ateatro

numero 10 - 13 maggio 2001
a cura di Oliviero Ponte di Pino
 

INDICE

Ci sono cose che non si possono dire ai morti?
Una lettera a Moni Ovadia su Tevjie e noi

I capolavori dei dilettanti
In margine a una nota di Giovanni Raboni su Magris, Pasolini, Testori...

Arthur Miller e il vicino di campagna
Un frammento di dialogo

Archivio: per Valère Novarina

Una lettera di Marco Baliani
Ancora sul teatro ragazzi: l'incontro del 22 maggio a Parma

Satira politica bis
Dopo Luttazzi (vedi ateatro8), Benigni e Fo (e l'illuminato parere di Scalfari)

Comunicazioni di servizio

Dal 18 maggio troverai in libreria il paperback del mio Chi non legge questo libro è un imbecille: lo pubblica sempre Garzanti, costa solo 19.000 lire,  se non lo compri, 6 1...

Ancora: sempre nei prossimi giorni sarà in libreria anche il ponderoso Organizzare teatro di Mimma Gallina (Franco Angeli, lire 50000); trovate varie anticipazioni nei precedenti "ateatro".

In bocca al lupo al nuovo sito di teatri90!

E' on-line il programma del quarto festival di Sentieri selvaggi, che prenderà avvio lunedì 21 maggio 2001 alle ore 21 al Teatro di Portaromana a Milano. Nel corso del primo concerto è prevista una partecipazione attiva del pubblico all'esecuzione dell'ultimo brano in programma (F. Rzewski: Les moutons de Panurge). Per i particolari trovate ulteriori spiegazioni nel sito.

E se l'avete perso, recuperate l'esemplare pezzo di Fausto Malcovati dedicato a Mejerchol'd su "Alias" di sabato 12 maggio.


Imperdibile: Chi non legge questo libro è un imbecille. I misteri della stupidità attraverso 565 citazioni, Garzanti, Milano, 1999.

Chi non legge questo libro è un imbecille


Ci sono cose che non si possono dire ai morti?
Un lettera a Moni Ovadia
su Tevjie un mir (Tevjie e noi)

