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(39-40) 02.08.02

ATTENZIONE

E' attivo un nuovo forum:
si chiama Nuovo teatro vecchia istituzioni ed è uno spazio aperto alla discussione e una bacheca che sgenala iniziatvie, incontri eccetera.
 

L'EDITORIALE
UNA MAPPA DEL NUOVO TEATRO ITALIANO?

a Leo De Berardinis
 
1. Dall’inizio degli anni Sessanta il cosiddetto Nuovo Teatro, quello che si è raccolto e confrontato nei due Convegni di Ivrea nel 1967 e nel 1987 e che in questi mesi si sta incontrando sotto l’insegna "Nuovo teatro vecchie istituzioni", rappresenta uno dei fenomeni più significativi della vita artistica e culturale del nostro paese. Molti artisti e compagnie che a quest’area fanno riferimento hanno raggiunto risultati di indiscutibile valore artistico e rappresentano da tempo l’Italia nelle più prestigiose rassegne internazionali.
2. Accanto alle punte più alte vivono e lavorano nel nostro paese numerose altre >>>
 

INDICE

Inizio agosto, un numero straricco & tutto da stampare e da leggere in riva al mare o tra i boschi.
 
# Oliviero Ponte di Pino racconta le trasgressioni di Santarcangelo (quelle viste, non quelle praticate, n.d.r.);
# Elisa Cosci è entrata nel carcere di Volterra per L'opera da tre soldi con gli attori-detenuti diretti da Armando Punzo (sui quali ha fatto anche la tesi...);
# Isabella Scaramuzzi è tornata da vera guardatrice a vedere Marco Paolini che racconta la Gente di plastica, work in progress su Porto Marghera;
# Erica Magris, da Parigi, ha visto La mort de Danton di Georg Büchner nella messinscena di Georges Lavaudant (ma è solo la prima parte del saggio...);
# Beatrice Benincasi intervista Claudio Morganti mentre lavora alla Salomè;
 
Per uno strepitoso tnm amm offre tre ghiotti manicaretti:
 
# uno speciale su Resistance del Living Theatre, centrato sul video di Marco Santarelli (con un brano del videomedesimo in anteprima) e un approfondimento di Lorena Cristini sullo spettacolo;
# il resoconto del convegno parigino su Prospective des Arts dans la Technologie a cura di Emanuele Quinz, con gli interventi di Sally Jane Norman, Franck Bauchard, Derrick de Kerckhove e Maurice Benayoun;
# un altro speciale su DNE - Descrambling Nova Express che Mariano Equizzi ha presentato a A_D_E_, con una guida a William Burroughs firmata da Fabio Nardini e Andrea Campanella.
 
Se non vi basta, cuccatevi la prima parte della trilogia che Francesca Lamioni dedica al teatro yoruba (le altre due puntate nei prossimi ateatro).
 

NEWS

(ma intanto andate a cercarle - e mettetele - anche nei forum...)
 
Le novità del mese disponibili on line su dramma.it
Il 19 luglio ha debutta to nell'ambito del Luglio Pistoiese 2002, Genova 01 di Fausto Paravidino, il 30 luglio Tomba di cani di Letizia Russo. Tutte le informazioni nell'agenda dell'Associazione Teatrale Pistoiese su Dramma.it.
Il Dramma del mese: Il lungo cammino degli elefanti di Gaspare Dori, premio Oddone Cappellino 2001, che debutterà il 23 luglio nell'ambito del Festival delle colline torinesi con la regia di Marco Carlaccini e la produzione della Compagnia del Meta-Teatro di Roma in collaborazione con Teatro Libero di Palermo. Il sito del mese Teatrogiornale un'interessante esperienza di teatro-cronaca di RadioRai, con tantissimi corti d'autore da leggere. Nella sezione "Drammaturgie", insieme a nuove recensioni ed articoli, il progetto drammaturgico Tre di Luigi Gozzi.
 
Il paesaggio 2° Ardis Monthly
E' online il numero n.1, dopo il n.0 della rivista Ardis Monthly, uscito il 20 luglio, sul tema:
LANDSCAPES
un percorso, uno dei tanti possibili, sulla categoria del paesaggio, complicatissimo e fondamentale snodo in cui collidono arti visive, riflessioni filosofiche, letteratura, scienze geografiche. Ma il paesaggio è anche qualcosa di più: è una strana categoria dell'esistenza e del pensiero stessi e la sua "crosta cristallina, sollevandosi dal fondo di un' immemorabile consolazione pullula di individui, esseri trasparenti, dentro e attraverso i quali potresti sprofondare con la delizia di un angelo o di un autore" (V. Nabokov).
Intervengono: Marco Martinelli, Franco Farinelli, Jocelyn Maixent, Silvia Fanti, Oxana Yablonskaya, Roberto Pagnani, Cristina De Vecchi, Enrico Fedrigoli, Chiara Lagani, Marco Cavalcoli, Sergio Carioli...
 
Anticipazione: "CUT UP" settembre 2002
Sarà pronto a settembre il nuovo numero di "cut up", assolutamente imperdibile per gli amanti del grande fumetto mondiale: protagonista assoluto di questo numero Ashley Wood (Hellspawn, Sam and Twitch, PopBot). Illustratore e disegnatore dalla tecnica sopraffina che ha scelto "Cut Up" per presentarsi e raccontarsi al pubblico italiano in una lunga intervista raccolta da Andrea Campanella. Sua è la copertina originale e suo l’allegato con materiale inedito (come già era stato per due protagonisti assoluti del fumetto: Palumbo e Igort). Interviste anche per i John Bolton e Baru. Completano la sezione comix la solita dose di speciali, redazionali e recensioni . Uno speciale homevideo dedicato alle proposte della etichetta Rarovideo, Reportage dalla mostra napoletana dedicata a Alexandro Jodorowsky a cura di Fabio Nardini.
Speciale e intervista al collettivo Wu Ming.
Ritratti musicali per Aphex Twin e Piero Piccioni, intervista a John Foxx, mitico leader degli Ultravox. Per le icone del xx secolo intervista a Moira Orfei (con foto di Jacopo Benassi). Per il teatro Motus: Anna Maria Monteverdi racconta il loro omaggio a Genet con un originale fotoromanzo/fotoracconto dallo spettacolo Splendid's nella versione realizzata al Plaza Hotel di Roma.
Reportage corposo sul FAR EAST FILM FESTIVAL di Luca Pili. Ancora: cinema, musica, editoria indipendente, tecnologia militante, hacker art e activism, con gli interventi di Tatiana Bazzichelli, Tiziana Lo Porto, Filippo Conte, Andrea Bellucci, Alberto Conte.
 

Grafica di Armando Rossi.
 
Il disco
Poesia: Lombardi & Riondino all'Inferno
L'avete ascoltato il CD della Commedia con le voci di Sandro Lombardi & David Riondino e la chitarra di Giorgio Albiani? Per me è bellobello (ma non sono obiettivo). Voi che ne pensate? Se volete saperne di più, sul sito della Garzanti Libri troverete qualche spiega, un paio di foto del maestro Maurizio Buscarino (a propo, avete guardato-letto il suo ultimo libro?) e una track lo-fi in anteprima.

L'EDITORIALE
UNA MAPPA DEL NUOVO TEATRO ITALIANO?

a Leo De Berardinis
 
1. Dall’inizio degli anni Sessanta il cosiddetto Nuovo Teatro, quello che si è raccolto e confrontato nei due Convegni di Ivrea nel 1967 e nel 1987 e che in questi mesi si sta incontrando sotto l’insegna "Nuovo teatro vecchie istituzioni", rappresenta uno dei fenomeni più significativi della vita artistica e culturale del nostro paese. Molti artisti e compagnie che a quest’area fanno riferimento hanno raggiunto risultati di indiscutibile valore artistico e rappresentano da tempo l’Italia nelle più prestigiose rassegne internazionali.
2. Accanto alle punte più alte vivono e lavorano nel nostro paese numerose altre realtà che - pur partendo da esperienze personali e percorsi artistici assai diversi - possono riconoscersi nella sperimentazione e nella ricerca di nuove forme di espressione teatrale. Nel loro insieme, costituiscono un tessuto culturale ricco e articolato, fatto di compagnie, teatri, festival, rassegne, centri di produzione, al quale fanno riferimento anche numerosi artisti, critici, operatori, siti internet… Si tratta di un preziosissimo patrimonio di esperienze e di relazioni, che deve essere adeguatamente valorizzato.
3. Se il Nuovo Teatro rappresenta molto di quanto di nuovo, di vitale e di interessante si è visto sulle nostre scene in questi anni, continua però a restare ai margini di un sistema teatrale sempre più vecchio e chiuso su sé stesso (con rare eccezioni), o facile preda dei meccanismi di un facile intrattenimento.
4. In una fase particolarmente difficile per il teatro italiano - e in genere per la vita culturale del nostro paese - ci sembra necessario dare maggiore consapevolezza di sé e visibilità a questo mondo, offrendogli al contempo occasioni di confronto e di crescita.
5. Proprio per valorizzare questa rete di rapporti e senza alcun intento discriminatorio, nell’ambito delle iniziative legate a "Nuovo teatro vecchie istituzioni" ci è sembrato utile provare a censire le realtà oggi attive su questo fronte.
6. Siamo ovviamente consapevoli del fatto che quella del Nuovo Teatro resta in ogni caso un’area di cui è difficile (per non dire impossibile) definire i confini. Riteniamo per esempio che le attuali categorie ministeriali riflettano più categorie burocratiche che le reali esigenze di chi opera in questo settore. Ciò nonostante siamo convinti dell’esistenza di alcuni elementi e obiettivi che accomunano una ampia varietà di percorsi, e che questi fattori condivisi possano costituire un terreno d’incontro.
7. In questa fase iniziale stiamo dunque stilando un provvisorio elenco di compagnie, teatri, centri, festival e rassegne che - a nostro parere - possono fare riferimento all’area del Nuovo Teatro. È un elenco che prescinde dalle categorie sindacali e/o corporative attualmente in vigore per privilegiare invece un "comune sentire" e obiettivi comuni nel rapporto con le istituzioni.
8. Al più presto (probabilmente nel settembre 2002) metteremo questo Censimento del Nuovo Teatro a disposizione di tutti, in libera consultazione, sul sito http://www.ateatro.it
9. Si tratta ovviamente di un primo abbozzo, soggetto a errori tanto nelle inclusioni quanto nelle esclusioni. Prenderemo ovviamente in considerazione tutte le segnalazioni e le richieste di rettifica che perverranno all’indirizzo e-mail info@ateatro.it
10. Successivamente, su richiesta degli interessati (sempre facendo riferimento all’indirizzo e-mail info@ateatro.it), inseriremo anche esponenti di altre categorie: critici, artisti, drammaturghi, organizzatori, siti internet, riviste, case editrici... Chi si segnala in questo modo si impegna a diffondere e difendere, nei limiti delle proprie competenze e possibilità, oltre che nella massima libertà, l’esperienza del Nuovo Teatro italiano.
11. L’obiettivo, già anticipato, è quello di costruire una rete di relazioni visibili (accessibili a tutti) e un’occasione di incontro e confronto, facendo riferimento anche al forum "Nuovo teatro vecchie istituzioni".
12. Il risultato finale di questo Censimento del Nuovo Teatro Italiano potrà essere allegato al documento finale che verrà inviato alle autorità competenti al termine del ciclo di incontri "Nuovo teatro vecchie istituzioni".
 
Federica Fracassi, Massimo Paganelli, Oliviero Ponte di Pino


La morte ci farà belli
Appunti da Santarcangelo
di Oliviero Ponte di Pino

Il colpo d’occhio è di quelli che tolgono il fiato: il candore del Palazzo dei Diamanti, il colore del cielo al tramonto si riflettono sul pavimento di specchi. E’ Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini, messinscena di Luca Ronconi nel quadro delle manifestazioni che la città di Ferrara dedica a Lucrezia Borgia (produzione Santacristina Centro Teatrale, ovvero Roberta Carlotto, Luca Ronconi, Mariangela Melato e Giovanni Arnone, al suo debutto come impresario: inboccalupo!!!).
Prima ancora che la scenografia dello spettacolo, quello di Luca Ronconi e Marco Rossi (che firma il progetto scenico) è il gesto di un artista che interviene nel paesaggio urbano e lo incide con un segno che reinventa il senso dello spazio.
Dopo di che, lo spettacolo. Per Ronconi Andreini è un autore d’elezione, già frequentato in memorabili saggi d’accademia (questo stesso testo e La Centaura) oltre che nel memorabile Le due commedie in commedia un una Biennale veneziana alla metà degli anni Ottanta, reinvenzione della macchina teatrale barocca ma anche riscoperta delle ambizioni e della levatura letterarie di quello che era ritenuto soprattutto un “comico dell’arte” (e qui bisognerebbe aprire una lunga parentesi sul lavoro che sulla Commedia dell’Arte hanno condotto negli scorsi anni studiosi come Zorzi, Cruciani, Taviani, Ferrone...).
Amor nello specchio è la storia di un processo di individuazione. La protagonista Florinda (una Mariangela Melato come sempre trascinante, e in pieno controllo dei suoi mezzi espressivi) esplora via via le possibilità della propria sessualità. All’inizio, chiusa al desiderio, rifiuta ogni contatto sessuale e affettivo. Come da titolo, s’innamora della propria immagine riflessa, entrando in una fase di esasperato narcisismo. Poi, ed è la scena più emozionante dello spettacolo, nello specchio in cui si ammira Lucrezia vede sostituirsi alla propria immagine quella di Lidia (Manuela Mandracchia): è la scoperta dell’altro, ma di un altro quasi identico a sé, dunque un rapporto ancora segnato dal narcisismo. Finalmente, in un lieto fine apparentemente normalizzatore, ecco l’amore eterosessuale - frutto di un equivoco tipicamente teatrale, perché oggetto sessuale di Florinda diventa il fratello pressoché identico di Lidia, Lelio (Valentino Villa).


Manuela Mandracchia e Mariangela Melato.

Nella lettura di Ronconi, non si tratta di ripercorrere un percorso di trasgressione. Lidia, come un bambino, semplicemente non sa dove fissare il proprio desiderio. Lo scoprirà man mano, attraverso la propria esperienza, partendo da una iniziale freddezza-frigidità. A muovere la sua ricerca, nello spettacolo di Ronconi, non sono l’affetto o il desiderio (e infatti gli spasimanti eterosessuali di Lidia cadono preda di demoni infernali), e men che meno il sentimento. Così a muovere questa macchina narrativa o sessuale sono il caso e il calcolo combinatorio. Lidia è e resta assolutamente innocente. Malgrado le apparenze (e gli eventuali giudizi degli spettatori), non sono mai in gioco il piacere o la necessità della trasgressione.
 
La mattina dopo, di corsa, uno sguardo alla mostra di Toti Scialoia, proprio al Palazzo dei Diamanti. La pittura come traccia del corpo, la tela come un sudario che raccoglie le ultime tracce della realtà. Con una forza e una delicatezza straordinarie... Un’arte postuma e necessaria.
 
