello spettacolo, che è determinato proprio dalla presenza simultanea dell'attore in carne e ossa e del suo simulacro iconico.[14]

 

Una riflessione più generale sul videoteatro è quella compiuta da Franco Quadri nel commentare la terza edizione del Festival Riccione TTV, dove le esperienze di rapporto tra teatro e schermo sono state per la prima volta raccolte ed ordinate. Quadri dà conto della molteplicità di forme in cui il tale rapporto si palesa:

 

S'è sperimentato il video promozionale e lo spot riassuntivo di una rappresentazione, il video già visto in scena e estrapolato dal contesto, il video narrativo realizzato da un teatrante o da un gruppo o il puro e semplice video-ritratto; o anche il video preparatorio di un allestimento, singolare bolck-notes elettronico di appunti, doppiamente interessante per la sua qualità d'anteprima e per lo stimolo possibile a rinnovare il linguaggio scenico.[15]

 

Il video dunque nell'esperienza di Riccione TTV è connesso al teatro in modi molto diversi, dal documento-testimonianza al materiale di lavoro allo strumento promozionale. Ma nell'anno in cui il festival romagnolo si è aperto con forza al "video d'autore", ospitando unico in Italia la produzione televisiva di Beckett, il critico pone il problema di una catalogazione delle varie forme, attestando in questo modo la vitalità crescente di questo tipo di espressione artistica:

 

Se si considera la varietà tematica dei prodotti, dalla prosa al teatrodanza, dal body building alla performance, dalla oggettività televisiva allo scoop d'avanguardia, si avrà un quadro della difficoltà, non sempre apprezzata dalle giurie e dalla teoria critica, di categorizzare il “genere videoteatro”.[16]

 

 

La sezione dedicata alle relazioni tra video e teatro - come si è visto - ha raccolto una serie di esempi delle diverse modalità in cui questo rapporto si è manifestato. Resta da menzionare qui, a conclusione dell'analisi, la breve recensione di Oliviero Ponte di Pino a Girotondo di Arthur Schnitzler nella versione "elettronica" di Massimo Castri e Maurizio Buscarino[17], che dà conto di un altro episodio di profonda interazione tra il mondo della scena e quello dell'immagine videoregistrata.

 

 

IV.2. Le cose da salvare

 

Nel Patalogo 10 ritorna uno strumento di grande immediatezza e semplicità analitiche: l'inchiesta. E una grande inchiesta festeggia il decennio di vita dell'Annuario.[18] A più di cento tra registi, attori, critici, operatori e addetti ai lavori è stata posta una domanda impegnativa: quali eventi, fenomeni, personaggi dell'ultimo decennio teatrale avrebbero voluto salvare e inserire in un'ipotetica e costruenda storia del teatro. Le risposte fornite – ovviamente - sono le più disparate, ed evidenziano nella loro diversità gli stili, i criteri valutativi, la varietà dei gusti dei maggiori esponenti del teatro italiano. All'inchiesta non segue alcuna "classifica", non vengono cioè elencati i "vincitori" del sondaggio. Il Patalogo si limita a stimolare la riflessione su un decennio controverso, che viene subito dopo i vent'anni in cui il teatro è stato, a livello internazionale, rivisto, ripensato e rivoluzionato, cioè i Sessanta e i Settanta.[19]

 

Ad una attenta lettura delle varie dichiarazioni, tuttavia, alcune figure, tendenze e opinioni sono ricorrenti e si stagliano sulle altre.[20]

In primo luogo si ravvisa un generalizzato sentimento di "crisi” del teatro contemporaneo. Questo elemento caratterizza la riflessione di molti degli interpellati. Il primo giudizio negativo sul decennio è quello dato da Giorgio Albertazzi, che da una parte definisce il teatro italiano del periodo noioso e “sgrammaticato”[21], dall’altra stigmatizza una sempre crescente attenzione al guadagno, al botteghino, una tendenza a considerare l’attività teatrale in termini di mercato.

La tendenza alla mercificazione, l'attenzione all'incasso come elementi di una condizione degradata della scena italiana sono sottolineati anche da Dario Fo, che punta il dito sull’ossessione degli abbonamenti e dei “pacchetti” di spettacoli: il pubblico, bombardato di offerte “vantaggiose”, finisce per preferire la quantità alla qualità.