Caro Moni,
sono venuto al Teatro Strehler per applaudire il tuo nuovo spettacolo, Tevjie un mir, ovvero Tevjie e noi, dove ti misuri con un classico della letteratura teatrale yiddish come Tevjie il lattaio di Shalom Alecheim.
Ancora una volta sei tornato negli shtetl dell'Europa Orientale, là dove vivevano le comunità ebree, dove predicavano i chassidim, dove vivevano uomini miti e giusti come il tuo lattaio.
Hai giustamente evitato ogni tentazione di musical (inutile precisarlo) per raccontare la vicenda a modo tuo, con la tua compagnia, la straordinaria (ormai lo sappiamo tutti che sono bravissimi) TheaterOrchestra. Evitare il "rischio Broadway" e raccontare la storia a modo tuo, in sostanza vuol dire una cosa: la consapevolezza che una grande distanza ti separa (e ci separa) da quel mondo. Infatti nella prima scena ci porti in una prova dello spettacolo - di quello che avrebbe potuto essere un "musical à la Moni" - ma quando ti siedi davanti allo specchio per truccarti ecco che arriva lui, Tevjie in persona - un manichino che parla nel suo arrochito yiddish, con i suoi abiti lisi, i riccioli e la barba in disordine. E ti chiede che cosa stai facendo, e perché vuoi raccontare la sua storia, e chi sei, e chi sono i tuoi compagni.
È - lo hai già detto tu nelle interviste - un meccanismo pirandelliano, intorno al quale poi costruisci l'intero spettacolo: Tevjie interroga, e voi raccontate, spiegate, a volte addirittura vi confessate. Bisogna subito sottolineare che non incontri l'autore (Shalom Alecheim aveva ovviamente una grande consapevolezza intellettuale, essendo stato uno degli inventori della tradizione e della letteratura yiddish) ma il suo personaggio - o meglio addirittura un uomo - quell'uomo, un semplice lattaio dal cuore forse troppo grande, probabilmente ignorante e un po' buffo, ma a modo suo assai saggio.
A quel punto diventa necessario spiegargli tante cose, perché Tevjie sembra essersi appena risvegliato, non sa nulla di quello che è accaduto nel mondo dopo che sulla sua commedia è calato il sipario. Per esempio gli devi dire dove ci troviamo, tu, Moni, ma anche Tevjie e noi, gli spettatori: "Siamo in Italia". Poi ti chiede perché mai raccontate il suo mondo (più che la sua storia), e perché quei goyim, che hanno biografie e parentele così diverse e lontane dalle sue (e Tevjie chiede loro genealogie e pedigree, manco dovessero sposarsi una delle sue figlie), vogliono raccontare la sua storia. O meglio, quello che chiede loro Tevjie è - in effetti - che diritto hanno loro di incarnare la sua storia, avendo origini così lontane dalle sue. Per Tevjie raccontare dei matrimoni delle sue figlie - rivivere la sua vicenda - sembra un po' un rito, e quegli attori non gli paiono abbastanza consacrati. E così via.
Il vero problema sollevato dal tuo spettacolo secondo me è tuttavia un altro. Non tanto perché quegli attori vogliano raccontare la storia di Tevjie (quello lo spiegano molto bene, andando a disseppellire i mille fili che ci legano a quella tradizione straordinaria, fatti di religione, cultura, politica, filosofia…). La vera domanda è perché nessuno - neanche tu - ha il coraggio di dire al mite e saggio lattaio che il suo mondo non c'è più, che è stato spazzato via dalla follia più atroce della storia dell'umanità. Cancellato.
Insomma, c'è una cosa che non volete dirgli, una cosa che lui non deve scoprire. Ed è enorme, perché è la vera e unica ragione per cui voi state facendo quello spettacolo. È una intuizione davvero straordinaria - anche dal punto di vista teatrale, perché crea una tensione e innesca la dinamica che sottende la tragedia e la gag. (Una parentesi: per certi aspetti, fin dai tempi degli sciamani, il teatro è il luogo dei morti. Il luogo in cui l'attore può morire - per poi ri-morire la sera dopo - e noi spettatori possiamo parlare con i morti.)
Ma per quale ragione Tevjie - che giunge dal luogo delle ombre - non deve sapere quello che è accaduto? Insomma, è chiaro che i vivi devono sapere, che la Memoria è un dovere, per mille ragioni. Abbiamo il dovere di testimoniare nei confronti dei vivi, e di quelli che verranno dopo di loro, dopo di noi, e sappiamo bene perché.
Ma i morti devono sapere? E se non devono sapere, perché?
Insomma, Moni, tu hai una memoria - quella della Shoah - che vuoi condividere con noi, con i tuoi spettatori, fin nelle sue pieghe più sottili, nei suoi risvolti più dolorosi, ma non la vuoi condividere con lui, con Tevjie - con i morti. Nello spettacolo - ma chissà, magari ero distratto - non ho trovato la risposta a questa domanda.
Allora ho iniziato a cercarmela da solo. Forse, mi sono detto, temi che il protagonista del dramma vi neghi il diritto di rappresentarlo: non ha più senso, ora che quel popolo non c'è più, raccontarne le vicende. Sarebbe inutile e, peggio, quasi sacrilego. Credo sia una ragione meschina. Da un lato il desiderio di fare uno spettacolo teatrale, di mettervi un po' in mostra. Dall'altro il peso della verità, la verità di milioni di morti. Non può essere.
Poi ho fatto un'altra ipotesi. Temevate che Tevjie facesse un'equazione molto semplice (e scorretta): i cristiani hanno ucciso i miei discendenti, molti di questi attori sono cristiani e dunque sarebbe oltraggioso permetter loro di narrare la vicenda delle loro stesse vittime. Ma sono sicuro che Tevjie non avrebbe mai ragionato così: lui incontrava delle persone, degli esseri umani, e non entità astratte su cui far ricadere colpe collettive.
Probabilmente all'autore, a quel Shalom Alecheim, precettore, rabbino, mercante e scrittore, più volte esule (per due volte all'inizio del secolo si era trasferito negli Stati Uniti), glielo avresti detto, dell'Olocausto. Superata la sorpresa, e il terribile dolore, probabilmente avreste cominciato a discutere: lui ti avrebbe fatto mille domande, e tu avresti risposto e raccontato, cercando di spiegare quello che forse non si può spiegare, usando tutti i libri che hai letto. Molte cose non le avrebbe capite, altre non avrebbe voluto capirle, avreste discusso a lungo - e sarebbe stata una discussione interessante, che non sarebbe arrivata al punto: perché Tevjie non lo si può dire, tutto questo?
Allora forse lo commetti per delicatezza, questo peccato d'omissione - questa enorme omissione. Per non infliggere al povero lattaio dello shtetl tutta l'insopportabilità dell'orrore, per non turbare la sua quiete di trapassato. Per non dirgli che le sue figlie hanno in realtà sposato l'orrore e il nulla, e all'orrore e al nulla hanno destinato i loro figli e anche i figli dei figli. In qualche modo, si tratta di preservare l'innocenza: almeno la sua, e la loro, quella dei morti, visto che noi l'abbiamo perduta.
A un certo punto si parla della nuova fuga in Egitto del popolo eletto -un'allusione alla creazione dello stato ebraico - ma neanche questo dev'essergli spiegato con esattezza: forse per non dirgli che alla fine Israele è diventato un popolo come tutti gli altri, con la sua terra, con il suo esercito, con le sue guerre… Non credo che in questo caso si tratti di una preoccupazione di carattere politico. È qualcosa che riguarda la natura dell'ebreo, il suo rapporto con l'esilio e la salvezza. Tevjie poteva forse sperare ancora nell'arrivo del Messia, mentre noi sospettiamo che Dio si sia nascosto - almeno in quel momento, e forse per sempre.
Questa è probabilmente una verità che nessun uomo può trasmettere a un suo fratello, è semplicemente impossibile (da un lato non ne ha il diritto, dall'altro semplicemente nessun uomo la forza per dare o togliere la fede a un suo fratello: dunque sarebbe stato inutile).
Magari - sto fantasticando - i morti non possono provare dolore, e questa notizia gli avrebbe provocato una sofferenza troppo atroce, troppo grande - e allora non glielo si può dire, per non sovvertire la natura dell'eterno riposo.
Insomma, non lo so perché non puoi raccontare a Tevjie dell'Olocausto, e ti sono grato di avermi fatto una domanda a cui non so rispondere.
Un abbraccio
Oliviero
 