Poi il godibilissimo Splendid’s che i Motus hanno ambientato al Grand Hotel di Rimini (dopo le anteprime al Plaza di Roma). Sette banditi sono asserragliati in un l’albergo di lusso, con il cadavere di un ostaggio, una “americana” che la polizia crede ancora viva. Per i Motus questo inno giovanile alla trasgressione è un balletto ironico, un gioco frivolo, un musical. Per Genet il problema è il rifiuto dell’ordine costituito, che è ingiusto, brutto e non corrisponde ai desideri e ai sentimenti di ciascuno di noi. La trasgressione è dunque un gesto di libertà, ma anche una scelta di ordine etico e estetico. E’ un gesto irrimediabile - che segna per sempre - e che può solo essere “raddoppiato” da un altro gesto irrimediabile, il tradimento. Ma c’è sempre, nell’opera di Genet, una consapevolezza della dimensione etica - di una barriera da infrangere per entrare “in quella landa di noi che chiamo Spagna”. L’estetismo è in qualche modo una conseguenza - la scoperta della bellezza del male. Nello spettacolo dei Motus la dimensione etica è semplicemente cancellata, la trasgressione appare assolutamente normale. Il tradimento operato dai Motus è, appunto, il rifiuto di ogni dimensione tragica, per proiettare questa parabola noir nella dimensione dello spettacolo - un estetismo estremo e al tempo stesso ironico.
 
La sera, al Teatro Bonci di Cesena, per il Sogno di una notte di mezza estate con la regia di Marco Martinelli.


Il Sogno secondo le Albe.

La prima scena è semplicemente geniale (e spassosissima): ripetuta tre volte, secondo i dettami di un brechtismo estremo, smonta fin dall’inizio i meccanismi del teatro e del potere - di un potere che è morte. Poi la fuga nel bosco, Ermanna che è una ironica Titania-sirena, Mandiaye che è Oberon, elfi e fate una piccola tribù di bambini neri, vitale e dolce, con la forza e la presenza del respiro.


Il Sogno secondo le Albe.

Ma quello che mi sorprende di più è l’esplicita identificazione del regno della notte - quello della libertà e della trasgressione, ma anche quello della conoscenza di se stessi - con il regno della morte. E così in questa notte ragazzina e romagnola, in questo ring contornato da un sipario di strass da balera, in questo “divertimentificio” dove riecheggia Laura Pausini, a dominare è la morte. Ma una morte accettata senza ansie - lo dicono anche Marco e Ermanna: “allegro obitorio”...


Il Sogno secondo le Albe.

Ancora, Quartett di Heiner Müller con la regia di Carlo Cerciello e Paolo Colella e Imma Villa (bravi): questa meditazione sulla trasgressione e sul male - sulla radicalità del male e della trasgressione - ambientato in un cubo scandito dai colori primari e vivaci di un Mondrian e diviso da due diagonali di plastica e plexiglass (con i 40 spettatori addossati ai 4 lati), diventa un gioco geometrico e combinatorio, un esercizio di simmetrie.

Quartett.

Ci ripenso e c’è qualcosa che mi colpisce, in questi spettacoli, e non so bene che cosa sia. O forse comincio a intuirlo, forse Perché questi quattro spettacoli - tutti raffinati, belli e riusciti, nella loro diversità, e godibili - mi sembrano accantonare (anche qui con motivazioni e percorsi e obiettivi diversissimi) il problema del male. Ruotano tutti, in un modo o nell’altro, intorno al problema della trasgressione - infrangere le regole condivise dalla società, che spesso si concentrano sui comportamenti sessuali. E tuttavia questa trasgressione non ha più conseguenze tragiche - al massimo la morte, ma vissuta semplicemente come un fatto tra mille altri. Forse perché si avverte che - all’epoca della trasgressione obbligatoria e di massa, sotto il dominio dell’individuo consumatore che ha il diritto di scegliere secondo i propri gusti e le proprie inclinazioni (purché aghi...) - non esiste più una sanzione sociale che possa regolare i comportamenti. Il potere - quello che stabilisce le regole che dettano i nostri comportamenti, anche in materia sessuale, ovvero là dove pulsa il principio vitale - è un cadavere. Ne abbiamo un pallido ricordo, ne vediamo qualche fragile e vuoto simulacro, forse può arrivarci qualche estremo colpo di coda. Ma non è più una legge sulla quale misurare le nostre azioni, con il peso del bene e del male. Dunque danza di pensieri, gioco combinatorio di corpi e di incastri (collezionismo...), ironia, e la bellezza come unico possibile ordine del mondo.
 
Ecco, in questo assoluto svuotamento del senso del tragico mi sembra di avvertire la vera, estrema tragedia. Questi spettacoli, tutti così maturi, e complessi, e ricchi, li ho vissuti come un sintomo sincero. O forse, come sempre accade, sono solo un specchio per chi ci si guarda dentro.


Ascanio Celestini.

Ci sarebbero ancora molte altre cose da dire, su Santarcangelo (solo per restare a quello che ho potuto vedere in un week end romagnolo. Le ambizioni non soddisfatte di Dammi almeno un raggio di sole, il pastiche felliniano con la regia di Davide Iodice e Roysten Abel, che sconta la sua origine didattica e le sue velleità di “fare compagnia”; Dovevamo scegliere (e siamo stati scelti) (ma del video legato allo spettacolo, Il corpo, “ateatro” aveva già parlato, così come dell’Orfeo dei Sacchi di Sabbia - dove in confronto con il mito tragico viene stemperato questa volta da una clownerie stralunata); e naturalmente Ascanio Celestini, che gira l’Italia post-moderna e passata ormai oltre la terziarizzazione dell’economia alla ricerca della memoria del lavoro, della fatica, della solidarietà, e la lega al mondo delle favole, e prova a raccontarcelo, questo passato che prova a diventare mito...


Nella fortezza brechtiana
L'opera da tre soldi degli attori-detenuti del carcere di Volterra
di Elisa Cosci

Anche quest'anno il Festival Volterrateatro non ha mancato di presentare il nuovo lavoro della Compagnia della Fortezza di Volterra. Dopo l'Eneide, l'Orlando Furioso, Macbeth e Amleto, gli ultimi dei tredici spettacoli, continua la loro ricerca attraverso i grandi testi con L'opera da tre soldi di Bertolt Brecht. La compagnia, diretta da Armando Punzo ha presentato nel corso di questa settimana di luglio, una prima variazione sul tema che riguarda lo studio dei personaggi, delle voci e delle musiche. Sarà in occasione del loro quindicesimo compleanno, nell'estate 2003, che presenteranno il lavoro finito ispirato al testo di Brecht. L'opera da tre soldi (Die Dreigroschenoper, è il titolo originale, 1928) è a sua volta un rifacimento dell'originale inglese L'opera del mendicante (Beggar's Opera, 1728) dell'inglese J. Gay, testo preso in esame dalla Compagnia della Fortezza a fianco di quello di Brecht. Sulla base degli spartiti originali delle songs musicate da Kurt Weill, Laura Cleri, assistente di produzione alla regia, ha potuto ricostruire dei nuovi arrangiamenti per gli attori-detenuti che hanno arricchito i versi di Brecht con pezzi di propria creazione. Questa prima variazione si svolge nel cortile del carcere di Volterra, per una prima fase e dentro al carcere stesso in un secondo momento. L'inizio vede in scena due attori, entrambi vestiti con eleganti marsine ma indossate al contrario. Uno dei due è Vincenzo Lo Monaco, curatore delle musiche e dei suoni dal vivo che accompagneranno questa prima parte; l'altro è un cantastorie con tanto di tamburello che ricorda i comici dell'avanspettacolo e che alterna le scene con storie e canzoni (tra queste una nuova versione della canzone del pescecane che apre il testo di Brecht). Dietro di loro una pedana e una gradinata in legno su cui siede un altro personaggio, un gangster con la pistola in pugno. Gli spettatori vengono fatti sfilare davanti a tutti gli attori disposti in fila lungo il muro del carcere e poi entrare dentro al cortile racchiuso da sbarre. Seduti per terra, allo stesso piano degli attori in prossimità della scena gli spettatori vengono accolti dalle parole del cantastorie: "Mio dolcissimo pubblico come ogni anno ci incontriamo su questa pubblica piazza….qui si sta bene, si sta al fresco, qui potete rilassarvi…".
Dopo questa introduzione la scena si apre su un'esilarante numero di can can che come un disco incantato si ripete per quattro volte stremando sempre più le "ballerine" che pian piano perdono i loro smaglianti sorrisi. Riprende la parola il cantastorie con la canzone del pescecane che noi vediamo tatuato sotto il bavero della sua marsina, e con la canzone che chiude il secondo atto de L'opera da tre soldi: "Signori, voi che pensate di insegnarci….voi che fate i vostri porci comodi e poi parlate di onestà….ditemi di che cosa vive l'uomo? L'uomo vive solo di empietà".
Una nuova scena formata da quinte rosse, di chiaro richiamo espressionista crea lo spazio per il matrimonio di Polly e il bandito Macheath. La scena, priva di dialoghi, è animata da una canzone e dal viavai di personaggi che entrano e si uniscono a una lunga fila di invitati tra i quali dei musicisti da orchestra per matrimoni e funerali come nei film di Kusturica. Si susseguono così altri "numeri": del mendicante gobbo e muto, con in testa una calza da rapinatore, che avanza verso il pubblico con la mano tesa mentre Lo Monaco da espressione al suo pensiero: "Devo riprovarci, la mia vita non può finire così…mi metto le ali e volo via"; un'esibizione a metà tra il tango e il balletto televisivo etc.
Tutta la logica scenografica si ispira all'Espressionismo e in particolare al tardo espressionismo del pittore George Grosz appartenente alla corrente della "nuova oggettività" tesa a dare un'immagine della società tedesca del dopoguerra atrocemente vera. Grosz è un artista esplicitamente politico, disegnatore e caricaturista, rifugiatosi durante la persecuzione nazista negli Stati Uniti, da dove lancia, attraverso la sua opera, denuncie alla classe dirigente, militare e capitalista. Dietro la maschera della rispettabilità borghese il pittore svela la cupa libidine della violenza legata all'esercizio del potere. I personaggi teatrali dello spettacolo riecheggiano le sue caricature e anche nei loro volti domina il rosso come elemento costitutivo dell'intera ambientazione. Il rosso è il colore della passione in senso lato, estensibile alla passione amorosa, sessuale ma anche alla violenza e al sangue.
Quest'atmosfera si fa particolarmente intensa nella seconda parte della rappresentazione all'interno del carcere. Richiamati da una delle "ragazze coniglietto", gli spettatori entrano attraverso tende rosse nei corridoi e nelle stanze del carcere trasformato per l'occasione in un bordello. Tutte le pareti sono ricoperte da cartoni che creano però nuovi spazi, stanze, piccoli anfratti nei quali l'ortogonalità, nella logica delle scenografie, è messa al bando. Qui ritroviamo personaggi pronti a raccontare o cantare qualcosa. L'impressione è quella di entrare in un vero quartiere a luci rosse dove sta di casa la prostituzione e la bisca clandestina; alcuni degli attori sono seduti ai tavoli per giocare e scommettere, naturalmente soldi falsi. Il pubblico, un po’ disorientato deve muoversi alla ricerca degli spazi e dei loro provvisori abitanti. Una parata finale di tutti i personaggi nel corridoio principale, ci riconduce fuori dal mondo sotterraneo del carcere-bordello. L'unico rammarico è il mancato applauso, per motivi di dispersione del pubblico, peraltro meritatissimo, alla fine dell'opera.


Questa non è una prima
Appunti di una guardatrice di Marco Paolini
di Isabella Scaramuzzi

Sono una fedele guardatrice di Marco Paolini. Quando si lascia vedere.
Dopo le ‘prove generali’ di Ustica a Bagnacavallo (non è il titolo teatrale, ma basta a capirsi), l’assenza. Certo se fossi stata attenta e disponibile avrei raggiunto qualche oratorio di provincia, dico Pezzoli per dire una parrocchia di quelle che lui ha frequentato, per seguire la scia. Quella di Appunti Foresti, de I cani del gas, altri titoli spuri che volevano dire, appunto, lo strascico pulviscolare di cose già viste, già fatte; già godute.
Ammetto di non aver inseguito questa scia: anche la fedeltà qualche volta ha bisogno di pause di riflessione. E dopo l’Ustica di Bagnacavallo, avevo davvero bisogno di una tregua. Perché non mi era piaciuta, l’avevo trovata una cosa fatta in fretta, nonostante Del Giudice che è un bravo scrittore (forse non di teatro), nonostante Giovanna Marini che appartiene ai cult della mia educazione politica e sentimentale (ma in Ustica c’entrava come i cavoli a merenda, forse per qualche strambezza di Bologna 2000).
Ed ecco che Mira, cioè la Provincia di Venezia, cioè Arteven e La Piccionaia, ci regalano una rentreè del nostro, con l’atteso titolo di Parlamento Chimico-Storie di Plastica, cioè Marghera, il Processo Eni-Montedison. Cioè il ‘nuovo lavoro’ per cui si è sottratto al pubblico e si è rintanato in laboratorio.
 
La prima cosa che va detta è proprio questa.
Paolini è tornato indietro.
Negli anni del trionfo televisivo (un attore arriva in TV, quindi esiste), del Vajont per le masse e poi del Milione, in diretta dall’Arsenale della Serenissima, e poi di Fondamenta lui e Patty Smith da Piazza S. Marco, e poi del Bestiario, veneto e italiano, in tourneè per la penisola e persino sull’altra sponda veneziana dell’Adriatico (in Istria), non sono stata la sola a domandarmi come avrebbe reagito Paolini al successo. Lo travolgerà, lo cambierà, lo rovinerà?
Già.
Il successo di pubblico, questa ineluttabile meta dell’attore, di tutti coloro che comunicano, che vogliono (per usare le sue parole) essere un ponte. Se ti manca l’altra sponda che razza di ponte potrai mai essere?! Ma quando ce l’hai sei costretto ad adattartici? E l’altra sponda, qui ed ora, è solo quella televisiva?
E quando sulla riva, improvvisamente e forse inattesa, si manifesta una folla, quali potranno essere le reazioni di chi era stato a lungo a lavorare da solo, o quasi da solo, con piccoli pubblici eletti o marginali?
Come reagisce l’attore al suo successo?
Una delle due domande cruciali del mondo dello spettacolo, intimamente legata a quella sulla ‘economicità della cultura’: è il mercato che fa il valore? E senza i soldi è possibile produrre cultura? E fare l’attore è un lavoro come un altro? Che si fa per campare?
 
Ma, qui, mi pongo la domanda dal punto di vista del singolo, dell’artista, del ponte.
E una risposta, bella e forte, viene dal ritorno a Mira di Paolini, figlio adottivo di questa Riviera. Non è vero quello che scrivono i cronisti, che Marco è artisticamente figlio di Mira: per quel pochissimo che capisco del teatro italiano contemporaneo lo vedo figlio di Settimo Torinese, indelebilmente. Lo so. Qui ci gioca parte del mio humus: preferisco riconoscergli delle radici piemontesi, torinesi, vicino a dove stanno le mie. Eppure, dai, oggettivamente ci sono più Vacis e più Curino in Paolini di quanto non ci siano Bettin e Meneghello. Se parliamo di teatro.
Mira, la Riviera, il Veneto sono stai i luoghi del successo (c’entra col Nordest?!).
In ogni caso, la risposta (alla questione del successo) mi piace e non mi importa affatto che sia criticabile: se piace a me e a lui e quanto mi basta, come spettatore che sta sulla riva opposta e ha tanto bisogno che le si comunichi qualcosa di non omologato e di non televisivo.
Paolini è tornato indietro dal suo successo.
Bravo.
Non so se l’abbia snobbato, se sia stato così montanaro da saperlo schivare, così egocentrico e chiuso (come spesso sono gli attori) da non poterlo accettare, così rigoroso dall’evitare le sue lusinghe, così furbo da prevedere che non sarebbe durato, così conoscitore di sé stesso da sapere che non ne avrebbe gradito tutti i compromessi, così umano da aver seguito l’istinto che, ad una certa età, è molto incrostato di ragionamenti.
Tant’è.
Il Paolini di stasera, qui, al parco di Villa dei Leoni non è quello delle dirette televisive, non è il mattatore di Vajont, non l’istrione di Milione, né il professionista di Bestiario. E’ meno di tutto questo, teatralmente molto meno.
Ma non è neppure il replicante delle varie serate di Appunti Foresti (Villa Pisani Strà, Estate 1999) o di Ustica (Bagnacavallo, estate 2000).
Uno che ha avuto il coraggio (o la dignità della paura?) di fare un passo indietro.
Nel male e nel bene.
 
