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Teatri 90
Terza edizione
("il manifesto", marzo 1999)

MILANO. Giunta alla terza edizione, "Teatri 90", la rassegna dei giovani gruppi italiani organizzati da Antonio Calbi, ha scelto una formula più aperta. Più che un cartello di compagnie giovani dall’identità in qualche modo definita, si presenta come una sorta di cantiere, una ricognizione ad ampio raggio con molti work in progress: a Milano estesa nell’arco di un mese, con decine di spettacoli in diversi, dal Teatro Franco Parenti al Verdi, dall’Out Off al Leoncavallo; e ora a Palermo, per un’edizione gemellata con quella milanese e uno scambio di compagnie locali. La scelta era inevitabile, visto il successo delle due prime edizioni, che hanno dato visibilità e attenzione critica a tutta una serie di giovani gruppi: da questo punto di vista, considerando che alcuni tra i più interessanti sono stati inseriti nelle stagioni "regolari" di altri teatri (a Milano, nella sezione "Impronte" del Crt a Milano e al Verdi), la panoramica ha raggiunto il suo obiettivo principale, rendendo inevitabile la svolta.

Inevitabile era anche la conseguenza di una selezione allargata: è diventato assai più difficile cogliere un tono e i segni che permettano di individuare una precisa tendenza. Da un lato il maggior numero di gruppi moltiplica le direzioni di lavoro, fino a comprendere un’apertura alla drammaturgia di Franco Scaldati (che almeno anagraficamente giovane non è) con L’ombra della luna del Laboratorio Femmine dell’Ombra e di Spiro Scimone con Bar (e accanto a loro sono arrivati a Milano altri gruppi siciliani, da Petri di Aura Teatri a Con occhi sempre puri, scolastica riflessione sulla poesia di Eluard dei Segnalemosso, a Zoe, ingenua riflessione sulla maternità del Teatro Iaia).

Ma è soprattutto l’attenzione ai work in progress che porta verso opere più aperte, meno formalizzate. D’altro canto, i gruppi presenti nelle passate edizioni con lavori precisamente caratterizzati – sia da un punto di vista progettuale sia nella compiutezza dell’opera – attraversano una fase di crescita, la ricerca di una nuova identità, meno marginale: e hanno dunque la necessità di individuare linee di sviluppo e approfondimento, con tutte le difficoltà che questo comporta. E con il rischio che a volte ad ambizioni forti non corrispondano i risultati. Ovviamente c’è chi continua ad scavare in una grammatica e in un universo poetico già ben delineati (ma con il rischio di perdere incisività): è la strada scelta da Fanny e Alexander con le ossessioni fiabesche e adolescenziali e la meticolosa e ludica macchineria scenica di Sulla turchità della fata; o dalla performance dei Motus étrange (être-ange), inno di ispirazione rilkiana alla trascendenza frammentato in teche di vetro e cristallizzato in trasgressioni delle legge di gravità e brandelli narrativi che lasciano allo spettatore il compito di ricomporre il racconto; e ancora il Teatro degli Artefatti, con il quale Fabrizio Arcuri continua la sua esplorazione dell’universo mitologico a contatto con le tecniche delle moderne arti visive il Sono stato o il tramonto dell’eroe: dove però il maggior impegno verso una costruzione teatrale, con tanto di effetti speciali (compreso vulcano), non riesce a nascondere la fragilità dell’impasto culturale e drammaturgico; soprattutto, a indebolire l’efficacia scenica del lavoro, è una progettualità in primo luogo intellettualistica, che riduce gli attori a figure e icone di un progetto elaborato altrove.

Altri due gruppi, passati da "Teatri 90" a "Impronte", sembrano alla ricerca di una scrittura che ancora non riesce a trovare il punto d’equilibrio tra i diversi livelli. È il caso del Mondo dei figli dell’Impasto, dove ci si muove tra il racconto epico-lirico e lo psicodramma famigliare, con un’esplicita assunzione di responsabilità politico-profetica nel testo di Alessandro Berti: "Cosa dirà della mia generazione? Abbiamo suonato e non avete ballato. Abbiamo cantato un lamento e non avete pianto… C’è qualcosa in cui ti distingui a parte l’abilità di obbedire?". Anche nella Tempesta del Teatrino Clandestino, malgrado la precisa confezione, stentano a incontrarsi i vari piani narrativi – la memoria del capolavoro di Shakespeare, la vicenda sentimental-telefonica della scrittrice protagonista, le scene di strada, l’abbozzo di un thriller. Tuttavia la forma drammaturgica resta inconclusa, come nella promettente riflessione meta-teatrale dei Aja Taumastica (regia di Massimiliano Cividati) con Nijinsky versus Amleto: che però alla lunga si perde e divaga, dopo l’iniziale e ironica riflessione sull’attore e sul rapporto tra la razionalità e l’emozione, e la sua espressione attraverso il corpo.

Proprio dal lavoro dell’attore su se stesso – in questo scenario sfaccettato – sono arrivate alcune delle suggestioni più interessanti: più che di vere e proprie opere, si tratta spesso di frammenti, di abbozzi di spettacoli giocati sull’intensità della presenza: come nel caso Arturo Cirillo e Vito Di Bella, che si misurano con alcuni brani di Nella solitudine dei campi di cotone di Koltès, diretti da Davide Jodice e sorretti dalle percussioni di Riccardo Veno; o di Leonardo Capuano, che in Sa vida mia perdida po nudda trasforma Delitto e castigo in una seduta d’allenamento pugilistica in palestra, in un corpo a corpo rabbioso e istintivo.

Copyright Oliviero Ponte di Pino, 1999, 2000


 
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