I capolavori dei dilettanti
In margine a una nota di Giovanni Raboni su Magris, Pasolini, Testori...

Sono da qualche giorno in libreria due volumi di indiscutibile interesse per tutti coloro che sono interessati alla drammaturgia italiana contemporanea. Il primo è il Meridiano dedicato al Teatro di Pier Paolo Pasolini. Il secondo è il nuovo testo di Claudio Magris, La mostra.

Nel presentare i due libri sul "Corriere della Sera", Giovanni Raboni ha offerto alcuni spunti di grande interesse, perché investono in pieno la questione del senso e della necessità del teatro oggi.
 

"Qualche giorno fa, a proposito della riproposta editoriale del teatro di Pasolini, osservavo che negli ultimi decenni l'unico contributo davvero vitale alla drammaturgia italiana è venuto dagli outsider, cioè da poeti e narratori (come Pasolini, appunto, o come Testori) che hanno affrontato e praticato il linguaggio teatrale con una sorta di geniale improvvisazione "dilettantesca" (…) Dopo aver letto La mostra, sarei tentato di rovesciare o, meglio, di rendere simmetrico il discorso: se la passione teatrale di alcuni grandi non-professionisti è stata una risorsa preziosa per un teatro altrimenti anemico o routinier, il teatro è - può essere - una risorsa preziosa per i grandi professionisti della parola non teatrale quando il caso o l'ispirazione li metta di fronte a una materia particolarmente densa o incandescente, una materia non del tutto riducibile, per una ragione o per l'altra, alla linearità di un racconto più o meno canonico o a una razionalità di tipo saggistico".