Il secondo punto è la sua (ritrovata) maniera di lavorare in pubblico. Quella che i cronisti chiamano work-in-progress.
Naturalmente, chi fa così, ha tutto il mestiere necessario per accattivarsi i presenti: il Parlamento Chimico viene presentato insistentemente come un dubbio: ma come faccio a raccontarvi questa storia, di plastica? Non c’è un evento, una catastrofe, come nel Vajont: Marghera non è scoppiata, sarebbe più facile. Quando c’è stato il terremoto in Friuli, tutti dai cai della terraferma (Sile, Brenta, Dese, Piave, Adige) sono usciti in strada pensando che la terra tremava perché il petrolchimico era (finalmente) saltato in aria. Finalmente nell’accezione dialettale: alla fin fine, in buona sostanza, andando alla vera essenza delle cose.
Ma non è così e teatralmente è difficile rappresentare una tragedia annunciata ma, contrariamente al Vajont, non avvenuta.
Invece, dice il ponte all’altra sponda, c’è una tragedia lo stesso ma è latente.
E’ il tumore degli operai.
E’ tragedia annunciabile ma incerta e anche il processo non ha fatto chiarezza, ha lasciato ragionevoli dubbi: ha semmai sancito l’impossibilità di avere certezze, di riconoscere l’esplosione.
Difficile fare un lavoro teatrale su questo. Difficile anche per gente di mestiere come Francesco Niccolini e Marco Paolini.
 
E, qui, l’ostinazione dell’attore va a saggiare la disponibilità del suo pubblico mirese e veneziano: prima all’Aurora di Marghera e da oggi in poi chissà in quanti oratori e dopolavori e teatrini e piazze e camere chiuse e teatri di sperimentazione. Io, ci sta dicendo, ho deciso che questa storia la voglio raccontare e voi, cosa ne pensate?
Ci state?
Esattamente come aveva cominciato con la storia di Tina Merlin: un altro pugno nello stomaco che evidentemente è il suo modo di procedere, quello che gli si attaglia e che non è disposto a lasciare. Neppure per le sirene del successo.
Mi pare una scelta più fisica che politica.
Voglio dire che forse la Rai e i teatri stanno cambiando padroni ma non mi pare questa la pulsione dominante a cambiare strada. Non direi che si tratta di buon viso a cattivo gioco: torno alle origini tanto il mercato mi si sarebbe chiuso lo stesso.
Credo sia qualcosa di ‘molto molto personale’ e apprezzo che esistano ancora scelte dettate da questa natura di motivazioni, a prescindere dalle valutazioni artistiche.
 
Dal punto di vista dello spettacolo, del coinvolgimento e, infine, del teatro siamo di fronte a qualcosa di estremamente manchevole.
E’ discutibile che un attore (un professionista della comunicazione) scelga il pubblico, e quello a pagamento in particolare, come collaboratore nella confezione del suo ‘prodotto’. Un conto poi è se il semilavorato è già compiutamente teatrale (una prova generale, prove aperte, una jam session di pezzi già noti) come accadeva nel Festival della Ville, in barena, con l’Orto di Meneghello o con gli spezzoni che confluivano nelle varie versioni del Bestiario.
Stasera a Mira, le Storie di Plastica sono ancora, assolutamente, materiale raccolto, alla ricerca di un filo narrativo e soprattutto di una struttura spettacolare, rappresentativa che le riordini. Riconosco anche il lavoro di Francesco Niccolini (certe ironie del testo e qualche allusione di raccordo) mentre è difficilissimo vedere l’impronta di una regia che non sia qualche piccolissimo trucco di bottega (le spalle al pubblico, il salto dal palcoscenico, inezie).
L’attore non recita, non dice e nemmeno racconta come sa fare Paolini quando lo spettacolo è pronto: espone. Ci propone dei materiali, ovviamente selezionati e non casuali, nei quali, solo dopo 3 ore di paziente e impegnato ascolto, possiamo vedere una ipotesi di lettura, nemmeno ancora di rappresentazione.
La proposta interpretativa non mi spiace e credo che sia drammaturgica: non c’è colpo di scena in questa Storia, è una violenza latente che deve apparire per contraddizioni raffinate, per una esposizione contrapposta di fatti, il cui esito non è deflagrante e conlcamato ma lasciato alla coscienza, ad un giudizio che esula dai fatti.
Tutta un’altra storia rispetto al Vajont. E tutta un’altra materia teatrale.
Molto più difficile (come ve la racconto??, chiede appunto l’attore) anche perché recente, aperta, ancora latente. Senza monumento alla memoria: la diga che sopravvive agli uomini.
E su questo punto le descrizioni del paesaggio petrolchimico sono sicuramente un abbozzo poco sviluppato nel testo, ancora privo di quella teatralità che in Bestiario, nell’Orto e anche nel Milione è stato magistralmente perfezionato.
La prima parte del Parlamento Chimico, perciò, sarebbe la più facile da ‘rendere spettacolo teatrale’, mettendo a frutto le precedenti esperienze paoliniane, e con lui di Niccolini e di Vacis.
Penso alle perfette descrizioni del Nordest, la galassia Benetton, la Campagna e i porti d’oriente del Milione, l’Alto Vicentino di Meneghello, il Friuli di Tavan, la BarbaZucon Town di Zanzotto, la Mestre di Calzavara…..la fila di scarpe da donna con una pentola dove bolle sapone della Riviera del Brenta, le villette e i capannoni, i tavernicoli….
La prima parte, perciò, è quella che rende più perplessi, talvolta annoia, sembra superflua: un avvicinamento troppo lungo al cuore della Storia e un arrivarci per strade già battute, ma ripercorrendole sottotono, senza voler utilizzare lo strumentario teatrale, rodato dai precedenti spettacoli.
Volpi di Misurata e Cini, la Laguna e le sue salsedole (salsola soda), la soda e il cloro, le mamme di Marghera, i contadini dei cai che diventano operai chimici, canali e interramenti: i richiami agli altri lavori di Paolini sono frequenti senza che lui ci regali, neanche per un momento, la passione e la maestria di cui è capace.
Sembra che lo faccia apposta, ad essere avaro di teatro, di recitazione, di sé.
Antipatico: del resto l’ha detto subito non è la prima, io non faccio più prime e comunque decido io, ormai sono un ex, la prima potrebbe essere anche l’ultima.
Come dire: sto lavorando, non pensate di essere qui per divertirvi.
Infatti.
Per chi lo conosce è chiaro che saranno sviluppati gli elementi teatrali: è nata prima la sirena o la mamma di Marghera? Moreeeeee, vieeen casaaaaaa.
Ma non qui e non ora. Non è una prima.
 
Poi, dopo quaranta minuti di pazienza entriamo nel vivo del tema e cominciano ad emergere i modi teatrali con cui, in via sperimentale, la Storia potrà essere messa in scena: una versione alla Calvino della rivoluzione plastica, ancora molto da limare e teatralizzare (una questione di testo attorno agli spunti che per ora si lasciano solo intuire), e un paesaggio antropologico della Laguna Mondo che sicuramente dovrebbe dare più spazio ai personaggi locali: operai, mamme, famiglie, fabbrica.
La famiglia è basata sulla fatica, per il bene e il futuro dei figli. Ma perché ci davano da mangiare la cervella!!?
Da notare che non scatta mai un applauso e l’unico timidissimo tentativo è ad una delle rarissime battute con cui ci viene concesso un allentamento dell’impegno (cloro al clero, ma il clero non ha voluto collaborare allo smaltimento dei rifiuti di produzione della soda).
E’ come se fossimo in un’aula: l’attore è un insegnante che fatica a trascinare la classe, rischia di annoiarla. Il teatro come formazione permanente.
Ci sono diversi incisi lungo una esposizione dei fatti pignola e impegnativa, ma l’attore non vuole fare nulla per alleggerirci l’ascolto: lesina le digressioni sceniche, ci regala pochissimo umorismo, non ci concede né dialoghi dialettali, né confidenza con i personaggi, né citazioni poetiche a parte un Marinetti preso a prestito dal Milione. Penso che sarebbe un’ottima occasione per usare Monteleone ma so che lui non lo ama, peccato.
Non divaga l’attore, e non ci svaga.
Del resto sta lavorando. E noi con lui.
E la questione è sul palco (mentre l’attore sta giù, ponte che si avvicina alla sponda del pubblico), ingombrante come un campo da calcio: la scrittura per il teatro.
Di questo (anche di questo, oltre che del ruolo dell’attore) si occupa Paolini, si occupa Niccolini (e altri). Qualcuno usa l’orribile crasi autattore: l’attore che è anche autore dei propri testi, vuole esserlo o si sente costretto ad esserlo, decidendo che i testi classici o quelli contemporanei scritti da altri non fanno per lui o per lei, gli stanno stretti, come si dice. In questo brutto neologismo si vede anche la presunzione dell’attore: l’autarchia di chi pretende che, per esprimersi, non ci siano scritture adatte. Ma, se vogliamo vedere il lato positivo e non la componente divistica senza la quale non esisterebbero attori e spettacoli, dobbiamo convenire che c’è bisogno di un teatro contemporaneo nei contenuti, nei testi, nei temi che porta in scena: c’è bisogno di qualcuno che lo scriva.
Ed è questo, piuttosto che i modi della recitazione, i canoni della scena, che interessa Paolini: forse è la sua caratteristica più intrinseca, più distintiva.
In questo senso niente di meglio che una storia del capitalismo italiano, della nostra epoca industrialista, del paesaggio nordestino rivoluzionato, dell’approdo tardivo alla questione della salute: persone e paesaggio insieme, una tematica a cui Paolini ci ha introdotti e abituati. E in questa storia niente di più emblematico di Marghera, almeno per il Nordest. Storia tutta da scrivere per il teatro.
Teatro civile o semplicemente teatro: linguaggio e ponte per comunicare la storia, per ricordare, per narrare. Per paesaggire.
 
Senza pause e senza cambio di registro approdiamo a quella che sembra la parte principale del Parlamento Chimico: la Storia vista attraverso i nomi degli imputati al Processo, dei protagonisti ‘potenti’, i padroni di Porto Marghera. Che poi sono anche personaggi pubblici, noti, discussi e sui quali è più facile passare ad un tono spettacolare, evocativo.
Dal parlamento inteso come ‘parliamo della Chimica’, passiamo al Parlamento come luogo del Potere (è bello l’intrigo bisognerebbe che fosse più palese al pubblico). Io godo di un vantaggio: so che Porto Marghera è una sintesi chimica del capitalismo italiano, molto prima di Cusani, perché ho letto Grifone e Cesco Chinello. E in questo mi piace la lunga introduzione sulle salsedole e sul Conte Volpi.
Sulla scena appaiono, ancora in ordine sparso, il Corruttore Mattei lo Jedi-gnomo Cuccia con la sua astronave MedioBanca, il principe pirata Raùl Gardini che plana su Marghera con i suoi appetiti da avventuriero, Ice Schimberni dagli occhi di ghiaccio, e il gigante friulano Cefis: tutti dedicati a conquistare e ‘risanare’ la Montecatini, la soda e il cloro, la Chimica sulla Laguna.
Finalmente il testo scorre un po’ più leggero sul pubblico, ormai provato e (si sente) perplesso.
A questo punto del lavoro (suo e nostro) l’idea drammaturgica finalmente si delinea: è così che hanno pensato di poterci raccontare questa Storia di Plastica, senza botto finale, di sottile e latente violenza.
La differenza tra risanare finanziariamente un’azienda (ma è chiaro che i personaggi del Parlamento stanno giocando con la Chimica e con la Finanza) e risanarla davvero: renderla sana per chi ci lavora, per il paesaggio di chi ci abita.
Una chiave probabile della narrazione, sottile, e adatta ad una declinazione narrativa che possa stare in scena.
Quella dei padroni è la parte più evoluta dello spettacolo: anzi, a voler essere onesti, l’unica che ha una qualche autonomia scenica (la più facile).
A conferma che la chiave di narrazione sta qui, Paolini legge un documento del Presidente Cefis (o è Schimberni?) sulle spese di manutenzione degli impianti in una logica di budgeting: si fanno solo se sono strettamente necessarie a garantire profitti, altrimenti sono escluse da una strategia dell’impresa.
Il conflitto è svelato e la sentenza del Processo, che nello spettacolo è solo sullo sfondo (giustamente), perde volutamente di peso di fronte ad una contraddizione molto più generale e latente tra valori.
Il fatto che in tangenziale si va a passo d’uomo non significa che questo mondo sia a misura d’uomo, sentenzia l’attore. Una sintesi provvisoria del testo.
Poi chiude: Sani, saluto venezianissimo che tocca le corde affettive del Milione (Sani, Sambo dice il Campagne al veneziano che gli insegna a premere e a staire per andare avanti in Laguna) ed è carica di una ironia chimica, alchemica, a conclusione di una storia di ‘malattie annunciate’.
Finalmente un coup de teatre.
 
L’applauso finale è davvero perplesso.
Il pubblico di Mira accoglie con affetto il ritorno del proprio ponte, qualunque cosa abbia da trasmettergli: ma è un gesto di fiducia più che di entusiasmo.
Si sente. Lo sente.
Dice che è contento di essere tornato.
E’ molto. Non può essere tutto.
E, secondo l’insegnamento del Milione, ni altri spetemo: la prima anche fosse l’ultima.
Buon lavoro.
 
Dolo 6 luglio 2002


Büchner all'Odéon
La morte di Danton nella messinscena di Georges Lavaudant
di Erica Magris

La mort de Danton (prima tappa)
di Georg Büchner
regia: Georges Lavaudant
traduzione: Jean-Louis Besson e Jean Jourdheuil
scene e costumi: Jean-Pierre Vergier
luci: Georges Lavaudant
suono: Jean-Louis Imbert
 
Creazione al Théâtre de l'Odéon
A Parigi dal 25 aprile al 31 maggio 2002

Le foto dello spettacolo dal sito del Théâtre de l'Odéon.
 