La sensazione della crisi è dunque un tratto comune che si ritrova anche nelle dichiarazioni di persone ideologicamente distanti, come Albertazzi e Fo. I due attori si trovano in piena consonanza nel tracciare la propria visione della realtà teatrale italiana. E molte altre sono le voci che si attestano su questa linea. Eugenio Barba denuncia l'aggravarsi della situazione da lui già denunciata anni prima:

 

Dieci anni: 1977 - 1987: Una nuova emorragia, ancora una perdita di senso del teatro colpisce un'intera generazione.[22]

 

A questa deriva il fondatore dell'Odin oppone (ripropone) la sua idea di Terzo Teatro, e indica nel Sud dell'America le esperienze che potrebbero dare nuova vitalità al teatro. Alla perdita di senso e al depauperamento del vitalismo teatrale accenna anche Renata Molinari, che - prima di indicare proprio Eugenio Barba come uno dei pochi artisti da salvare - esprime un parere preoccupato:

 

Vedo [questo decennio] segnato da un sempre maggiore sperpero del teatro e da una progressiva corrosione della spinta vitale dei suoi protagonisti.[23]

Un'altra lettura della "crisi del teatro" viene fornita da uno dei registi del giovane Teatro dell'Elfo, Elio De Capitani, che individua il declino nella perdita di forza delle pratiche teatrali dei gruppi autogestiti:

La prima cosa che devo registrare in questi dieci anni è un fallimento: quello dell'autogestione. Fallimento doppio, fallimento di un modo e fallimento di un valore.[24]

Leo de Berardinis pone l'accento sulla perdita di energia dei gruppi teatrali che nei primi anni '70 sembravano essere in grado di dare nuovi impulsi al mondo della scena, anche se poi intravede qualche speranza in alcuni nuovi fermenti. L'attore napoletano denuncia la forza corruttrice del potere, che ha incantato e devitalizzato anche le realtà che in precedenza si erano poste in radicale contrasto con esso.

Anche sul versante della critica il bilancio non è roseo. Ettore Capriolo dà una lettura della situazione teatrale italiana piuttosto avvilente:

 

Ripensando al decennio, constato un abbassamento del livello del prodotto medio, ricordo un numero assai limitato di spettacoli da non dimenticare, riconosco sempre meno ragioni di difendere l’esistenza stessa del teatro.[25]

 

 

A fronte di questa analisi desolante del panorama teatrale si stagliano però i protagonisti “in positivo”, quelle personalità cioè che – pur in una realtà di “crisi” e declino – si sono distinti per il loro andare controtendenza, realizzando opere memorabili e degne di essere salvate. Tra essi c’è sicuramente Luca Ronconi, segnalato da più della metà degli interpellati, e in modo particolare dai critici. Due sembrano gli assi attorno ai quali si esprime maggiore apprezzamento per il suo lavoro. Il primo è rappresentato dal complesso delle attività svolte al Laboratorio di Prato, che ha dato origine a tre spettacoli memorabili, Le baccanti di Euripide, il Calderon di Pier Paolo Pasolini e La torre di Hugo von Hofmannsthal. Moltissime sono le voci che considerano quest’esperienza fondamentale per la storia del teatro tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80. [26]

L’altro polo dell’interesse suscitato dall’opera del regista toscano è rappresentato da una messinscena tutta al femminile, Ignorabimus, particolarmente apprezzata per il lavoro con le attrici.[27] Così un autorevole critico, come Maurizio Grande:

 

Luca Ronconi. Per la regia come scrittura illimitata. In particolare per Ignorabimus come monumento al grandioso teatrale: smarginamento della vita nella scena, incontenibilità del teatrale nel teatro.[28]

 

Infine, fuori dal coro, Rodolfo Di Giammarco, che lega il nome di Ronconi alla pedagogia teatrale:

 

Le regie che Luca Ronconi ha curato per l’Accademia “Silvio d’Amico”. […] Uno stimolo per l’attore nuovo, per una sempre nuova alta definizione scenica, per una nuova lettura della drammaturgia. Con l’irripetibilità, forse, del vero teatro.[29]

 

 

Per quanto riguarda i gruppi, è spesso segnalata l’esperienza del Carrozzone, divenuto successivamente Magazzini Criminali. L’apprezzamento diffuso si riferisce in primo luogo ai valori artistici che il gruppo ha veicolato nel corso dei dieci anni, come il rapporto tra scena e tecnologia[30], il lavoro degli attori, il forte impatto degli spettacoli.[31]

Ma una lunga serie di interventi si riferisce specificamente ad uno spettacolo, Genet a Tangeri, che è stato un vero e proprio “caso” della stagione 1985/1986, avendo sollevato con la scena del cavallo squartato al festival di Santarcangelo aspre polemiche e grandi entusiasmi a un tempo. Questa particolare esperienza è dalla maggior parte dei partecipanti all’inchiesta considerata cruciale, sia per l’operazione culturale in sé sia per le implicazioni critiche e teoriche che l’hanno accompagnata.[32]