Al di là del giudizio sui "routinier del teatro", si tratta di un interessante spunto di riflessione, che meriterebbe approfondimenti e precisazioni.
Per esempio si potrebbe ricordare che sia Pasolini che Testori, ai loro esordi, si erano misurati con la forma teatrale (I Turcs tal Friùl per Pasolini e La morte e Caterina di Dio per Testori).
In secondo luogo, andrebbero esaminate e precisate, caso per caso, le motivazioni del passaggio (o del ritorno) alla forma drammaturgica, che sono assai diverse a seconda dei casi.
Questo passaggio (e più in generale il rapporto tra la scrittura per la scena e altre forme di scrittura) è del resto un problema centrale. Basti pensare agli slittamenti tra romanzi e testi teatrain in Beckett e in Genet. Nel primo caso da un certo punto di vista il teatro nasce forse da una sorta di semplificazione dell'universo romanzesco, dalla scelta di una forma e di un rapporto con il pubblico più "facili"; ma questo, trattandosi di Beckett, porterà alla fine a una ricerca d'assoluto ancora più radicale, proprio attraverso la forma teatrale, fino ad arrivare all'essenzialità lancinante delle ultime pièce. Nella drammaturgia di Genet vengono invece esaltati - fino all'esplosione barocca - gli aspetti di teatralità che nei romanzi erano invece piuttosto tematizzati (tra racconto e riflessione). In teatro si trovano invece oggettivati, e immediatamente messi in discussione, enfatizzati e moltiplicati in successivi giochi di specchi, e poi fatti nuovamente conflagrare con la realtà politica, dal Balcone ai Negri (e nel caso di Genet andrebbe anche esaminato il problema dell'abbandono della scrittura sia teatrale sia narrativa).
Solo per fare un paio d'esempi italiani, la questione che riguarda anche Mario Luzi, dove invece il trampolino versi il teatro è forse il moltiplicarsi dell'io lirico in diverse voci - in un paesaggio di voci - e insieme la necessità di una riflessione di carattere più articolatamente filosofico; e lo stesso Raboni, che nel suo debutto drammaturgico, con Rappresentazione della Croce, riprende di fatto molte suggestioni della sua prima raccolta, Gesta Romanorum, per dar loro una diversa oggettività; o ancora Raffaele Baldini, dove il teatro sembra la naturale destinazione dei "personaggi poetici" che prendono la parola nelle sue poesie.
Questi sono alcuni esempi, suggestioni sommarie e certo discutibili, ma citate solo per ribadire che questo slittamento rappresenta uno snodo centrale per comprendere che cosa possa significare oggi "teatro", e da quali fonti possa trarre linfa vitale la dimensione teatrale oggi.
Due elementi possono essere confortanti e ricchi di implicazioni. Da un lato è interessante che la scrittura per il teatro abbia offerto e continui a offrire uno spazio di autenticità e libertà a chi scrive, e che la drammaturgia si riveli dunque una pratica necessaria per molti scrittori; e dall'altro (qualunque cosa si pensi della teatralità come dimensione antropologicamente originaria) questa esigeza di teatro sembra rispondere di volta in volta a necessità diverse, e profondamente legate alla poetica e alla parabola artistica di chi sceglie questa forma espressiva e questa modalità di comunicazione.

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Arthur Miller e il vicino di campagna
Un frammento di dialogo

Rubato a Arthur Miller, Echoes down the Corridor. Collected Essays 1944-2000, a cura di Steven R. Centola, Methuen, 2000.

VICINO DI CAMPAGNA Dicono che lei scrive i film…
ARTHUR MILLER No, non scrivo film, ma testi teatrali. Per il palcoscenico.
VICINO DI CAMPAGNA Ah! Quegli spettacoli fuori moda. Ma dove li fanno?
ARTHUR MILLER A New York.
VICINO DI CAMPAGNA Ah, allora… non sapevo che facessero ancora roba del genere.