L'annata Büchner
A Parigi la scorsa stagione teatrale si è distinta dalle precedenti per una insolita presenza di Georg Büchner. In particolare la programmazione del Théâtre de l'Odéon ha previsto la rappresentazione integrale dell'opera teatrale dell'autore tedesco: partendo da un Léonce et Léna diretto da André Engel, passando per un esplosivo Woyzeck con regia di Bob Wilson e musiche di Tom Waits, la stagione è giunta a conclusione con la messinscena de La mort de Danton realizzata da Georges Lavaudant, presentata al pubblico in concomitanza con un adattamento teatrale del racconto Lenz, ideato e interpretato da Marie-Paul Trystram, nello spazio del Petit Odéon.
Per completare il quadro bisogna ricordare che nello stesso periodo, nella Salle Richelieu della Comédie Française andava in scena un altro Léonce et Léna, questa volta diretto dal tedesco Matthias Langhoff: uno spettacolo costituito dalla combinazione di brani tratti dal Lenz e da Woyzeck, ambientato ora in una stazione di metrò, ora al ministero della cultura francese, e mirante più che a rappresentare l'opera, a tratteggiare un ritratto dell'autore e del suo pensiero.
Al contrario, la messa in scena di Lavaudant aspira ad essere una sorta di emanazione del testo e si distingue per una quasi integrale fedeltà al testo. La sua creazione, a differenza di quella di Langhoff, ottiene un grande successo, da parte degli spettatori, numerosi ogni sera in sala, e soprattutto da parte della critica, che, quasi unanimemente, ha utilizzato toni ampiamente elogiativi nel descrivere il lavoro del direttore dell'Odéon e dei suoi attori. Solo per citare un esempio significativo, Mathilde La Bardonne scrive su "Libération": "Georges Lavaudant signe une de ses plus belles mises en scènes: il offre en vrai partage La mort de Danton de Georg Büchner".
L'attenzione si è rivolta con maggiore intensità verso questo spettacolo anche in virtù di due situazioni contingenti riguardanti l'una la generale condizione politica della Francia, l'altra quella più particolare del Théâtre de l'Odéon: la concomitanza del periodo di rappresentazione con le elezioni presidenziali e l'imminente chiusura al teatro di Place Paul Claudel, che sarà inutilizzabile nei prossimi quattro anni per radicali lavori di ristrutturazione. Un valore politico relativo alla vita dello Stato e un valore affettivo relativo alla vita del teatro che, come avremo modo di osservare più avanti, hanno influenzato la creazione e la ricezione dello spettacolo e lo hanno legato strettamente all'attualità.
 
Ciò che vi vorrei proporre è un viaggio "dentro" a La mort de Danton di Georges Lavaudant, partendo dall'opera così come è stata presentata al pubblico, per poi indietreggiare e cogliere il mosaico della messa in scena nel suo farsi: ho avuto infatti l'opportunità di seguire come stagiaire la troupe dell'Odéon durante il percorso verso la messa a punto dello spettacolo e per circa un mese e mezzo ho trascorso le mie giornate nelle sale dove si sono svolte le prove, a contatto diretto con il regista, gli attori e tutti gli altri numerosi collaboratori. Le cose da dire sono tante, quindi ho pensato a un viaggio in due tappe, una più descrittiva e una più narrativa.
 
Il testo
L'opera nasce nel gennaio 1835, da un brillante studente in medicina che si trova a Strasburgo ricercato dalla polizia: Büchner è fuggito dalla sua città, Darmastadt, in seguito al fallimento di una sollevazione rivoluzionaria a Giessen, da lui attivamente propugnata; il popolo è rimasto fedele al granduca, i suoi compagni di congiura sono stati arrestati ed egli è rimasto solo, esule e tragicamente consapevole, a 22 anni, dall'impossibilità di un rivolgimento rivoluzionario della storia. Scrive in quel periodo che "non c'è niente da fare e che chiunque si sacrifica in questo momento porta la sua pelle al mercato come un matto": nel dramma si riversa lo stato di queste amare riflessioni, che vi assume una profondità e una ampiezza folgoranti, dando origine a un testo teatrale che per forma e per contenuti costituisce, un breve ma robusto ponte fra Shakespeare e le problematiche del teatro novecentesco.
Le scene, che paiono nascere in un territorio mediano fra le "cronache" shakespeariane e il teatro epico di Brecht, si susseguono in maniera indipendente, ambientate in strade, camere private, bordelli e luoghi pubblici ufficiali come la Convenzione, e determinate cronologicamente in maniera molto vaga. Il dramma si ispira in maniera estremamente precisa all'Histoire de la Révolution française di Michelet ed è situato all'incirca fra la fine di marzo, momento in cui viene posta in atto l'eliminazione degli estremisti capeggiati da Hébert, e il 5 aprile 1794, data dell'esecuzione degli indulgenti raccolti intorno a Danton. Egli viene messo in guardia dai suoi, consapevoli che Roberspierre si prepara a eliminare i suoi ultimi possibili avversari, rivolgendo contro di essi la loro moderazione politica e la loro dissolutezza morale: per un popolo stremato e affamato, infatti, indulgenza e moderazione possono facilmente trasformarsi in sintomi di controrivoluzione. Il "rumore del mondo" insegue Danton in luoghi sempre più intimi: dapprima in una sala da gioco, poi in un bordello e infine nella sua propria camera. Egli non vuole prestarvi attenzione, ma è anche conscio che ormai non è possibile sfuggirgli; solo dopo l'arresto, poco prima dell'esecuzione si decide a "gridare" e a difendere se stesso e la propria fazione, ma ormai è troppo tardi. La cospirazione è giunta a buon fine.
Nel dramma si consuma una storia che precipita al tragico epilogo in una totale assenza di azione; anche la decisione di disfarsi dei moderati non avviene in scena, ma rimane nell'ombra e pare fin dal principio insita nelle frasi di Roberspierre e Saint-Just. La fine è già nel titolo, il destino è già dato ed è inevitabile. Büchner mette in scena piuttosto la stanchezza, le meditazioni e la volontà di non agire di un anti-eroe della storia, che trascorre i suoi ultimi giorni attanagliato dalla sfiducia nella validità del processo rivoluzionario e dall'incubo del sangue inutilmente versato sotto il suo comando: i suoi compagni, come Camille Desmoulins e Hérault-Sechelle, credono ancora nella possibilità che "la rivoluzione cessi, e cominci la repubblica" e che "la forma dello stato sia una veste trasparente, che si modelli docile sul corpo del popolo", ma Danton aspira al riposo e a un nulla impossibile, in un mondo in cui la natura non concede l'estinzione, ma prevede solamente la trasformazione.
Il dramma si apre a riflessioni metafisiche sulla morte e su Dio, accompagnate da considerazioni sull'arte e sul bello; ma anche gli aspetti più sordidi della vita hanno il proprio spazio, e le parole del filosofo Thomas Payne sull'inesistenza di Dio si affiancano a quelle della prostituta Marion, in un quadro di enorme complessità in cui la realtà e la storia vengono ritratte nelle loro molteplici sfaccettature. I binomi arte e natura, teatro e vita emergono continuamente dall'ordito del dramma e trovano il loro ultimo senso nelle parole di Lucile Desmoulins che chiudono il testo. Ella, impazzita dal dolore per la perdita del suo Camille, vaga per le strade di Parigi, in un delirio che, racchiude il significato tragico della storia e della vita, bruciante al centro del dramma:" Morire…morire! Ma tutto deve poter vivere! Perché non lui? Tutto si muove, gli orologi camminano, le campane suonano, la gente corre, l'acqua scorre, e tutto procede così fin là; là…no, non deve accadere, voglio sedermi per terra e gridare, che tutto si fermi atterrito, che tutto s'arresti e nulla più si muova! (si siede a terra, si copre gli occhi e grida) Non serve a niente, è tutto come prima, come al solito: le case, la via, il vento soffia, le nuvole passano. Dobbiamo sopportarlo."
 
Lo spettacolo
Georges Lavaudant ha voluto raccogliere fino in fondo la sfida posta dalla complessità e dalla profondità dell'opera e ha concepito la regia nella tradizione del teatro d'arte come messa in scena del testo: messa in scena intesa come abitazione dello spazio del dramma e come vibrazione vivente della parola del poeta. Il regista parte dalla lettera del testo, utilizzato quasi nella sua integrità, avvalendosi di una traduzione precisa e meditata, che comunque non esita a scandagliare e modificare nel corso delle prove. Egli rintraccia nell'opera le forti suggestioni shakesperiane e le atmosfere riconducibili ai posteriori romanzi russi di Dostoevkij e Tolstoj, penetra al fondo delle parole-chiave pronunciate da Lucile, e concretizza la sua interpretazione in elementi scenici semplici ed essenziali, e assolutamente non intellettualistici.
Di fondamentale importanza nella determinazione dello spettacolo è la concezione dello spazio scenico: data la prossima chiusura del teatro, Lavaudant, insieme al suo abituale scenografo, Jean-Pierre Vergier, ha scelto di "giocare" con il luogo e di renderlo un protagonista della pièce.
Tutta la sala dell'Odéon è stata investita dallo spettacolo, in un "gioco" mirante a sottolinearne e svelarne la finzione di contenitore teatrale: il palcoscenico è stato lasciato nella sua oscura nudità, le pareti annerite dal tempo, aperto come un'enorme voragine sopra gli attori, minuscoli, schiacciati dal vuoto; sul pavimento della scena e del proscenio sono state disposte macerie polverose. Nella sala sono state divelte la seconda e la terza fila di poltrone della platea, i palchi sono stati anneriti e macchiati, e davanti al proscenio, è stato aperta una botola comunicante con lo spazio sottostante al palcoscenico, visibile allo spettatore attraverso una griglia; il lampadario è stato spaccato e vi è stato inserito un unico, rude riflettore di metallo; più in basso tutte le lampadine sono state sostituite con luci colorate, con le tinte della bandiera francese.
Il bianco, il rosso e il blu sono gli unici colori di questo teatro in rovina, e risplendono nella sala durante le orazioni che i personaggi rivolgono al popolo degli spettatori, e contemporaneamente sulla scena, in tre pannelli di lampade al neon poste sul fondo e in tre scritte luminose recanti il motto rivoluzionario "Liberté, Egalité, Fraternité", calate dall'alto durante le scene ambientate nel tribunale rivoluzionario.
La scenografia consiste in poche componenti costanti: un lungo pannello mobile di metallo scuro che ora viene fatto scorrere, ora sollevato, una passerella rialzata sulla parete di fondo del palcoscenico e dei teli di differenti dimensioni, che calati dall'alto ora a vista, ora dietro una parete nera, disegnano il vuoto e segnano i cambi di ambientazione.
L'atmosfera è complessivamente metallica, crepuscolare e rarefatta, e contrasta con i costumi di impronta storica, confezionati con tessuti e colori naturali, con la recitazione non particolarmente stilizzata degli attori e con l'intensità emotiva con la quale interpretano i personaggi: la storia, con i suoi orrori e con il suo sangue ritorna in un teatro in rovina, e i suoi protagonisti, che Büchner, per bocca di Danton definisce come "marionette tenute al filo da forze sconosciute", risorgono come fantasmi dall'oscurità e coinvolgono lo spettatore in un'interrogazione aperta sul ruolo dell'uomo nella storia e sui fondamenti delle istituzioni politiche e sulla democrazia.
Ogni scena possiede un'architettura sua propria e allo scarno apparato scenico vengono di volta in volta aggiunti elementi scenici particolari e funzionali, come illustrano efficacemente le prime tre scene, che assumono un valore paradigmatico dell'intero spettacolo. Ripercorriamole brevemente. Quando si alza il sipario il palcoscenico è delimitato sul fondo da un telo bianco, macchiato in alcuni punti, davanti al quale si trovano raccolti diversi gruppi di personaggi: da un lato Danton inginocchiato davanti a Julie, sua moglie, seduta su una sedia; al centro un ragazzo suona un'arpa da spalla, inondando il teatro di una melodia delicata e malinconica; dall'altra parte, raccolti intorno a un tavolo dalla superficie luminosa, giocano a carte Hérault-Sechelle e una dama dalla folta parrucca e dal ricco vestito rosso scuro. Intorno si aggirano altre figure, che scrutano ciò che avviene intorno. Sopraggiungono Camille e Philippeau, incalzano Danton sulla necessità di una nuova azione politica, ma egli se ne va infastidito e gli altri rimangono inermi, immobili. Mentre il telo bianco si alza, ne cala uno più avanzato e meno ampio di colore rosso: un vero e proprio sipario di teatro davanti al quale agiscono i personaggi popolari, abbigliati con vetusti costumi di scena e capeggiati dal suggeritore Simon, imbevuto della retorica romana della rivoluzione e di una pomposa teatralità nei gesti e nelle parole. La storia, come viene indicato dall'autore più volte attraverso le battute del protagonista, si svolge su un palcoscenico in cui si affannano inutilmente dei burattini inconsapevoli dell'inanità della loro azione: la tematica di impronta elisabettiana della sovrapposizione fra vita e teatro e fra realtà e finzione è stata sottolineata in maniera esplicita da Lavaudant, che ha scelto di conservare le scene di popolo, tagliate al contrario da tutti i registi che lo hanno preceduto, e di porle davanti a questo sipario rosso, provocando lo spaesamento dello spettatore: chi è il pubblico? Chi sono gli attori? Quale è la storia con "s" maiuscola? La situazione metateatrale è evidente, ma ambiguo è il suo statuto: il regista non fornisce una risposta, ma raccogliendo la suggestione del testo pone un interrogativo.
Tornando alla seconda scena dello spettacolo, l'azione è dinamica e se pur con accenti comici, illustra la disperata situazione del popolo e la sua sete di vendetta. I popolani stanno per giustiziare un personaggio seduto nella prima fila della platea perché reo di possedere un fazzoletto, quando interviene Roberspierre: il sipario rosso si alza repentinamente e apre la visuale sulla voragine scura del palco, occupato solamente sul fondo dalle due pareti di metallo unite. Dall'alto della passerella l'Incorruttibile arringa la popolazione e la invita al club dei Giacobini: essi convinti dalle sue parole si allontanano, mentre dall'alto vengono calati i tre pannelli luminosi, la scena viene rischiarata e si distinguono una panca sul fondo, dove sono già schierati alcuni personaggi e una sfera-tribuna posta avanti di fronte al pubblico. Roberspierre scende dalla passerella, si siede sulla panca, mentre una delle figure sedute si colloca sulla tribuna; la sala si illumina fiocamente, l'attore sulla tribuna viene evidenziato da un occhio di bue e cominciare a parlare: il confronto politico può cominciare. Come mostra anche questa breve descrizione, le luci sono orchestrate da Lavaudant in maniera da possedere un valore significante: tagliano con nettezza lo spazio oscuro, e definiscono gli stati e i cambiamenti anche all'interno della stessa scena dei personaggi e creano una partitura parallela al testo, costituendone una sorta di contrappunto visivo. Anche gli effetti sonori, organizzati da Lavaudant in stretta collaborazione con Jean-Louis Imbert, hanno un'importanza fondamentale nella determinazione del ritmo dello spettacolo e nell'armonizzazione dei suoi elementi. Melodie suonate o cantate dal vivo, dolci pezzi classici di pianoforte, brani orchestrali contemporanei, musica concreta e semplici registrazioni di rumori si alternano in maniera quasi continuativa nel corso della pièce e rivestono funzioni di volta in volta differenti. Come un leit-motiv wagneriano accompagnano la presenza in scena di alcuni personaggi mettendone in luce le caratteristiche: ad esempio, l'entrata di Julie è segnata da una sonata per pianoforte di Schubert, mentre quella di Roberspierre dal rumore di un treno in movimento; Lucile invece è la donna che esprime il dolore dell'esistenza con il canto. In altri momenti gli effetti sonori possiedono una precisa funzione drammatica: come vedremo in seguito, nel finale, quando il rumore della lama evoca l'azione omicida della ghigliottina, e ad esempio nella scena terza del secondo atto. Danton, che si trova in casa con Camille e Lucile viene chiamato da fuori e torna annunciando che qualcuno è venuto ad avvertirlo dell'imminente arresto; è quindi importante sottolineare che Danton viene chiamato fuori, ma la battuta fuori scena prevista dall'autore stona con l'atmosfera complessiva dello spettacolo. Al suo posto viene quindi inserito il rumore di un sasso scagliato al suolo, e la stessa soluzione viene utilizzata anche in un altro caso simile: in questo modo il dato drammatico è mantenuto, ma subisce un'astrazione che lo adegua al tono rarefatto e non realista della messa in scena. Infine il suono ha il compito di evidenziare in maniera ossessiva lo scorrere inevitabile del tempo, che angoscia continuamente i personaggi. Oltre alla già citata battuta di Lucile, anche Danton afferma sconsolato la notte prima dell'esecuzione: "L'orologio non vuol dunque riposare? A ogni ticchettio le pareti mi si stringono addosso, fino a diventare strette come una bara". Sono parole che prendono forma concreta in un ritorno costante di un tic-tac di orologi, di un ritmico cadere di gocce d'acqua e di rumori di demolizioni e di macerie in climax ascendente.
Lo scorrere del tempo e il cadere della vicenda alla catastrofe preannunciata e inevitabile sono ulteriormente tematizzati da altre tre idee registiche di grande suggestione poetica: durante numerosi cambi di scena cala davanti al palco una parete nera su cui vengono proiettate delle immagini video di nuvole mosse dal vento; mentre la sala è invasa dai rumori indicatori del tempo, sul proscenio passano alcuni personaggi, e ad uno ad uno si arrestano improvvisamente al centro come richiamati da una voce misteriosa e fissano lo sguardo in alto, come se davanti ai loro occhi si svelasse con una epifania il senso ultimo della storia. Sono pause nella catastrofica non-azione dell'opera, momenti in cui, proprio perché il tempo pare interrompersi, rende ancora più palpabile il precipitare inarrestabile dei personaggi verso il loro destino tragico. Nell'ultimo interscena, quello cioè che precede il finale dell'esecuzione, Lavaudant ha posto un'attrice su un palco laterale a suonare con l'arpa a spalla la stessa musica della prima scena: l'orecchio dello spettatore è riportato bruscamente indietro, e con un effetto straniante percepisce come la situazione del dramma sia giunta al termine inevitabile; la melodia non accompagna più un dialogo sull'utopia rivoluzionaria, come nella prima scena, ma viene violentemente sopraffatta dall'assordante rimbombare di tamburi dell'esecuzione capitale. Il senso di "claustrofobia temporale" espresso da Danton nella battuta citata si concretizza nel differente utilizzo della parete metallica mobile nelle due parti dello spettacolo: nella prima o si trova sul fondo, o è disposta obliquamente nel mezzo del palcoscenico, mentre nella seconda viene calata dall'alto in posizione avanzata e girata dalla parte posteriore dove sono presenti le sbarre che la sostengono. Il retro intricato della parete, sopra la quale sono poste dei freddi tubi al neon è la prigione, che riduce lo spazio vitale del protagonista e dei suoi e lo costringe a una immobilità che prelude alla morte sempre più vicina.
La regia di Lavaudant tocca l'apice dell'intensità e dell'efficacia nella scena finale dell'esecuzione: il grande portone di fondo del palcoscenico, che dà sulla strada, viene spalancato, e da questa ferita aperta nell'edificio già agonizzante emergono in controluce le figure dei cinque condannati, che al ritmo solenne dei tamburi salgono verso il patibolo. La ghigliottina è rappresentata da un masso sospeso sopra il centro del palco, su cui è incisa la frase di Robespierre "qui fait une révolution à moitié creuse lui-même son tombeau"; sulla passerella si ergono cinque cittadini, che insultano quelli che poco tempo prima erano i loro beniamini, mentre in basso, si fronteggiano i due boia, abbigliati con costumi clowneschi per porre in risalto la "parentela" con i becchini-buffoni di Shakespeare. Sul fondo si nota appena la presenza discreta di Julie, che, nella scena precedente si è suicidata per accompagnare Danton, il suo uomo, nella morte. Egli e i compagni avanzano, ad uno ad uno si pongono sotto il masso e quando il rumore della lama fende l'aria, chinano la testa. Lentamente si dispongono ai lati, raccolgono da terra la loro maschera mortuaria di gesso bianco e se la pongono sul viso, con un effetto fortemente perturbante; Danton è l'ultimo e quando il sibilo della lama si avventa su di lui il masso cade e sprofonda nel palcoscenico, mentre dall'alto, accompagnato dalla melodia di Schubert, cala una pioggia di petali rossi. Dopo questo momento di scioglimento del tempo, i due boia cominciamo a cantare allegramente intorno alla fossa oscura creatasi sulla scena; finiscono di ripulire, se ne vanno e sopraggiunge Lucile: è a lei l'ultima parola, un canto di morte intonato con voce tremante ai piedi dell'abisso. Un gendarme dall'alto urla il "chi va là" e in questa desolazione di fantasmi inghiottiti dalla storia, viene alle labbra di Lucile l'unica risposta possibile:"Vive le roi!". Dall'alto scende con rapidità il telo bianco, che creando volute fantasmagoriche, si distende su questi relitti: e questo silenzio illuminato da una forte luce rosso fuoco avvolge lo spettatore dell'enigma di una storia in cui l'azione dell'uomo è un gesto inutile per l'umanità e dannoso per su stesso.
 