Sulle reazioni del pubblico insiste un gruppo che negli anni ’80 e ’90 avrà sempre più a che fare con l’universo semantico della carne e della morte, la Società (poi Societas) Raffaello Sanzio, che infatti condivide impostazione ed esito del lavoro dei Magazzini:

 

Indichiamo come opera internazionale da salvare Genet a Tangeri dei Magazzini, soprattutto nella sua edizione di Santarcangelo. Essa innescava nel pubblico un processo di intelligenza che funzionava come una catena d’oro per prigionieri d’oro congiunti tra di loro, come congiunti erano gli anelli portatori delle tecniche.[33]

 

 

Nelle segnalazioni compare anche l’evoluzione solitaria ed originale di Carmelo Bene: il lavoro dell’autore-attore è considerato un unicum, una cosa “a sé”. Viene da più parti sottolineata la genialità del suo percorso, l’intervento innovatore e “folle” nel segno della negazione e dell’annullamento della messinscena, che ha profondamente mutato il mondo della scena e i gusti del pubblico (magari all’inizio avverso e successivamente entusiasta). Altri si riferiscono specificamente al lavoro di riscrittura e interpretazione svolto dall’autore/attore nelle regie shakespeariane. Infine Maurizio Grande - uno dei maggiori studiosi dell’artista salentino - mette in risalto gli elementi di critica che Bene inserisce nella sua opera.[34]

 

Tra gli stranieri, due figure cruciali del teatro del decennio emergono costantemente all’interno delle varie segnalazioni: Tadeusz Kantor ed Eugenio Barba. Roberto Alonge addirittura cita Kantor come unico, vero protagonista dei dieci anni teatrali:

 

Io salverei solo Kantor e i suoi spettacoli. Perché è l’unico grande poeta della scena. Perché parla di sé e nient’altro.[35]

 

Sergio Colomba riconosce un punto di svolta nell’arrivo in Italia della Classe morta,

 

“summa” o manifesto delle teorie e delle tecniche di Kantor, rappresentazione di allegorie oniriche, figurative e plastiche dove il presente e la memoria delle cose si fondono in un originale dimensione estetica, votata in modo struggente alle forme dell’immaginario.[36]

 

A favore di Barba si esprime tra gli altri Renata Molinari, che esclude il creatore dell’Odin Teatret – insieme all’opera di Jerzy Grotowski e all’unicum di Carmelo Bene - dal clima di generalizzato degrado in cui versa il teatro a livello internazionale. Ecco le motivazioni della sua segnalazione:

 

Eugenio Barba per la sua incredibile capacità di alimentare l’azione teatrale in un rapporto sempre vivo e inattuale con il presente.[37]

 

Sandro Lombardi ricorda il fondatore dell’Ista in una sua apparizione in contesto parateatrale, durante un incontro pubblico, e segnala quell’unico avvenimento come memorabile nella sua considerazione del decennio.

 

Come ultima voce emergente si considera qui proprio il Patalogo, da molti indicato come la vera e propria novità che il teatro italiano ha prodotto nell’arco del decennio. Al di là dei possibili omaggi al committente dell’inchiesta, moltissimi sono i riferimenti all’Annuario da parte di personalità non omogeneamente catalogabili in una stessa area ideologica e “militante”. Questo insistere sul Patalogo chiarifica la portata culturale che ad esso è riconosciuta nel panorama teatrale italiano.

Gae Aulenti, nella sua stringata risposta, accosta l’Annuario a uno degli spettacoli più rappresentativi del decennio:

 

Salverei due monumenti e semplicemente sceglierei il Patalogo di Franco Quadri e Ignorabimus di Luca Ronconi.[38]

 

Il regista Cherif esprime un parere risoluto e categorico sull’importanza che ha ricoperto per lui l’Annuario:

 

L’avvenimento più importante degli ultimi sei anni – da quando cioè vivo in Italia – è il Patalogo.[39]

 

Anche da parte della critica vengono riconoscimenti alla pubblicazione. Giulio Baffi analizza le funzioni che l’Annuario ricopre in ambito culturale soprattutto nella sua veste di testimonianza organizzata:

 

Che salvare di tutto quanto è avvenuto in questi anni? Che segnalare a chi, tra altrettanti e più anni, si affaccerà curioso a osservare il teatro che abbiamo alle spalle? Segnerei certamente nel mio taccuino delle cose notevoli […] la continuità faticosa e laboriosa del Patalogo, come importante segnale della possibilità e della necessità di raccogliere in modo organico e sapiente la nostra storia teatrale.[40]