Archivio: per Valère Novarina

Ubulibri ha di recente pubblicato un volume di Valère Novarina, Davanti alla parola, a cura di Gioia Costa. Il volume arricchisce una biografia italiana che comprende già altri titoli: il fondamentale All'attore (1992), cui sono seguiti Lo spazio furioso (1996) e Atelier volante (1998). Qui di seguito la recensione di Oliviero Ponte di Pino al suo Adramelech, pubblicata sul "manifesto" nel 1995.
Per ulteriori informazioni (in francese) cercate nell'ottimo sito theatre-contemporain.net.
 

La drammaturgia di Valère Novarina rappresenta una sfida per chiunque decida di praticarla sulla scena. La sua ispirazione è centrata su alcune delle "banalità di base" che fondano la pratica teatrale (ed in generale la comunicazione), radicalizzate da un anti-intellettualismo irruente e da un materialismo tanto radicale da sfiorare una sorprendente mistica dell'attore: per certi aspetti, Novarina segue un percorso già sperimentato da certi filoni di ricerca teatrale, anche se il fulcro non è più il corpo, ma la parola.
La scommessa di Novarina è che la parola detta sia qualcosa di più della parola scritta; e che la parola detta dal vivo, sulla scena, sia qualcosa di più, e di diverso, della parola filtrata, ripulita, asettica diffusa dai mass media. Non appena si emancipa dalla pura necessità di comunicazione, non appena il flusso vocale si radica nella materia, la parola si trasfigura. Generata dal corpo e col respiro di chi la pronuncia, la grida, la secerne, la vomita, la sussurra, essa diventa misteriosa e tragica. Tragica, perché ritrova il suo valore primitivo di lotta, di corpo a corpo con la realtà: poiché i nomi sono diversi dalle cose, essi le negano e le rifiutano, nello stesso momento in cui le evocano e le creano. Misteriosa, perché nella distanza e nell'identità tra la parola e la cosa esplode in ogni istante un'utopia. In questa frattura si annida la forza autonoma della parola, il suo valore di verità. Violenta e conflittuale, primordiale e eversiva, gratuita e necessaria, la parola di Novarina si rivela insieme negazione e affermazione.
Coerentemente con la sua visione della lingua come pozzo e labirinto, esplosa in infinite lingue plurali stratificate e intrecciate, Novarina cerca le sue radici nella letteratura carnevalesca alla Rabelais o in un surrealismo alla Artaud; saccheggia linguaggi tecnici e scientifici, gerghi e argot; si inventa neologismi e giochi di parole; e molto spesso mette alla prova il linguaggio plasmando la materialità del suono e la fonazione, cercando di spingere fino al punto di rottura la lotta della parola nel corpo dell'attore. In questo processo, la ricerca di una parola che coincida con il proprio senso originario, con la propria essenza, coincide con la costruzione di una nuova lingua. Una autentica invenzione - ma venata di distruttività e di violenza: e inevitabilmente il "racconto" che trasmette questa nuova lingua tende a coincidere con la storia della sua ricerca, o della sua perdita. Uno degli emblemi di questo processo è Adramelech, demone di seconda categoria, grottesco ed eccessivo, protagonista dell'omonimo monologo, interpretato in edizione italiana da Walter Malosti (traduzione dello stesso Malosti e Walter Valeri), con la collaborazione artistica di Giorgio Barberio Corsetti.
Adramelech è il collerico profeta di un universo solipsistico che si autodistorce in infinite maschere. Cialtrone e bestemmiatore, ossessionato dalla morte che vive come un sacramento truculento e bislacco, resta eternamente legato a una ribollente animalità e aspira alla santità del criminale. Produce un incessante delirio verbale, intriso di oscenità e acrobazie verbali, invettive spesso criptiche e frammenti di esistenze appena riconoscibili, sciocchezze e invocazioni, elenchi ridicoli e terribili, interminabili. Il tutto su un fondo di angoscia e di ribellione velleitaria e assoluta, posseduto da una furia risentita, da una rabbia stizzosa.
Malosti (che ha ancora una volta il merito di introdurre al pubblico italiano autori contemporanei di indiscutibile interesse) affronta coraggiosamente la lotta con Adramelech; ma quest'orgia di parole, questo continuo slittamento di registri e di significati non riesce mai a trascinarlo nel suo gorgo. Il metodo di scrittura di Novarina privilegia lo scarto, il rimosso, l'informe; nega programmaticamente ogni appiglio, fino a risultare irritante, di una oscurità spesso gratuita, nella speranza di travolgere i suoi interpreti con la medesima febbre, con il sogno di una rivelazione teatrale destinata a rimanere un'utopia. Malosti (e Barberio Corsetti) cercano invece di incanalare il testo grazie a un sostegno visivo, quasi a voler irreggimentare gli eccessi del testo, dar loro una regola: dal carrello metallico che troneggia in scena alla trovata finale che vede il protagonista derisoriamente coperto di piume. Ma tutti questi interventi, così come la scansione dei gesti e dei toni, risultano alla fine puramente decorativi, divagatori: una difesa per un corpo minacciato da un terroristico cannibalismo verbale, una rete di salvataggio contro una sregolata dissipazione di energie, un alibi contro il caos.