Per ora mi fermo qui: alla prossima tappa il racconto delle prove e l'approfondimento sul metodo di lavoro di Georges Lavaudant e dei suoi collaboratori.


Verso Salomè
Una conversazione con Claudio Morganti
di Beatrice Benincasi

L’intervista a Claudio Morganti è stata fatta il 30 maggio 2002, fra le mura domestiche, in maniera informale e talvolta appare come una conversazione.
 
B.B.: Come e quando ti sei avvicinato al teatro per la prima volta ?
C.M.: Mi portarono a teatro quando facevo il liceo alle nove del mattino a vedere uno spettacolo che non guardai con attenzione e così non ricordai di aver visto per anni.
La prima volta che ho deciso di andare a vedere uno spettacolo, di andare a teatro, è stato perché secondo me non c’ero mai stato; invece c’ero stato e l’avevo completamente rimosso.
La prima volta che ho deciso di andare, autonomamente, comprandomi il biglietto, prendendo il mio trenino, andando a teatro insieme ad un pubblico di sconosciuti, vidi uno spettacolo del quale adesso non ricordo quasi nulla. Era bruttino, però respirai un’aria particolare, a cominciare dal fatto di trovarmi fuori dal teatro ad aspettare di entrare da solo in mezzo al pubblico, alla gente che sarebbe entrata con me.
B.B.: Era una rappresentazione di tipo classico, all’interno di un teatro o in un ambiente diverso dal teatro?
C.M.: Vidi un testo di Dacia Maraini, era uno spettacolo rivoluzionario, però messo in scena in maniera tradizionale. Era un allestimento povero all’interno di uno spazio teatrale decente, in un teatro piccolo, ma un teatro. Non fu tanto questo ad avvicinarmi al teatro, quanto il fatto di aver respirato un’aria anomala, diversa dai cinema, dalle feste, diversa da qualsiasi altra cosa. Aria che sono riuscito a respirare soltanto decidendo autonomamente di andare a teatro la sera e non la mattina con la scuola.
Perché il teatro bisogna farlo la sera, quando va giù il sole, quando si allungano le ombre: solo allora comincia la possibilità dell’apparizione del fantasma del teatro.
Finché c’è il sole nulla può succedere.
B.B.: La scuola di Carlo Cecchi ha avuto un ruolo importante per te, e anche il fatto di aver interpretato un paio di ruoli nei suoi spettacoli.
C.M.: Si, anche di più di un paio. Quando mi sono iscritto alla scuola, avevo diciotto anni ed ho fatto un anno su tre. Questo perché Cecchi insegnò il primo anno e poi non più; quindi gli chiesi di seguirlo nella compagnia, in qualsiasi mansione, piuttosto che rimanere in una scuola dove mi si cambiava l’insegnante. Andava via Cecchi, l’insegnante che io stimavo, che mi aveva aperto delle visuali che non sospettavo. C’era la possibilità di incontrare altri, di cambiare strada, ma io ho chiesto a Carlo se potevo seguirlo. La scuola vera è stata poi la compagnia.
Comunque, anche nella scuola, in quell’anno di frequenza, sono sorti i miei fondamenti teorici, che vengono da lì, tutti da Carlo.
B.B.: Mi hai detto che hai fatto altri spettacoli con Cecchi, oltre al Don Giovanni e al Borghese Gentiluomo, quali?
C.M.: Ho fatto anche una ripresa della Morte dint’o liett’e don Felice, dove però non recitavo ma suonavo la batteria nell’orchestra.
B.B.
: Hai mai pensato di fare una rappresentazione tipo quelle del Living Theatre?
C.M.: No, da spettatore detesto di essere toccato, portato a partecipare. Ho pure pagato, se mi porti a fare qualcosa mi devi pagare. A parte gli scherzi, su ciò posso rispondere solo personalmente perché è una questione soggettiva, anche se poi non mi interessa molto di dare una spiegazione oggettiva- ideologica. Forse c’è, ma non mi ci sono soffermato più di tanto. Soggettivamente ti posso dire che a me dà un fastidio impressionante, meglio, imbarazzo. Quando vado a fare lo spettatore, voglio fare lo spettatore e voglio essere coinvolto, perché a teatro se non sei coinvolto è un segno che il teatro non l’hai visto, che non è accaduto. Se il teatro accade sei coinvolto, se un attore ti piglia e ti tira certo non si può dire che non ti ha coinvolti, ma così è facile. Per esempio: tu sei seduta in prima fila, io scendo e ti do uno schiaffo, perché in quanto attore posso permettermi tutto ( anche se non è vero) e tu sei coinvolta. Ma come stai? Diventi di mille colori, non sai che fare: piangere, ridere, magari ti alzi e te ne vai. Quella cosa lì non la capisco. Pensa che ho alcuni problemi anche quando passano gli attori in sala, l’ho fatto anch’io, è una cosa che si fa. Zolla dice : “Se l’officiante inciampa il rito non riesce”, l’attore che tocca il pubblico è come per me un voler inciampare, è come un inciampamento predeterminato. Il pubblico si chiama pubblico e l’attore si chiama attore, sono due cose che hanno necessità l’uno dell’altro ma si chiamano in modi diversi, sono vestiti in modi diversi, nella maggior parte dei casi, fanno due lavori in quel momento completamente diversi e devono essere diversi per la riuscita di un rito. Sto provando a dare una spiegazione, ma la realtà è che a me quel tipo di coinvolgimento dà fastidio e non so perché. Sicuramente uno spettatore non è preparato a questo, è lì a fare un’altra cosa, quindi coinvolgerlo è poco onesto, anche perché sfrutti l’impreparazione di qualcuno. Il Living aveva un senso in quegli anni, un senso storico, un senso teatrale, la rottura e l’abbattimento forzato di una barriera. L’hai rotta tu, ma poi basta, ora anche la televisione fa così. Ed allora se lo fa la televisione, in teatro non lo si deve fare.
B.B
.: Come mai con Alfonso Santagata, dopo tanti anni di lavoro insieme, siete giunti ad una scissione artistica?
C.M.: C’è stata ad un certo punto una separazione, così senza traumi. Sì, traumatica come tutte le separazioni però senza motivi scatenanti se non un certo logorio.
Il desiderio, comunque da parte mia, di fermarmi più che cambiare. Avevo proprio voglia di staccare, di smettere con la prove, le repliche, i borderò, il ministero non ne potevo più, volevo dormire la notte.
B.B.: Mi è capitato di trovare in alcuni documenti due titoli diversi, Un giorno qualsiasi ed Andata e ritorno, per indicare lo stesso lavoro fatto con Santagata ed i carcerati della casa circondariale di Lodi. Come mai?
C.M.: Il primo titolo indica l’opera video mentre il secondo lo spettacolo fatto con i carcerati messo in scena all’interno del carcere, ma solo un paio di volte.
B.B.: Che tipo di rappresentazione è Edipo Re di Mario Martone? E che ruolo hai avuto in questa messa in scena?
C.M.: Quello è uno spettacolo di Mario, per quanto mi riguarda ci son poche cose. Il mio ruolo? Facevo Edipo, però facevo fatica. Ne avevo parlato all’inizio con Mario, gli avevo detto che per me era una questione anomala rispetto a quello che ho ed avevo in testa per quanto riguarda i testi, gli autori, il teatro scritto.
Io non sono in quell’onda dei classici greci, speravo che fosse una mia sensazione, speravo di scoprire qualcosa di diverso rispetto a me ed ai greci antichi.
Ho colto l’occasione per stare con Mario, è un amico di vecchia data, e nello stesso tempo vedere se questo lavoro su un’opera greca, su Edipo in questo caso, mi potesse aprire altre riflessioni mentali. Invece no, era come sospettavo.
Quello era un lavoro di Martone ed io interpretavo il ruolo di Edipo, non ho alcun patrocinio sulla realizzazione.
B.B.: A quale tipo di traduzione ti sei affidato per il Riccardo III versus Amleto?
C.M.: Adesso sto lavorando su Salomé, ho un paio di traduzioni italiane, l’originale francese, la traduzione inglese. Per quanto riguarda Shakespeare ho sempre lavorato così, un paio di traduzioni italiane, due anche tre o quattro o cinque.
Poi dopo le prime battute ti rendi conto quale di queste traduzioni si può evitare di consultare perché non vale.
Allora ne elimini una o due, e rimani con due, il testo originale, il vocabolario; ma più che un lavoro di traduzione è un meccanismo di “traslazione”. Cioè questa battuta, questo concetto, questa cosa che lui dice, mi interessa dirla? Se dovessi dirla come la direi?
B.B.: Analizzando il tuo copione mi sono appoggiata un paio di traduzioni per poi scegliere quella che mi sembrava più conforme al testo inglese.
Ho notato che certi versi con un determinato significato venivano espressi in modo diverso o con parole differenti pur esprimendo lo stesso concetto del testo originale.
Da qui mi sono posta il problema se fosse la scelta di una traduzione già fatta, una traduzione tua o una forma di “traslazione”.
C.M.: Sì, più che altro è questo. Le traduzioni servono come appoggio, come guida; la traduzione in prosa del Riccardo III dell’Einaudi, in quanto è scritta in versi, è fondamentale perché qualcuno ha fatto in anticipo per te, e per tutti, il lavoro di “de-poeticizzazione” anglo-cinquecentesca.
Il testo Shakespeare l’ha scritto in versi, è stato anche tradotto in versi, però già tradurre la poesia è un guaio, ancor di più tradurre quel tipo di poesia. Però comunque tu lo legga, tu leggi poesia, leggi bei versi e non capisci nulla di quel che succede; invece una traduzione in prosa ti dice la storia e la capisci bene, capisci cosa dicono. Quello è un lavoro che trovi già fatto, poi ci lavori sopra.
Ci lavoro ad occhi chiusi, quando poi scrivo comunque ci sono tracce che provo a dire e se non mi piacciono le cambio.
B.B.
: Infatti una volta con il copione alla mano visionando la videocassetta dello spettacolo, Riccardo III versus Amleto ho notato che erano state aggiunte delle battute.
C.M.: Shakespeare per dire una cosa doveva farla dire in un certo modo; da allora ad oggi è passato tanto tempo, siamo in tutt’altra epoca ma i fondamenti di quello che lui diceva e ciò che a me preme dire valgono anche oggi.
Quindi quello che bisogna conservare, quello che a Shakespeare premeva dire lo diceva come serviva a lui per riempire i tempi, per divertirsi con la sua compagnia. Io volevo dirlo in un altro modo, anche perché nessuno sapeva come lo dicevano a quel tempo.
Un po’ come la musica; come eseguivano Bach non ha importanza, tanto non lo saprai mai. Io sono nemico della filologia, fondare un lavoro, uno studio, un’attività mentale sul concetto di filologia a me sembra un’occasione mancata poi fare altro.
Un aver necessità a tutti i costi di arrampicarsi con delle belle maniglie, però poi non vai da nessuna parte. Poi mi fai sentire Bach coi violini scordati perché l’accordatura nel ‘700 era così, ma io preferisco l’orchestra di Budapest che fa un Bach romantico, che mi piace di più. Un dipinto, una musica, una scultura, una fotografia deve smuovermi qualcosa dentro.
Altrimenti faccio da me, ci sono i libri, non importa vedere le risposte degli altri.
B.B.: Che tipo di maschere sono quelle che usi in Riccardo III versus Amleto?
C.M.: Le ho fatte io, sono in alluminio piegato, è un foglio di alluminio molto fine, è molto lucido e dà un effetto specchiante.
B.B.:
Per farle hai consultato qualche immagine di maschere di popolazioni tribali?
C.M.: Sì, ci sono queste decorazioni, ma senza dover andare a consultare i libri. Una maschera ha due catenelle all’altezza delle orecchie, sicuramente le ho viste in qualche maschera africana o maori. Queste decorazioni sul volto sono una specie di tatuaggi ma sono cose che uno ha in testa.E’ un divertimento, uno svago, perché a me piace lavorare con le mani.
Sono i momenti della meditazione. E’ il momento in cui non si pensa allo spettacolo, si pensa alla costruzione di un oggetto ed è il momento in cui le cose dello spettacolo arrivano a tua insaputa, che sono poi quelle buone per lo spettacolo, quelle alle quali non pensi a tavolino. Prendi la penna e dici “Qui cosa posso fare?”.
Costruisci un attaccapanni che poi forse ti servirà per lo spettacolo o forse no, ma sicuramente ti viene in mente cosa fare in quei momenti.
B.B.: So che, dal 9 al 14 aprile 2002, hai rappresentato ultimamente, a Milano, il Riccardo III con i 18 attori di La vera storia del Riccardo III. Studio per videocamera. Vorrei sapere qual’è il tuo rapporto con il Riccardo III, visto che, pur essendo lavori affrontati in maniera diversa, il primo è stato lo studio del III Riccardo III con Elena Bucci&Tamburino Ensemble (nel 1993) poi il Riccardo III con Loredana Putignani (nel 1994).
C.M.: Diciamo che cos’è adesso, dopo tre riprese è come se fosse finito. Mi è stato chiesto se lo volevo riprendere ancora ed ho detto di no. Poi cosa succederà? Sicuramente è possibile che fra un anno , fra un po’ di tempo, torni il pensiero, il desiderio, la voglia. Però il mio lavoro sul Riccardo III è finito con il debutto alla Biennale di Venezia, proprio materialmente compresa quest’ultima rappresentazione con le sostituzioni. Si è trattato di fare un lavoro di natura più che altro tecnica, di intervento su una cosa costruita. In ogni lavoro che si fa c’è un momento in cui lo spettacolo, lo studio, il lavoro termina, ha un termine naturale. Nessuno te lo dice, e a volte non te lo dici, però non si sente al di là del fatto che uno spettacolo possa durare settantacinque anni; c’è un momento in cui lo spettacolo è finito ,dentro di te è terminato, perché ti manca quel margine di curiosità, ci sono dei sintomi o comunque cominci a dire: -“Basta stasera non ho voglia”. Si dice sempre:-“ Stasera non ho voglia”. Ogni sera si dice :-“ Stasera non ho voglia”, però, lo si dice anche per ridere. Ma arriva un momento in cui lo dici sul serio e quello è un segnale chiaro. Lo studio sul Riccardo III ha avuto in tanti anni patologie diverse. Ci sono stati momenti in cui era una specie di ossessione, momenti in cui è stato necessario, come dire, lavorarci da lontano, momenti in cui era fuori dai miei pensieri, poi è tornato. Insomma, é un rapporto complesso. E comunque non sono stati sei anni continuativi, ho passato lunghissimi periodi occupandomi di altro. Però comunque finché lo spettacolo non è finito, il fatto che la curiosità mi sia durata così tanto, dipende dalla varietà di forme che ho provato ad utilizzare. Una volta fatto lo spettacolo con tutti gli attori come io desideravo, al debutto di quello spettacolo, basta lavoro concluso.