 

 

In queste parole emerge con chiarezza il senso dell’operazione dell’Annuario: è sottolineata la sua funzione principale, cioè il raccontare “in modo organico e sapiente” il teatro. Queste affermazioni acquistano importanza perché danno conto di come il Patalogo è considerato dal pubblico qualificato. Si trova qui una conferma, un riscontro “esterno” alle intenzioni degli autori: sottolineando l’organicità come elemento essenziale di questo Annuario, se ne mettono in risalto le caratteristiche narrative, la composizione dei dati in un discorso unitario e dotato di significato, utile alla comprensione della storia del teatro italiano. E’ proprio questa funzione organica, discorsiva, “narrativa” che spinge molti degli interpellati a segnalare l’importanza che il Patalogo ha assunto nei suoi primi dieci anni di vita. Sia chi il teatro lo fa, sia chi lo studia, concordano nell’assegnargli un posto di assoluto rilievo nel panorama culturale della scena italiana.

 

Nel susseguirsi delle varie voci che danno corpo all’inchiesta, moltissimi altri protagonisti del decennio sono più volte ricordati. Tra gli altri, in ambito artistico, sono spesso ricorrenti i nomi di Leo de Berardinis, Massimo Castri, Jerzy Grotowski e Peter Brook soprattutto per il suo Mahabharata. In campo istituzionale molto presente è la figura di Renato Nicolini, in veste di poliedrico organizzatore di eventi. Come dato singolare si nota infine la pochissima attenzione che nelle risposte degli interpellati viene rivolta alla drammaturgia: solamente Rainer Werner Fassbinder e Heiner Müller infatti si distinguono per un certo numero di segnalazioni.

 


 



[1] “ Per la telecamera di solito esiste un punto di vista, e, nella maggior parte dei casi, si tratta di una telecamera fissa che riprende da un unico punto di vista, osserva ininterrottamente. [...] Ma la macchina da presa non ne fa parte. Resta fuori, per osservare semplicemente la cosa, come se restassimo all'esterno, come se guardassimo. [...] I movimenti di macchina sono meticolosamente previsti da Beckett. E' quasi matematico, fino all'ultima virgola. Beckett prevede addirittura i tempi.” (Cfr. “Beckett regista televisivo”, un’intervista a Jim Lewis a cura di Sandra Salor, in: il Patalogo 10, p. 155).

 

[2] Cioè quelle che riprendono la realtà dal punto di vista di uno dei personaggi. Le soggettive sono scarsissime nella produzione televisiva di Beckett.

[3] Cfr. “Beckett regista televisivo”, cit., p. 158.

[4] Cfr. “Beckett regista televisivo”, cit., p. 157.

[5] Ibidem.

[6] Cfr. “Beckett regista televisivo”, cit., p. 158.

[7] Cfr. Tom Bishop, "Dalla scena al video: Quoi où", in: il Patalogo 10, p. 160.

[8] “ Nella versione teatrale sono visibili in scena quattro personaggi: Bam, Bem, Bim e Bom. [...] Si muovono in uno spazio scenico circoscritto, situato sulla destra del palcoscenico. A sinistra c'è solo un piccolo altoparlante, a altezza d'uomo, attraverso cui si esprime la voce di Bam. Per lo spettatore teatrale la corrispondenza tra questa voce e uno dei personaggi che agisce sulla scena non è evidente. Nella versione televisiva invece Beckett fa comprendere molto chiaramente che Bam è sia la voce [che racconta] che uno dei personaggi del suo racconto [...]. Beckett riesce a ottenere questo effetto sostituendo gli elementi della scena teatrale [...] con un uso non realistico dello spazio video. Il Bam che ricorda è un grande volto dai contorni sfumati, gli occhi chiusi, posto sulla sinistra dello schermo. Il Bam di cui si ricorda, con Bem, Bim e Bom, sono teste dai contorni molto netti che appaiono e scompaiono sulla destra dello schermo: ogni testa non è più grande di un sesto e di un ottavo di quella del Bam che ricorda.” (Cfr. Tom Bishop, “Dalla scena al video: Quoi où, cit., p. 160).

[9] Cfr. Mario Martone, “Il video preso per la coda”, in: il Patalogo 10, p. 161.