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Da Marco Baliani
ancora sul teatro ragazzi

In "ateatro9" si può leggere il manifesto di Marco Baliani sul teatro ragazzi: l'iniziativa è legata al lavoro del Teatro delle Briciole, ma vuole avere un respiro più ampio. Ora il progetto ha una nuova articolazione: un incontro previsto per il 22 maggio a Parma. Ecco la lettera di Baliani. Inutile precisare che "ateatro" cercherà di seguire gli sviluppi di questa iniziativa.

Caro Oliviero,
a cinquant’anni suonati m’è venuta voglia di ripensare a quel teatro ragazzi e giovani da cui sono partito nelle mie vagabonde esperienze.
Non per tornarci (non si torna mai davvero dove per un po’ si è stati felici e guai a illudersi di poterci tornare). Ma per immaginare cosa potrebbe ancora darmi. So che l’eccezionalità di una esperienza non sta nella cosa in sé, ma nell’attenzione che siamo capaci di dedicarle e allora provo un po’ da lontano a riflettere con voi su questo teatro e sui suoi strani spettatori.
Stimolato dal coinvolgimento nell’opera di “rinascita spirituale” che il Teatro delle Briciole Teatro al Parco sta cercando di mettere in atto, mi sono messo alla prova delle mie stesse paure e reticenze e ho provato a stendere in ordine sparso alcuni argomenti da cui vorrei partire per arrivare poi per tappe successive ad una sorta di carta d’intenti, ad un promemoria, per riprovare, come dice il poeta nella dolente maturazione mai compiuta, a riassaporare il tempo dei papaveri e anche a tentare di raccontare qualcosa a quei pochi giovani attori sinceri, che stanno continuando l’opera di un teatro difficile e faticoso.
 Poiché non è più tempo di movimenti, di politiche di settore, di coinvolgimenti forzati in nome di comuni mai esistite affinità siamo tutti più liberi di incontrarci su pensieri difficili e di sceglierci i nostri interlocutori.
Insomma il mio è solo un avvio ma mi auguro prosperoso di un pensiero plurimo e allargato a quanti ne sentano la necessità.
A questo proposito ti vorrei invitare  il giorno 22 maggio alle ore 14.30 al Teatro al Parco per un primo  appuntamento di confronto. Nel caso fossi impossibilitato a venire potresti inviarci un tuo contributo al seguente indirizzo di posta elettronica briciole@tin.it oppure al numero di fax 0521992048.
E’ mia attenzione attivare comunque al più presto un forum nella rete a cui fare affidamento.

Un caro saluto


Satira politica bis
dopo Luttazzi, Benigni e Fo (e l'illuminato parere di Scalfari)

Ma la campagna elettorale della sinistra l'hanno fatta i comici? In effetti, visto che il candidato del Polo delle Libertà si è sempre negato al confronto con l'avversario, i momenti più alti e illuminanti della campagna elettorale sono venuti dai comici: del resto era forse l'unica possibilità per far concorrenza all'avanspettacolo elettorale del Cavaliere. A futura memoria, dopo Luttazzi (vedi ateatro8), ecco Benigni e Fo. A seguire il parere di Scalfari, nel corsivo pubblicato su "Repubblica" proprio nell'election day.