B.B.: La mia curiosità è nata dal vedere affrontato un argomento come il Riccardo III, con attori differenti (il primo con Loredana Putignani, il successivo con il Tamburino Ensamble & Elena Bucci ed infine lo studio per videocamera con 18 attori), modalità diverse di uno stesso testo. Anche se in tutti e tre i casi gli è stato dato un taglio e una rappresentazione diversi, fino a giungere ad un lavoro più complesso con 18 attori sul palcoscenico o in video. Notavo poi come nel 1993/1994 vi sia stato un ritorno a quella messa in scena e mi chiedevo il perché.
C.M.: Io credo che poi alla fine sia difficile catalogare. Però in tutti i lavori che ho fatto sul Riccardo ci sono piccoli ma sostanziali elementi che sono rimasti. L’unico studio, mentre i primi non lo erano, che in qualche modo è rimasto quasi totalmente dentro allo spettacolo finale è La Scena del Consiglio per il resto, anche Le Regine, per quanto riguarda alcuni personaggi, mentre La Scena del Consiglio riguardava una sola scena. Degli altri studi sono rimasti solo alcuni elementi apparentemente piccoli però fondamentali e poi la costruzione con i 18 attori. La Scena del Consiglio in qualche modo era già stata vista , si è trattato però di ripensare tutto dall’inizio alla fine, perché se muta l’impianto cambia tutto.
B.B.: A che punto sei con il lavoro sulla Salomè?
C.M.: Ho la possibilità di prendere la Salomè con quelle stesse pinze che ho usato per l’elaborazione del Riccardo III, anche se quando iniziai non pensavo di fare un Riccardo III mentre adesso ho in mente di fare il lavoro sulla Salomé. Così me ne sto occupando, facendo laboratori, pensandoci, però senza ansia e senza fretta, ci vuole un po’ di tempo.
B.B.: Hai fatto molte messe in scena di Shakespeare, poi prima del Giulio Cesare hai rappresentato Tre atti per un contrabbasso. Quanto questo è stato influente ed anche importante per lavorare su altri spettacoli?
C.M.: Nei miei spettacoli, nei miei lavori, mi piace suonare, mi piace fare ciò che non so fare. Per me il palcoscenico è un’occasione di mostrare la possibilità di poter suonare anche se non si sa suonare; questa è una cosa che vado ripetendo a chi fa i laboratori con me.
E gli attori italiani non sanno suonare, già è difficile trovare quelli che sanno recitare.
Sto rappresentando il Linguaggio della Montagna e Il Bicchiere della Staffa di Pinter. Il Linguaggio della Montagna è una forma di lettura, siamo in quattro che leggiamo e suoniamo. Nessuno dei quattro è musicista.
B.B.: Ma suonate strumenti diversi o quattro uguali?
C.M.: Usiamo venticinquemila strumenti, come i grandi musicisti ma li usiamo in maniera anomala. Usiamo questi strumenti in modo diverso come percuotendo un tamburo ma dalla parte opposta, oppure suonando una chitarra turca però con l’archetto e senza modulare. Ho lavorato con Giovanni Tamborrino sul Riccardo III e con Ferdinando Grillo, un grande contrabbassista, su Tre atti per un contrabbasso.
E’ forte il rapporto tra la musica ed il teatro, è forte sul serio al di là dell’ovvietà del concetto perché per il teatro, prendi una musica e la inserisci. Però di solito si trascura che cosa lega queste due forme d’arte, si prende la musica e la si mette a teatro. Invece in Tre atti per un contrabbasso l’inserimento della musica, è stato un modo per indagare i legami originari fra le due arti; il gesto è un atto comune, ma poi, esplorando, si dà vita alle diverse forme.
Prima del musicista, dell’attore, del danzatore c’è il divertimento.
B.B.: Come sono impostati il Linguaggio della Montagna ed Il Bicchiere della Staffa ?
C.M.: In rapporto a Pinter ho dovuto cercare una strada diversa. In qualche modo tutto il lavoro fatto attoriale fatto sul Riccardo III per tanti anni me lo sono portato addosso. Il lavoro in rapporto a Pinter è stato quello di riuscire a mettere da parte tutto quel lavoro, formalmente parlando, mantenere l’ esperienza e buttar via il resto sembrerebbe un lavoro enorme, se ci sono voluti sei anni per fare il Riccardo III ce ne vogliono altri sei per toglierlo, invece no. Una prova di memoria ci ha indicato la via per fare Il Bicchiere della Staffa in maniera anonima e non shakespeariana. Tecnicamente Il Bicchiere della Staffa è il tentativo di una messa in scena così com’è, non sono stati fatti interventi di riscrittura, se non piccolissime cose di traduzione che era necessario rivedere un po’. Sul Linguaggio della Montagna c’è invece un tentativo “sperimentale”: il testo è stato scritto per essere messo in scena, noi ne abbiamo fatto una lettura dove tutti leggiamo e suoniamo. Il primo dura 30/40 minuti e l’altro 10, un’ora in tutto con la pausa. Sono stati fatti insieme, il primo tempo e il secondo tempo nella stessa serata, prima Il Bicchiere della Staffa. Mi rendo conto che non avrebbe senso fare Il Linguaggio della Montagna se non ci fosse Il Bicchiere della Staffa , ed Il Bicchiere della Staffa, secondo me, senza Il Linguaggio della Montagna perderebbe un elemento che per il teatro è fondamentale: la leggerezza. Il Linguaggio della Montagna è il tentativo di trattare nella maniera più leggera e meno impegnativa possibile una questione molto grave e molto pesante.
B.B.: Per i temi trattati, il periodo con Santagata, viene definito da alcuni come teatro “dell’emarginazione” per altri “neo-grottesco”. Come definiresti il tuo lavoro attuale?
C.M.: Non so. Pur sforzandomi non potrei risponderti. Certo con Alfonso si lavorava sempre su figure ai margini di tutto.
Se si lavorava su Shakespeare, ci piaceva lavorare sui due sicari che si trovano per così dire ai margini della locandina perché messi in fondo. Ma alla mia età non riesco a capire quanto sia utile o dannoso definire in maniera chiusa le cose dell’arte.
Non mi sembra che sia utile, io capisco che l’intento sia quello di chiarire,di cercare di dare con una parola un’immagine a un lavoro. Di dare ordine. Ma cosa c’entra l’ordine con l’arte? Niente.
B.B.: Cosa è cambiato nel rapporto con il mezzo audiovisivo o con la pellicola? Anni fa mi avevi detto che non li sentivi affini a te. In una ripresa amatoriale di Franco Jonda per lo spettacolo il Riccardo III versus Amleto prima di entrare in scena, e che arrivasse il pubblico, mentre la videocamera riprendeva dicevi :- “Riprendi pure, basta che non si senta.”
C.M.: Non è il mio mestiere. Se faccio il tombolo posso anche dire “provo con i pennelli”, però poi non riesce. Con gli strumenti di ripresa non ci so fare. Gli strumenti di ripresa in teatro sono un’aberrazione. Sono due cose che dovrebbero stare ognuna per conto proprio, ad ognuno il proprio lavoro. Ma la documentazione?, chiederai.
B.B.: So che sono due cose diverse, ma io mi sono trovata a guardare lo spettacolo, a distanza di anni, e mi sono resa conto che non mi ricordavo nitidamente alcuni passaggi o particolari o caratteristiche più o meno fondamentali.
Certo il video non mi ha dato le stesse emozioni che ho provato nel vedere quello spettacolo in teatro, o comunque in un ambiente in cui sei con altre persone hai l’attore lì che in qualche modo cerca di comunicarti e suscitarti qualcosa.
C.M.: Allora, mi dici cosa sono servite le migliaia e migliaia di fotografie di guerra, di morti, di cadaveri. Dovevano servire a fare in modo che non si ripetesse. Evidentemente il mezzo non è efficace a raggiungere lo scopo. Stessa cosa per il teatro, il teatro: a maggior ragione è una forma d’arte che ha come caratteristica di accadere in quel momento per poi svenire.
Non so a che cosa serva recitare davanti ad una macchina da presa. Il cinema è una cosa affascinante, purché non sia io a preoccuparmi di stare dietro la macchina da presa. Non è il mio mestiere. Neanche starci davanti è il mio mestiere.



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Visto a Riccione ttv 2002 il video Resistance (Living theatre a Beirut) di Marco Santarelli (di cui è visibile qualche frammento (Real Video, 50' circa, 844KB) su gentile concessione dell'autore) offre lo spunto per un “ingrandimento” sull'omonimo spettacolo del Living a cura di Lorena Cristini.
Presentato ad A.D.E.2002, Festival di Polverigi, l'interessante progetto tra web e teatro di Mariano Equizzi che offre in pasto (nudo) ai lettori di ateatro il suo insolito omaggio a William Burroughs dal titolo http://digilander.iol.it/wang/ DNE, Descrambling Nova Express. Si tratta di un sito internet che racconta il carattere e la storia di un personaggio (l'agente Leonov, ispirato al racconto Nova Express di Burroughs) e di una performance progettata come una sorta di cut up audiovisivo della vita del personaggio burroughsiano; i retroscena non vengono però espressi direttamente nella performance perché questi altro non sono che delle “informazioni segrete” acquisibili appunto, soltanto attraverso il web.
Fabio Nardini e Andrea Campanella, fondatori della rivista di cultura underground “cut up” (guarda guarda...) premettono al racconto DNE alcune fondamentali “istruzioni per l'uso del virus W.S.B.” e i motivi della fortuna della tecnica del cut up tra gli autori -scrittori, musicisti, registi- dell'ultima generazione, underground e non.
Dopodiché il nostro uomo a Parigi, Emanuele Quinz, ci illustra i temi del convegno Prospective des Arts dans la Technologie, tenutosi il 21 giugno 2002, con interventi (tra gli altri) di Derrick De Kerckhove e Franck Bauchard.
Che dire, buona lettura e buone vacanze!

Living Now
In margine al video Resistance (Living Theatre a Beirut) di Marco Santarelli
di Anna Maria Monteverdi

In una nota datata 1 giugno 1948, a pochi mesi dalla fondazione del Living Theatre, Judith Malina elenca, nel suo diario, i tre stadi necessari per la costruzione di un teatro politico: uno astratto, uno concreto, uno "attivo":
 
1) Develop a theory of political philosophy (abstract)
2) Develop a historical understanding of what contributes to human happiness (concrete)
3) Be able to suggest procedures for integrating the ideal social situation with the real, individual, human factor (active)

 
A quel punto Malina ricorda da dove venne la prima ispirazione per la messa in pratica dell'Utopia del Teatro Vivente:
 
During my thoughts the mail brings "Resistance", the anarchist newspaper, which I have been received. I am suprised to find it full of pertinent material.
 
E' la prima volta nel diario che Malina nomina il movimento anarchico che da quel momento inizierà a frequentare e a condividerne gli ideali libertari grazie anche all'amicizia con Paul Goodman, che proprio in quell'anno avrebbe divulgato i principi di Communitas.
La storia del Living, inizia significativamente all'insegna di Resistance, parola chiave nel loro teatro. Resistance lo spettacolo ideato nel 2001 per spazi non convenzionali, è ispirato ai fatti della Resistenza a Rocchetta ligure, nel doloroso ricordo della Seconda guerra mondiale raccontato dai partigiani della val Borbera, là dove il Living ha oggi trovato la propria residenza stabile, presso Palazzo Spinola; ma lo spettacolo, come precisa puntualmente la stessa Malina, è emblema di ogni forma di resistenza umana al capitalismo, all'economia globale, alle guerre, tutte le guerre. Resistance ha, infatti, invaso le strade di Genova, durante le giornate del luglio 2001 in occasione delle manifestazioni Anti G8, ed è sbarcato in Libano, a Beirut.
Resistance - come già Paradise now!-diventa lo slogan di ogni comunità ribelle, parla di una storia recente e chiama in causa la nostra responsabilità alla creazione di un mondo non a misura umana bensì "frankensteiniano", mostruoso:
 
"Trentacinque anni dopo la creazione del nostro Frankenstein, è arrivata una nuova generazione di attivisti e contestatori che alza la voce per individuare il mostro pericoloso dei nostri tempi. E' l'incoronazione del Capitale come unico dio della società -il valore assoluto. Ed è contro questa Creatura, quest'artifico che è la legittimazione del sistema mondiale capitalistico, che i giovani si svegliano. Ed è a Québec, a Praga, a Waghington, a Seattle, a Genova cioè ovunque si riuniscono i potenti che dirigono la marcia verso la globalizzazione, che quelli con una prospettiva più ampia cercano di scuotere la coscienza del mondo".
(Dall'introduzione di Judith Malina scritta per Frankenstein del Living Theatre, di A.M. Monteverdi, Pisa, BFS , 2002).