[10] “Ero diffidente verso la compresenza delle due scene, teatrale e televisiva. L'una distraeva l'altra. La ragione per cui ho poi invece lavorato in questa direzione non è stata quindi né tecnica, né visuale, tantomeno "modernista". E' stata drammaturgica.” (Cfr. Mario Martone, “Il video preso per la coda”, cit., p. 161).

[11] Cfr. Mario Martone, “Il video preso per la coda”, cit., p. 161.

[12] Cfr. Mario Martone, “Il video preso per la coda”, cit., p. 162.

[13] Cfr. Paolo Rosa, “L’attore elettronico”, in: il Patalogo 10, p. 164.

[14] Questa valenza drammaturgica delle potenzialità del video si colgono bene in un brano della recensione di Carlo Infante al primo spettacolo frutto della collaborazione tra gli artisti "visuali" di Studio Azzurro e la compagnia di Giorgio Barberio Corsetti, Prologo a Diario segreto contraffatto (cfr. il Patalogo 9, p. 26).

 

[15] Cfr. Franco Quadri, “Un genere senza parole”, in: il Patalogo 10, p. 165.

[16] Cfr. Franco Quadri, “Un genere senza parole”, cit.,  p. 165.

[17] Cfr. Oliviero Ponte di Pino, "Videogirotondo", in: il Patalogo 10, p. 164.

 

[18] Preceduta da dieci brevi schede riassuntive degli avvenimenti più significativi di ciascuna delle dieci stagioni.

[19] Cfr. “Cronaca di un decennio. Centosette frammenti di storia del teatro”, in: il Patalogo 10, pp. 229 – 276.

[20] Vengono qui di seguito raccolte alcune citazioni particolarmente significative ed esaurienti su ciascuno degli aspetti più ricorrenti all’interno dell’inchiesta. I brani sono scelti dalle riflessioni più discorsive ed estese, e vanno considerati exempla di una più generalizzata preferenza espressa dagli interpettati nei confronti di alcune specifiche realtà teatrali. Tale preferenza è spesso affidata ad uno schematico elenco di nomi.

[21] Ibidem, p. 229.

[22] Ibidem, p. 233.

[23] Ibidem, p. 264.

[24] Ibidem, p. 244.

[25] Ibidem, p. 240.

[26] Si cita qui, come esempio dell’apprezzamento riscosso da Ronconi per il suo Laboratorio, la riflessione di Sergio Colomba: “Il Laboratorio di Prato, come punto di riferimento per l’evoluzione del linguaggio teatrale e singolare esperienza di progettazione dell’utopia legata ai luoghi della comunicazione”. (Ibidem, p. 241).

[27] Un critico donna come Maria Grazia Gregori mette in risalto la presenza femminile come (alta) cifra stilistica dello spettacolo: “Ignorabimus di Luca Ronconi, perché aldilà dei risultati e del valore dell’operazione mi ha confermato che l’”anima” del teatro […] è femminile”.(Ibidem, p. 254).

[28] Ibidem, p. 253.

[29] Ibidem, p. 248.

[30] Su questo versante si attestano le dichiarazioni di Enrico Arosio: “Crollo nervoso e Punto di rottura dei Magazzini Criminali, perché li ricordo come esempio emozionante di un teatro ibrido, energetico e violento; e perché vi entrava in anticipo un assaggio della complessità di quei nuovi media che oggi sono molto vicini alla nostra esperienza estetica e comunicativa”. (Ibidem, p. 230).

[31] Un riferimento alle sensazioni forti provocate dal gruppo è nelle parole di Paolo Landi: “Salverei parecchi momenti dagli spettacoli del Carrozzone-Magazzini Criminali. Mi piace ricordare il brivido e lo choc che mi procurò la “prima” al Rondò di Bacco di Firenze di Punto di rottura”. (Ibidem, p. 260).

[32] Lo spettacolo è visto soprattutto in rapporto agli echi che ha suscitato da Gianfranco Capitta: “Genet a Tangeri allestito dai Magazzini […] ha rivelato l’inadeguatezza, e anche il fariseismo volgare, di gran parte di quello stesso pubblico del decennio”. (Ibidem, p. 240).

[33] Ibidem, p. 270.

[34] Ecco uno stralcio della sua segnalazione: “Carmelo Bene per il complesso della sua “opera” come progetto critico, sull’attore come incidente del simbolico (a teatro e altrove)”. (Ibidem, p. 253).

[35] Ibidem, p. 230.

[36] Ibidem, p. 241.

[37] Ibidem, p. 264.

[38] Ibidem, p. 231.

[39] Ibidem, p. 240.

[40] Ibidem, p. 231.


 
indice
olivieropdp
avanti