Benigni da Enzo Biagi, Raiuno, giovedì 9 maggio 2001
Chi è Berlusconi. «Non voglio parlare di politica, sono qui per parlare di Berlusconi. E' uno che gli piace stare sempre in mezzo, essere protagonista. C'è un comizio? Parla lui. A un matrimonio vuol essere lo sposo. A un funerale vuol essere il morto».
Chi è D'Alema. «Un Parlamento senza D'Alema sarebbe come il Duomo di Milano senza la Madonnina. Come la pizza senza la mozzarella. Se non vince a Gallipoli D'Alema, è come se Giovanni Paolo II perde nel collegio del Vaticano».
Chi è Rutelli. «E' così bello... Capisco che un faccia a faccia con lui metta Berlusconi in difficoltà. E' come se invitassero me a fare un pisello a pisello con Bossi. Però sarebbe un bel gesto vedere i due contendenti che si danno la mano davanti a tutto il popolo italiano. Questa, signor Biagi, non è una cosa che ci possono levare. E' la democrazia. Ma io non voglio dare indicazioni di voto, eh? Per carità. Mi voglio mantenere veramente equidistante. Berlusconi non mi piace, Rutelli sì».
Il Cavaliere firma il contratto con gli italiani a Porta a porta. «Quello ormai è un cult. Quella cassetta l'ho registrata e l'ho messa fra Totò e Peppino e Walter Chiari e il Sarchiapone. Uno sketch eccezionale».
Conflitto d'interessi. «In du' parole: è come se io, lei e un altro abbiamo tre aziende, una di pasta, una di ciliegie, una di caffè. Dice: devi levare le tasse a una di queste tre. Io sono il proprietario di quella delle ciliegie, a chi le levo? A quella delle ciliegie. Gli altri due come minimo mi danno uno scappellotto in testa. Invece no. Questo è il conflitto d'interessi. Dice: ma che sarà, mica una cosa che riguarda i problemi della gente. E invece no. Perché il conflitto di interessi è una delle basi della democrazia. Se viene a mancare una regola così alta, dopo non c'è più niente».
Il libro del Cavaliere. «C'è tutta la su' vita: ha cominciato dal nulla, ha fatto tutto con la sua intelligenza, quindi ha cominciato proprio da zero. Ha costruito un sacco di cose: gli elicotteri, le ville. Ha cinque o sei figli, ha avuto una decina di mogli, di cui due sue. Ci manda a casa questo libro per farci vedere questa bellezza».
(da "la Repubblica", 11 maggio 2001)