 
Dalla Resistenza al nazismo ad oggi, contro il nuovo nemico: teatro non è rievocazione di un fatto storico tramandato ma è evento, esperienza di vita, manifestazione irripetibile che trova la sua unica ragione di essere nell'efficace azione diretta sul pubblico. Può il teatro interrompere questo ciclo di morte? Una guerra è in corso adesso, non c'è più spazio per la memoria. Resistance, come già Antigone e Frankenstein, ripropone la figura del “resistente” dell'antico dramma, guardando brechtianamente al presente:

"La domanda è: "Cosa significa Resistenza?" ed arriviamo a Seattle dove i giovane protestano contro la globalizzazione. E questo nemico oggi è molto nuvoloso. Era bello dire: "Fascismo: questo è il nemico, ecco l'obiettivo". Ma oggi il nemico sono le multinazionali e noi usiamo i loro prodotti, siamo coinvolti, siamo una parte del meccanismo, e anche quando protestiamo, protestiamo dentro la trappola del nemico, questo è molto vicino alle tematiche del Frankenstein. Questo lo dico per legare il lavoro del passato col lavoro di oggi: il lavoro del Living è una sola grande opera con parti in cui differenti momenti sembrano richiedere altre forme, ma è sempre un'opera unica.
Ogni volta che iniziamo un nuovo spettacolo parliamo per settimane, qualche volta per anni: "Cos' è la prossima cosa che vogliamo dire? Cosa è importante esprimere?"
Ma certi principi fondamentali rimangono: siamo anarchici, pacifisti, femministi....è un unico atteggiamento e vogliamo guardare ai diversi momenti storici e ai diversi luoghi dove lavoriamo. Ci chiediamo: "Cosa è utile dire in questo momento? Cosa è cruciale adesso per noi e per gli spettatori?" E ogni volta decidiamo.
Qua siamo a Rocchetta, la maggior parte della popolazione è anziana e la cosa più importante per loro è stata l'esperienza della guerra. Erano tutti coinvolti e avevano queste storie dentro. E noi ci domandiamo: "Cosa vuol dire questo?" E allora decidiamo di fare uno spettacolo sulla Storia, ma sempre con questa idea: "Abbiamo imparato qualcosa da questa esperienza? Dove siamo adesso?" La Resistenza: "Essere un esercito di gente non bellicosa ma che vuole difendere la propria vita, uccidere o non uccidere, e uccidere chi? Solo fascisti tedeschi o anche fascisti italiani? Sono nostri fratelli o no? Cosa siamo l'un l'altro?" Tutti problemi morali attuali per loro e che sono ancora adesso nelle loro menti. E allora ci domandiamo: “Cos'era questo tempo così estatico e così orribile allo stesso tempo?". C'è in fondo la speranza che questa orribile realtà non sia la nostra realtà perché a questa siamo costretti da un sistema che abbiamo inventato per sopravvivere e per il quale dobbiamo essere cattivi. Sembra che non abbiamo altra scelta, come i Partigiani: "Ci sono gli invasori, dobbiamo reagire". Oggi in Israele, in Africa, gli orrori ci sono sempre perché crediamo che non ci siano altre alternative. Dobbiamo vedere queste alternative attraverso l'arte, la letteratura, il teatro, la musica...”.
(Intervista di A.M.Monteverdi a Judith Malina, in Frankenstein del Living theatre, cit)

 
Resistance (Living theatre a Beirut)
di Marco Santarelli; prod. Doppler. Sceneggiatura: Marco Santarelli, Vincenzo Della Ratta.
Adattamento da Resistance del Living Theatre, Roma, 2001, 8'25”.
Opera video selezionata al Concorso Italia Riccione ttv 2002.
keydoppler@hotmail.com

Il giovane videomaker Marco Santarelli ha seguito il Living theatre in Libano senza un progetto preciso, era uno dei "reclutati" antifrankenstein; l'atmosfera l'ha coinvolto, le immagini di una città devastata da una guerra interminabile (chi si ricorda le fotografie di Basilico di una Beirut desolata e disabitata?) non l'hanno lasciato indifferente, e ha deciso, telecamera alla mano, di assumersi il compito di una memoria originale della performance Resistance, nel qui e ora di una guerra ancora impressa negli occhi della popolazione, raccontata tra resti di bombardamenti e vita quotidiana. Nel tempo contratto di otto minuti Marco Santarelli ha accostato insieme, come fossero due occhi, le immagini del luogo, teatro antico di scontri, e momenti della preparazione dello spettacolo con un'intervista a Malina che racconta come il punto di partenza dello spettacolo sia stato l'interrogativo: Who's the enemy?, chi è oggi il nemico?
E' ancora lei, settantasei anni, figlia di ebrei scampati all'antisemitismo nazista, in prima linea in terra araba, pronta ad imbracciare la causa degli oppressi, sassi alla mano: “No pasaràn!”.


Resistance: "Dentro l'oscuro problema, una speranza brillante"
La Resistenza: esempio storico, modello attuale
di Lorena Cristini

"…Vanno a fatica contro i venti freddi,
i senza patria, …
cercando una terra di pace,
senza il tuono, senza l'incendio…"1
(1942) B. Brecht
 
Rocchetta Ligure, un piccolo villaggio attraversato dal torrente Borbera che dà il nome alla sua valle è il piccolo paese che ospita la sede europea del Living Theatre. E' proprio questa una delle zone implicate nel movimento della Resistenza e che ora rappresenta il principale spunto storico dell'ultimo lavoro teatrale del Living Theatre, Resistance2.
Come spiega l'ex partigiano Giambattista Lazagna, nel 1944 le forze partigiane estesero il loro territorio di combattimento da Genova in tutte le valli dell'alessandrino, e "la Val Borbera, formata com'era da una gola incassata tra due monti dirupati"3, costituiva un luogo di rifugio per chi aveva ideologie diverse da quella nazi-fascista, o per chi aveva disertato il servizio nell'esercito o abbandonava il potere fascista per passare dalla parte dei ribelli4.
Il gruppo del Living raccoglie documenti storici, libri scritti da ex partigiani, testimonianze degli abitanti dei villaggi e filmati, portando sulla scena un momento della storia molto contraddittorio: terribile e violento, ma spinto da profondi valori di unità e libertà. Una fonte molto importante per il gruppo, oltre ai vari racconti degli abitanti di Rocchetta Ligure, è costituita dall'esperienza di Giambattista Lazagna, il quale ventiduenne e a soli sei mesi dalla liberazione d'Italia, scrive di getto il suo libro, Ponte Rotto, giunto attualmente alla settima edizione. Ora, dopo oltre cinquant'anni l'autore intende affidare al suo libro e a Resistance del Living Theatre un'importante funzione: quella di ricordare, capire e assegnare nuovi valori e reali funzioni alla Resistenza di oggi, che può trovare la sua forza guardando al grande esempio di chi si è opposto al potere assolutista.
Negli scritti e nelle testimonianze dei partigiani viene costantemente sottolineata l'importanza di valori condivisi da tutti i combattenti: l'unità, la solidarietà e l'onestà tra i compagni, come testimoniano le parole di Lazagna:
 
La vita in comune, lo stesso desiderio di lotta, le fatiche, i pericoli vissuti insieme cementarono una unione ed una compattezza tra noi che ci permise di affrontare le situazioni e le prove sempre più difficili […] e ci consentì di educare con quello stesso spirito le migliaia di giovani che vennero gradualmente ad ingrossare le nostre file.5
 
Ciò che colpisce è dunque il fatto che lo spirito di comunità e di unione tra i partigiani ha costituito per "chi è venuto dopo" un modello su cui basare il proprio comportamento. Ma ai giorni nostri, come rendere vivo e valido l'esempio dei partigiani? Come rivivere e comprendere l'esperienza della Resistenza alla luce dei problemi e dei bisogni di oggi, si chiede il Living? Il gruppo intende recuperare non solo i valori politici della Resistenza, ma anche quelli morali; "quando siamo arrivati a Rocchetta Ligure", spiega Judith Malina, "abbiamo iniziato ad instaurare un rapporto di dialogo con gli abitanti, in gran parte anziani, e ci siamo accorti che ricordavano molto bene di quando la vita per loro aveva un senso, era bruciante. Abbiamo capito che essi hanno lottato, un tempo, per la vita che ora hanno, ma che ancora non li soddisfa, perché i valori sono assopiti, si sono addormentati sotto la calda coperta della vecchiaia".
Resistance
nasce dalla necessità di risvegliare quegli ideali così vivi un tempo e così necessari oggi per opporsi contro i nemici e gli invasori dei giorni nostri: l'abuso di potere, lo sfruttamento dei paesi poveri, la violenza. Il concetto di "resistenza", inoltre, ha da sempre significati cruciali per il Living Theatre: prima di tutto viene inteso come impegno a rimanere uniti e ad affrontare con il gruppo le difficoltà del vivere e del lavorare collettivamente, inoltre in esso è insita la duplice lotta: la ricerca teatrale e politica.

"Nel tempo che resta continuo a cercare le memorie del mondo.
Nel tempo che resta cercherò di costruire la pace."6

Una pace che secondo il Living Theatre può essere raggiunta solo attraverso la lotta non violenta, posta quindi in contrapposizione alla resistenza armata. "Abbiamo sempre espresso la nostra ferma posizione contro le forze violente", spiega Judith Malina, "e vogliamo mostrare che è possibile opporre un modo alternativo a quello di combattere con le armi. E' difficilissimo." Il Living Theatre, in particolare, prende come esperienza esemplare quella della Resistenza non armata, condotta dalle donne, dai sabotatori, da chi diffondeva le notizie, intendendo così mostrare che alla violenza, all'aggressione di chi detiene il potere non può essere contrapposta altra violenza. Il seguente brano di Julian Beck esprime, forse, al meglio l'assurdità del concetto di violenza insito nella cultura dell'uomo:
 
"La vita è immaginata come un campo di battaglia, e per buone ragioni, ma questa idea ci riduce in schiavitù, e diventiamo tutti soldati, coscritti, pronti anche noi a uccidere o ad essere uccisi. […] Il problema è riuscire a considerare ciò come un'idea, una chimera che ha occupato l'immaginazione e si è infiltrata attraverso i canali della cultura fino a una mentalità segnata-da-paura, il problema è non accettare questa iniezione demoniaca come un assioma."7
 
Visioni e rumori di guerra per un teatro della memoria.
Frankenstein
e Angelus Novus: figure in lotta con il Tempo.

 
"L'accavallarsi delle immagini e dei movimenti condurrà,
mediante collusioni d'oggetti, silenzi, grida e ritmi, alla creazione di un autentico linguaggio fisico fondato sui segni e non più sulle parole."8
A. Artaud

Lo spettatore giunto nel luogo destinato allo spettacolo, il chiostro della biblioteca comunale di Novi Ligure, cerca un posto a sedere tra le sedie che formano una cornice intorno allo spazio scenico. Tra pochi minuti le voci e i rumori degli attori lo indurranno a compiere un salto nella storia del 1943, dove gruppi di partigiani lo circondano, scappano, si nascondono, vegliano, difendono il loro territorio. Ed è il dipinto dell'Angelus Novus9 di Paul Klee che suggerisce al Living Theatre lo spunto per l'incipit di Resistance. In esso è raffigurato un angelo, il cui sguardo, posizione del corpo e delle ali sembrano voler mostrare un'imminente fuga da qualcosa di spaventoso. Il suo viso, secondo l'interpretazione di Walter Benjamin10, è rivolto verso il passato, nel quale egli vede una lunga, indivisibile catena di mali, una catastrofe. Forse egli vorrebbe fermarsi, chiudere gli occhi o rimediare agli errori, invece è condannato a procedere vorticosamente verso il futuro da una tempesta. L'Angelus Novus arriva allo spettatore portandosi appresso tutte le disgrazie del passato costruendo quindi, un presente di macerie; si crea così un'analogia con il mostro di Frankenstein11 creato con cadaveri di impiccati, prostitute e ladri, ovvero da ciò che costituisce la storia della società stessa. La creatura di Frankenstein e l'immagine dell'Angelus Novus possono essere accostate in quanto entrambe rendono presente, pulsante ciò che per l'uomo è vergogna, ciò che vorrebbe seppellire. Esse rappresentano il risultato della storia e mostrando all'uomo il suo passato, gli svelano la sostanza di cui egli stesso è fatto.
Tuttavia, la tempesta che sospinge l'angelo, sebbene non possa far disperdere le rovine accumulate, può rendere l'uomo più consapevole e stimolarlo a migliorare il suo tempo; come sostiene Anna Maria Monteverdi, lo sviluppo del mostro di Frankenstein e, per analogia quello dell'Angelus Novus, "corrisponde al passaggio nodale della tragedia greca dal non conoscere al conoscere, attuato secondo il principio eschileo del pathei mathos: attraverso la sofferenza, la conoscenza"12.
Lo spettacolo ha inizio: sospiri, ansimi, grida, spari emessi dagli attori nascosti nei quattro angoli fuori dalla scena. Un senso di inquietudine, di pericolo imminente, un'atmosfera di attesa assalgono lo spettatore. Sono le stesse sensazioni che abitualmente provava dentro di sé la sentinella partigiana, quando con gli occhi sgranati nella notte fonda, vegliava sui compagni partigiani del casolare di montagna. "Un fruscio negli sterpi del bosco mi faceva voltare", ricorda nel suo libro Lazagna, "fissavo nell'ombra immobile, poi continuavo il mio giro senza far rumore. [...] La nebbia frattanto ci aveva sepolti […]Mi misi in ascolto, pieno di freddo, con l'arma in mano, cercando di sentire e discrutare."13
Tra sibili e fruscii prodotti da loro stessi, gli attori provenienti dai quattro angoli, arretrano lentamente: l'Angelus Novus trova respiro nel corpo degli attori e sta per giungere lentamente di fronte allo spettatore. Le braccia sono aperte e si muovono come ali, la lenta e ampia gestualità crea la corrispondenza tra il movimento del corpo che arretra e il processo mentale del ricordo. Gli attori arrivano al centro della scena. Essa diviene, diviene dunque il luogo in cui si rende possibile la "presenza del passato", che "è ben consapevole di essere passato, ma rinnega questa sua condizione": nel luogo teatrale Chronos, il Tempo, e Mnemosyne, la Memoria, perenni antagonisti, rinsaldano il loro legame fraterno accettando l'innegabile: "il Tempo cesserebbe di essere percepito senza la misura della Memoria che segna il suo scorrere; la Memoria, senza lo scorrere del Tempo, perderebbe la sua identità."14 Ed è proprio su di essa che ora gli attori-Angelus Novus, arretrando, hanno gli occhi: essi riconoscono l'unione tra Chronos e Mnemosine come inscindibile creando un teatro di "memoria vissuta", un passato che diviene esperienza sulla scena. Tale luogo si sviluppa dalla sensibilità intuitiva di ognuno; trasformare il suono, il colore, l'odore in immagine mentale. Non c'è bisogno di una scenografia tangibile; ciò che si delinea nella mente dello spettatore è molto più incisivo. E' ancora attuale, quindi il principio di Julian Beck, secondo il quale
 
