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il teatro delle albe

I primi due pezzi sono stati scritti in occasione della mini-personale della Albe al Teatro dell'Elfo di Milano alla fine del 1993.

Da qualche anno, ormai, agisce in Italia in gruppo teatrale dalle caratteristiche uniche: e andrebbe subito aggiunto «purtroppo», perché la particolarità delle Albe (così si chiama) è dì lavorare con alcuni immigrati extracomunitari. O meglio: delle Albe, compagnia di origini e ascendenza romagnole, fanno parte da tempo alcuni attori senegalesi; gli speltacoli nascono dal lavoro comune di bianchi e neri, europei e africani.

Spiega Marco Martinelli, che è regista e autore delle «farse filosofiche» e dei «maggi epici» delle Albe:

«Abbiamo voluto partire con una spettacolo completamenie 'bianco' come Bonifica, perché volevamo far capire come siamo arrivati alla scoperta dell'Africa. Siamo partiti da una nostra necessità, dal bisogno di confrontarci con le nostre radici, con il nostro dialetto. E' questo che ci ha spinto a confrontarcì con altri dialetti, con altre origini. In Ruh-Romagna più Africa uguale, il primo spettacolo con attori senegalesì, c'erano semplicemente alcuni immigrati che rappresentavano la loro dignità: si trattava soprattutto di portare sulla scena un pezzo di società».
Da parte delle Albe c'era dunque una riflessione sulle origini. Ma cosa cercavano nel teatro questi attori-ospiti?
«All'inizio cercavano un lavoro e basta - racconta ancora Marco Martinelli - Poi si sono ammalati di teatro ed è emerso quello che definisco 'sentimento del teatro'. Così il rapporto è diventato stabile. L'incontro con Mor Awa Niang è stato fondamentale: è riaffiorata una sua tradizione familiare di griot, di cantastorie, e ha rimesso in gioco una esperienza genetica che aveva dimenticato».
Gli spettacoli delle Albe nascono dunque dall'incontro di attori bianchi e di danzatori e cantastorie neri, di drammaturgia occidentale e di antiche fiabe africane.
«Siamo un tea tro di tradizione e non di ricerca - puntualizza Marco Martinelli - Perciò lavoriamo sull'arricchimento reciproco. E' uno scambio di dialetti e di gestualità, di patrimoni etnici e mentali. La costruzione dello spettacolo è un incontro, che innesta una sorta di meticciato. E' un processo interno al gruppo che speriamo si trasmetta anche al pubblico - anche se ovviamente rimane misterioso cosa cambi realmente nella testa della gente. I nostri spettacoli dovrebbero essere un segno che la questione etnica non è solo un problema di polizia, ma anche uno scambio di energia e di esperienze. Ma anche questo rischia, alla lunga di diventare una frase fatta. Quello che so è che l'entusiasmo che proviamo noi si trasmette, almeno in parte, agli spettatori».