Fo al Palalido di Milano, 10 maggio 2001
«Da italiano mi sento offeso. Sì, per via di questi stranieri che disprezzano Berlusconi, quei giornali, come si chiamano? L'Economist, Le Monde, El Mundo e poi gli altri, perfino i giornali cinesi, che scrivono dei suoi legami con la mafia, delle società nei paradisi fiscali per non pagar le tasse». E giù l'elenco: uno a uno, dalla P2 al conflitto di interessi, gli scandali, presunti o certificati, legati al Cavaliere. Tutte buone ragioni, garantisce il Nobel, per non votarlo. Parte così, il nuovo spettacolo di Dario Fo e Fanca Rame, Il Grande bugiardo, un caustico ritratto di Berlusconi, «nella chiave della bugia e della spudoratezza» annuncia dal palco il Nobel.
Lo spettacolo ha debuttato ieri sera, a spizzichi e bocconi, tra un concerto di Gaetano Liguori e uno degli Stormy Six, tra una raccolta di firme e un appello, tra stand di commercio equo e solidale e prodotti etnici, nella festa al Palalido di «Miracolo a Milano», la lista di Franca Rame a sostegno di Sandro Antoniazzi, candidato ulivista a sindaco di Milano. Uno spettacolo sullo stile di quelli di una volta alla Palazzina Liberty, stile agitprop, tra cronaca, paradosso, realtà e grottesco, che elenca «tutte le balle di Berlusconi».
«È che le sa raccontare - dice Fo al pubblico - perché conosce i trucchi del piazzista. Guardate questi mesi: ha giurato sui figli, ha fatto il contratto con gli italiani, dice di essere operaio e imprenditore, agricoltore e commerciante. Si presenta come politico responsabile ma intanto assicura che cancellerà le tasse. Tutto e il contrario di tutto. Proprio come i batteleur di Parigi lungo la Senna. Balle, tutte balle. Prendiamo le tasse: le cancelleremo, dice. E se uno gli ricorda che nel suo progetto quelli che ne pagano poche continueranno a pagarle e quelli che ne pagano tante ne pagheranno meno, lui risponde: noi siamo per l'uguaglianza».
E più avanti: «Un altro scandalo: il conflitto d'interesse. Quattro anni fa aveva delegato di risolverlo a tre saggi. E non se n'è fatto niente. Ora un giorno promette che vende tutto. Il giorno dopo viene fuori che venderanno i figli. Il giorno dopo ancora i figli dicono che non hanno alcuna intenzione di disfarsi delle tv. E allora lui lamenta: ‘credete che sia facile vendere la Fininvest?'. È dell'altro giorno l'ultima: io non vendo più niente, ha detto il Cavaliere».
(Anna Bandettini, "la Repubblica", 10 maggio 2001)

Eugenio Scalfari sulla satira politica
Roberto Benigni ha detto a Biagi: non voglio parlare di politica, parlerò soltanto di Berlusconi. Quando Biagi gli ha chiesto un giudizio sugli altri comprimari Benigni ha risposto da quel grandissimo comico che è con un'irrefrenabile risata. Che altro c'era da dire? Ma su Berlusconi ha detto tutto in meno di cinque minuti.
L'ha dipinto con una completezza e un acume psicologico stupefacenti. I suoi lazzi e i suoi paradossi l'hanno distrutto dal punto di vista dello spettacolo. L'aveva già fatto nel '95-96, ma ora Benigni ha superato se stesso per lo stile, l'indagine psicologica e la forza della risata.
Qualcuno dei giornalisti sussiegosi che abbiamo ascoltato negli interventi dei giorni scorsi ha lamentato che il dibattito politico sia stato abbandonato nelle mani dei comici. Abbandonato? Questa critica è un raro esempio di ristrettezza mentale. Per distruggere un mito o meglio un feticcio c'è solo la "vis" comica. Non voglio togliere nulla a Rutelli a D'Alema ad Amato ma il vero contraddittore di Berlusconi, quello che gli ha rubato la scena sull'ultima curva è stato Roberto Benigni; un uomo di spettacolo e di comunicazione è stato battuto sull'ultimo miglio da un uomo di spettacolo e di comunicazione di gran lunga superiore. L'autore de La vita è bella aveva dalla sua l'immensa forza della verità, della risata e del sentimento morale.
Bastava cambiar canale e intercettare l'infinito sermone di Berlusconi sui suoi "cinque pilastri" e il melenso elenco di quante cose farà per tutti noi, giovani e vecchi, uomini e donne, imprenditori e lavoratori, ricchi e poveri, contadini e operai; bastava rivedere la scena del famoso contratto firmato sotto gli occhi solleciti e ammirati di Bruno Vespa e poi ritornare su Benigni e sulla sua risata per capire con certezza assoluta dove stesse la verità.
Ricordate la scena del pernacchio di quel grandissimo attore e comico che fu Eduardo De Filippo? Il pernacchio col quale si distruggeva l'uomo potente del Rione Sanità; e poi c'è qualche testina d'uovo che si lamenta dell'indebita concorrenza dei comici.
Rileggetevi le parole di Amleto su Yorik, il buffone di corte che l'aveva allevato: spero che farete ammenda delle vostre bolse scempiaggini.
(la Repubblica", 13 maggio 2001)
 


Appuntamento al prossimo numero.

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copyright Oliviero Ponte di Pino 2001

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