copyright Oliviero Ponte di Pino 1991, 2000
"il manifesto", 17 dicembre 1991
 

Spiegare che le Albe sono una compagnia di bianchi e di neri, dopo aver visto i tre spettacoli della mini-personale portata dal gruppo al Teatro dell'Elfo di Milano in queste settimane, significa dare un'indicazione troppo generica e vaga, che non rende giustizia all'eccezionalità del loro lavoro. E allora è meglio specificare che le Albe sperimentano le diverse possiblità di fare teatro, data la coesistenza di bianchi e di neri.
Infatti ecco uno spettacolo «tutto bianco», in cui l'Africa diventa, per la coppia protagonista, madre e figlio genuinamente romagnoli, sogno e desiderio di fuga (Bonifica); uno spettacolo «bianco e nero», con tre immigrati che vendono un asino parlante all'inviato di una televisione privata (Siamo asini o pedanti?); e uno spettacolo con tre attori senegalesi che raccontano le avventure che hanno per protagoniste la buona lepre e la perfida - e un po' stupida - iena (Nessuno può coprire l'ombra).
Detto questo, non può sorprendere che nell'arco della rassegna, e all'interno di ciascuno spettacolo, sia possibile trovare un po' di tutto: l'apologo brechtiano e l'ambientazione alla Pinter, la commedia dell'arte (con uno scatenato, squinternato e illuminante Arlecchino nero) e la divagazione filosofica, la fiaba e l'aneddoto surreale, la commedia brillante e la danza al ritmo dei tamburi, gli echi dei griot senegalesi e quelli dei cantastorie padani, la battuta da cabaret e una gestualità dall'immediata forza comunicativa.
E' una curiosità, quella di Marco Martinelli, regista e autore dei testi, che impone di attraversare generi e stili, di esplorare livelli e forme di comunicazione. Questa inquietudine può sconcertare il pubblico, e può irritare i palati più «classicamente» esigenti: nella apparente facilità espressiva, nel rifiuto di chiavi immediatamente identificabili.
Così come disorienta il fatto che ogni volta, coerentemente con queste premesse, gli spettacoli terminino con un finale aperto, sospeso, che sembra troncare lo sviluppo narrativo: per rifiutare ogni «morale», e lasciare aperte tutte le possibili domande innestate da un meccanismo anticonvenzionale.
Il teatro delle Albe rifiuta le facili certezze, ed è fin troppo cauto nell'evitare le risposte univoche. Alla base del lavoro c'è ovviamente una convinzione: che persone di diverse razze e culture possano e debbano lavorare creativamente insieme, perché non esiste gerarchia tra i diversi dialetti del mondo (e infatti sulla scena s'intrecciano con naturalezza italiano, romagnolo e wolof).
Ma per il resto (cioè come, con quali motivazioni e obiettivi costruire questo incontro, e quale parte di sé immettervi) tutto si gioca nella costruzione dello spettacolo.
Anche il ricorso e l'esperienza degli incontri passati tra «il bianco» e «il nero» sembrano essere messi come tra parentesi, provvisoriamente accantonati: è come se le mille possibili soluzioni dovessero venir nuovamente scoperte, sperimentate, vissute. Rifiutando ogni forma di paternalismo, ogni ambizione didattica, ogni eventuale riflessione su colonialismo e post-colonialismo, su esotismo e primitivismo eccetera, viene privilegiata la funzione estetica, l'autonomo valore spettacolare e artistico del lavoro comune.Tuttavia questo rifiuto di un teatro dichiaratamente politico (di denuncia o di propaganda), non implica assolutamente l'apoliticità di teatro delle Albe: le questioni che vi vengono affrontate hanno tutte di per sé un valore immediatamente politico, perché riguardano gli aspetti dell'esperienza che portano alla formazione di un giudizio politico e forse, prima ancora, etico.
Ma in questo sta forse l'utopia di un teatro che, accettando le differenze tra bianco e nero per offrire loro pari dignità e possibilità d'espressione, sembra sognare un rapporto analogo tra attore e spettatore, tra lo spettacolo e il suo pubblico.
E' un'utopia nello stesso tempo ingenua e generosa, quella che anima questa ricerca di una possibile comunicazione tra mondi separati. Mondi tra i quali sembra oltretutto difficile stabilire dei canali, al di fuori del microcosmo protetto di una compagnia teatrale, nel vivo del corpo sociale. Lo dimostra, ahimé, l'esiguo pubblico che Milano ha dato alle Albe, alla loro ironia, alla leggerezza sorprendente di alcune scene: come per fare un esempio i folli monologhi di Bonifica o i gesti e le sonorità di Nessuno può coprire l'ombra.
E inquieta che una città cinica e distratta, già ben avviata sulla strada del razzismo, non sappia ancora produrre anticorpi sufficienti per apprezzare e sostenere una esperienza così vitale e necessaria.

 

copyright Oliviero Ponte di Pino 1992, 2000
"il manifesto", 8 gennaio 1992
 
 

Anche  Griot fuler (visto a «Milano oltre») è una joint-venture italo senegalese con due attori italiani (Luigi Dadina anche autore e regista, Danilo Maggio violinista e fisarmonicista) e tre attori senegalesi (l'altro coautore, Mandiaye N'Diaya, Mor Awa Niang e El Haydi Niang). Sui due versanti ci si rifà alla tradizione popolare, da una parte ai «griot» che nella società senegalese svolgevano le funzioni che noi attribuiamo agli intellettuali; dall'altra i «fuler», i cantastorie che fino agli anni anni Trenta vagavano nelle cascine romagnole con il loro tesoro di narrazioni e canti, aneddoti e medicamenti.
I cinque interpreti di Griot fuler narrano con garbata semplicità due coppie di leggende, con diversi punti di contatto: raccontano la necessità di non perdere la memoria del passato e il valore di solidarietà, trasmettono una saggezza elementare e profonda attaverso apologhi inclini al meraviglioso e destinati a concludersi con un «lieto fine».
A incuriosire, oltre alle simmetrie tra le leggende di due continenti, sono anche la commistione linguistica di italiano, romagnolo e wolof, e l'intreccio di melodie padane e di percussioni africane. Ma, più delle risposte e delle soluzioni estetiche, quello che interessa in Griot fuler è la quantità della domande che lascia aperte. Il richiamo alla necessità della memoria rimanda ovviamente alla perdita di radici determinata dalla modernizzazione e dall'emigrazione. Ma come è possibile ricucire questi fili? E' possibile farlo senza mettere in primo piano questo sradicamento? E' possibile recuperare una cultura orale prima marginalizzata e poi cancellata dalla quotidianità e dalla memoria? A molte altre di queste domande può essere impossibile rispondere. Griot fuler si limita a offrire con umiltà una possibile soluzione pratica: dimostra che almeno in un caso è possibile che uomini di buona volontà si incontrino e scambino le loro esperienze. Su un terreno che per ora è quello della messinscena di sé, dell'autocoscienza attraverso la rappresentazione, nel ghetto utopico della creazione artistica. Ma perché esperienze come quella di Ravenna Teatro possano continuare a crescere è fondamentale che questo dialogo non resti confinato in questo ambito, che le sue intuizioni e ingenuità, le sue scoperte o le sue rimozioni trovino una verifica fuori dallo spazio chiuso di un palcoscenico.
copyright Oliviero Ponte di Pino 1993, 2000
"il manifesto", 17 giugno 1993

 
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