"Se la scenografia non può dire allo spettatore qualcosa che la scena nuda può dir meglio, non farla: l'ornamento superfluo distoglie la concentrazione dal centro… Affascinare mille occhi con il mistero della vista e dei sensi."15

Tradurre il concetto in gesto, l'idea e l'intenzione in azione teatrale è una scelta costante del Living Theatre, la volontà di superare i limiti della comunicazione convenzionale e della tradizione. Un teatro che "si diriga verso la creazione di condizioni in cui il pubblico", e gli attori possano "sentire fisicamente loro stessi, esaminare il loro essere… il corpo sacro,"17 E tale linguaggio ha costituito per il gruppo l'insieme di mezzi espressivi volti a sperimentare i modi della comunicazione e, secondo le convinzioni di Artaud, a "trattare temi e soggetti che corrispondano all'agitazione e all'inquietudine tipiche della nostra epoca […] Dunque, i grandi sconvolgimenti sociali, i conflitti tra i popoli e tra le razze, le forze naturali […] si manifestano nei movimenti e nei gesti di personaggi"18. Il Living Theatre non vuole incorniciare il gesto in una sterile rappresentazione: esso, come scrive Mastropasqua non deve “essere nuovamente confermato, ma messo sotto giudizio, compiuto per essere negato”19: il dolore umano, il male vissuto nella guerra sono soltanto il punto di partenza di una lunga strada che deve portare, attraverso il teatro, alla rimozione di tale gesto assassino. Proveniente da un passato storico, il mito del partigiano resistente, viola le leggi del tempo e dello spazio, ritrova forza e vita nel presente, osa rinnegare e reinventare il suo gesto assumendosi ora il compito di guidare lo sguardo dello spettatore al di là dell’orizzonte, proprio come avveniva nel teatro greco quando teatro significava spingere il proprio sguardo varcando il limite concesso alla vista , “guardare le cose che ci stanno attorno con occhi più penetranti, guardando davanti a noi, oltre.”20

Il campo di battaglia di Resistance
Fughe, inseguimenti, ingranaggi di corpi: una scenografia di uomini


Judith Malina dà inizio alla seconda scena. Seduta ad un lato della scena, vestita di nero con un grande grembiule che le copre le gambe e una pentola piena di castagne sulle ginocchia, proclama: "Sono immagini di un incubo distante"21. Sono quindi i ricordi che affiorano dai racconti degli abitanti anziani di Rocchetta e dai libri, il cui terrore viene rappresentato in scena attraverso una serie di tableau vivants, quadri viventi (solo però, per quanto riguarda la brevità dell'azione e l'immediatezza dell'immagine, invece il gioco di luce tipico dei tableau vivants qui è assente), nei quali un attore schiaccia con lo stivale la testa ad un altro, un ribelle viene ucciso, una donna viene capovolta (allusione alla violenza carnale), un'altra è fucilata, un soldato è preparato per la sepoltura.
Lo spettatore ora si è reso conto di trovarsi "in tempo di guerra"; nel bosco, nella trincea, sulla cresta della montagna. La paura e il senso del pericolo si sostituiscono alla sensazione di smarrimento. Ma il ritmo si spezza: improvvisamente gli attori corrono disordinati e ansiosi dopo che la voce di Judith Malina ha annunciato l'inizio della terza scena: "1943: dopo l'armistizio, la confusione". Qualcuno bisbiglia ansiosamente: "I tedeschi… i tedeschi…", gli attori-partigiani vagano fino a quando uno di loro riporta l'ordine gridando: "Popolo d'Italia". Obbedienti a questo comando si dispongono con disciplina e rigidità su due file. "Scena quarta: il fascismo strizza l'Italia" scandisce Judith Malina. Il ritmo si fa incalzante: gli attori, che ora divengono esponenti del movimento futurista, gridano ed esaltano il gesto aggressivo: lo schiaffo e il pugno; elogiano la velocità e la lotta, il pericolo e la guerra, la violenza, pronunciando solenni alcuni punti del Manifesto del Futurismo di Marinetti.22 Allo stesso tempo realizzano con i loro corpi una struttura al centro della scena: due uomini a terra in posizione equina, una donna sale su di loro mettendo un piede sulla schiena di un attore e l'altro su quella del ragazzo vicino. Dà così inizio all'intreccio di corpi umani esaltando la guerra intesa come igiene del mondo, seguita dagli altri che, passando sotto le sue gambe formano un varco, una soglia e si posizionano ai lati. "Non v'è più bellezza che nella lotta!"- urlano, "canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche!"23
La realizzazione di ingranaggi di corpi, di momenti in cui gruppi di attori vengono posti uno di fronte all'altro rappresentando così lo scontro, o di attimi in cui colui che si oppone è in un angolo e tutto il gruppo al lato opposto sono strutture che fanno parte del repertorio visivo del Living Theatre. Rivedendo l'impianto coreografico di Antigone24, possiamo osservare che gli attori seguono una struttura scenica ben definita, atta "a tradurre il testo in una vera e propria partitura fisica e gestuale"25, in cui la struttura di uomini tesse la trama tematica e scenografica, esprimendo la convinzione secondo la quale l'uomo deve essere impavidamente signore dello spazio che occupa e di ciò che sta per creare insieme agli altri.
Ora anche in Resistenza "la massa appare compatta e indistruttibile"26, ma terminato l'elogio al futurismo, l'ingranaggio dei corpi si scompone per procedere in senso circolare con movimenti che si associano facilmente a quelli di meccanismi meccanici: braccia e gambe ruotano in modo simultaneo e rigido. Ma un "No" limpido, urlato verso il pubblico rompe l'ingranaggio umano: dal gruppo dei futuristi un attore avanza da solo più veloce degli altri allontanandosi fino all'angolo. Il "No" del primo resistente è l'espressione del pensiero che fino a quel momento era stato represso dal potere assoluto: egli ha tracciato il suo limite, oltre il quale non può più accettare alcun compromesso. Il suo rifiuto può essere paragonato al duplice "No" di Antigone: no alla vita se non è libera, no alla morte se non è preceduta da ideali e valori. Ancora torna valido un passo della descrizione dell'Antigone del Living compiuta da Mastropasqua:

"Per un momento si determina tra loro una rottura, quando il gruppo è spostato sulla sinistra del palco e un attore isolato occupa la parte destra […]un dissidente si è separato dal gruppo"27

Figurazioni umane, vere e proprie costellazioni28 pongono come oggetto di ricerca la relazione diretta tra corpo, gesto e gli altri elementi costitutivi del teatro: suono, parola, luce; un corpo collettivo, dunque, nel quale concorrono, come spiega Judith Malina,

l'intero potenziale mimico-gestuale del corpo e del volto, le qualità vocali e tutta la gamma di segni e segnali di una comunicazione verbale veramente profonda, […] un tipo di espressività corporea con cui riuscire, come gruppo, a rappresentare il mondo attorno a noi in tutte le sue manifestazioni.29

E non solo gli attori ma anche lo spettatore con il suo linguaggio deve concorrere a creare la comunicazione: pubblico e attori formeranno una linea diagonale che taglia a metà lo spazio scenico, una trincea di corpi che, nella storia della Resistenza, rappresenta la battaglia di Pertuso descritta nel libro di Lazagna come un esempio di lotta resistente.

Le pietre: arma d'offesa, sentiero di pace. Quando i gemiti delle vittime diventano suono di campane.30

A questo punto il "corpo collettivo" si scinde in due gruppi contrapposti: gli attori nelle vesti dei comandanti fascisti raggiungono i partigiani facendo cenno di scagliare contro di loro pietre avvolte da stoffa nera. Chi recita in scena le chiama "pesi", chi guarda comprende il riferimento alle leggi repressive, le stragi, il furto della libertà. Mentre alcuni attori urlano l'insensatezza e la miseria provocata dalle tasse e dai prezzi inaccessibili per la popolazione, altri intrecciano a questa sofferenza quella espressa in uno dei passi più commoventi del libro di Lazagna: un'attore, Christian Vollmer grida: "Vigliacchi, uccideteci!Allora quei cani lanciano quattro bombe a mano; pezzi di carne volarono sul prato. Si udì qualche lamento. Poi seguirono raffiche di mitraglia e colpi di moschetto, finché tutti furono irriconoscibili"31
Dopo la rappresentazione dell'atrocità, la miseria, l'ingiustizia, segue un momento di riflessione. Gli attori, alcuni in piedi, altri accucciati tengono le pietre sopra la testa e chiedono ad alta voce: "Un peso enorme, è così che viviamo? Perché la guerra? Perché l'assassinio?" La signora Castagna, ora, dichiara la sua convinzione anarchica: "Il potere non è mai misericordioso". E alcune voci le fanno eco: "Siamo stati noi a farlo succedere, siamo noi i responsabili!" Lo spettacolo ora giunge a un momento centrale; oltre alla presa di posizione contro il male, il gruppo guardando al presente diviene consapevole del fatto che tutta l'umanità è colpevole. Lo spiega chiaramente Judith Malina, durante il nostro incontro a Rocchetta:

Oggi sappiamo chi è il nemico, ma il nemico siamo anche noi, la nostra voglia di avere una nuova telecamera, l'ultima penna che scrive fluorescente, con la giustificazione che si tratta di cose utili per il nostro lavoro: siamo parte di quello contro cui protestiamo. Sappiamo tutto questo, ma non abbiamo un programma. Quello anarchico è un buon programma di società futura. Ma oggi manca di credibilità. Ed è qui che entra in gioco l'arte e la sua capacità dicostruire il futuro."32

Ora in un momento di raccoglimento nasce la speranza e la reazione contro il potere: "nell'oscurità", annunciano: "cosa fa brillare la lampadina?" All'unisono gli attori rispondono: "La Resistenza!". Dagli involucri neri si estraggono le pietre bianche, ora il loro colore riflette nel buio. L'immagine della luce nell'oscurità ci riporta immediatamente a quella della luce fioca della candela nel casolare montano dei partigiani, o del flebile fuoco acceso per riscaldarsi dopo una camminata tra il ghiaccio e la paura. L'oggetto ha subìto una metamorfosi totale: le pietre inizialmente di colore nero associato simbolicamente al potere assolutista, alla sottomissione, alle tenebre, hanno acquisito tutta la luce possibile: ora sono bianche. Ma tale metamorfosi non è soprattutto espressione dell'eterno duello tra Tenebra e Luce? Non è dunque dimostrazione dell'unità, che si nutre appunto di irrisolvibili accostamenti ossimorici? La pietra bianca ovvero la fonte di luce sorge dalla cavità del sacco nero, simbolo della profonda oscurità, ci dimostra che ogni contrapposizione è in fine unità inscindibile, vive delle sue metamorfosi e conferma che eternamente, "smembramento di furia titanica e unità cosmica si legano, come l'oscuro Dioniso si congiunge allo splendente Apollo, e che ogni ente si riversa in quello a cui deriva e se ne fa creatore."33
La luce vuole raggiungere anche gli spettatori, così si rivolgono a loro offrendo le pietre bianche. L'invito a prendere parte alla lotta è esplicito: "Noi resisteremo, e tu?". La pietra è il loro punto d'incontro, e l'incontro tra loro dà la possibilità allo spettatore di creare azione. Se accetta sarà un partecipante.
Una dopo l'altra, le pietre vengono riposte per terra con le altre formando un sentiero, allegoria della via verso la speranza che guida alla pace.
Solo ora può iniziare la parte sulla Resistenza non armata: la Signora Castagna annuncia: "Il chiasso della battaglia è forte!… ma lì dietro c'è anche un'altra campagna di resistenza…"; quella non armata, in gran parte anonima e tuttora poco conosciuta. L'ensemble da sempre contrappone alla lotta armata un modo diverso di lottare: le voci degli attori suggeriscono: "boicottaggio, sabotaggio, scioperi, manifestazioni popolari, stampa clandestina." Sono questi, infatti, i tipi di lotta non violenta che hanno ricoperto un ruolo importantissimo per la liberazione del paese dagli oppressori. Ed è proprio alla lotta non armata che il Living si è sempre affidato nella sua lunga protesta. Durante la scena sul movimento non armato non manca una voce femminile che ricorda il ruolo di grande rilevanza svolto dalla donna nella Resistenza: "L'assistenza ai ricercati e ai feriti diventa ben presto un fenomeno assai vasto. Condotto da donne" annuncia con orgoglio un'attrice. Il gruppo inizia a commemorare le donne partigiane: ad ogni nome pronunciato viene consegnata una castagna allo spettatore vicino, un piccolo frutto nascosto nel sottobosco, ma come la donna, tanto utile per la sopravvivenza. La dodicesima scena si apre con l'arrivo della pace; tutti fanno sospiri di sollievo annunciando che il nemico è stato sconfitto, non c'è più. Inizia la "danza della pace": con le pietre bianche in mano le braccia e le gambe ondeggiano armoniosamente; i movimenti lenti, i suoni dolci e un atmosfera soave rievocano il suono e il movimento delle campane a festa.

Paradise Now e Resistance: nessun luogo è troppo lontano.

Colui che si spinge oltre i confini non conosce la meta,
non sa dove approderà,
ma quel lontano irraggiungibile porto
è la casa perduta.
Perciò ogni viaggio verso l'ignoto
è un ritorno, ed è insieme fisico e metafisico
come la vita.34

Resist Now è il titolo dello spettacolo collettivo presentato a Genova in occasione del vertice dei Grandi Otto. Il titolo deriva da Resistance ed è analogo a quello del 1968, Paradise Now. L'accostamento di questi tre lavori è possibile soprattutto per quanto riguarda il tema della "non violenza" e, in termini di ricerca teatrale per la creazione di una scenografia di corpi, di colori e suoni che non abbia soltanto finalità estetiche, ma che sia atta a consegnare allo spettatore un linguaggio immediato e istintivamente significativo. In Resistance, come in Paradise Now si può cogliere il comune intento alla trasformazione della realtà attuale attraverso un'immagine utopica: l'ensemble intona un suono estatico e si avvicina ai partecipanti e li conduce al centro dove tutti si mescolano in modo paradisiaco e formano un sentiero di pietre percorso da "angeli che resistono l'ineguaglianza del presente, angeli che danzano la giustizia e la misericordia per il presente ed il futuro"35. In Resistance diviene però più chiara la consapevolezza della propria dimensione utopistica: "sappiamo da sempre che ci sono delle contraddizioni come quella tra ciò che è e ciò che è stato sognato e di cui sogniamo la riconciliazione." Tendere verso il sogno significa che la vita, il pensiero, le azioni sono animati dall'intento di raggiungere il punto più vicino all'impossibile.
Ora un attore, Tom Walker dà inizio all'ultima scena e intona un canto: "Sempre più vicini ad una musica nuova, sempre più vicini al mondo di là." L'immagine di utopia torna e viene a costituire l'insieme di ideali che guidano il percorso della propria vita e della vita sociale; per questo gli attori con alcuni spettatori escono dallo spazio scenico camminando sul sentiero di pietre. E dove porta questo sentiero? E' la rincorsa per spiccare il volo? Non è forse per mutare la propria condizione umana che l'uomo si rivolge verso l'alto per raggiungere il suo stato originario, ciò che lo conduce all'unione totale con la terra e l'aria? Quel volo doveva essere il risultato finale di Paradise Now che come ora voleva guidare verso la realizzazione terrena di un "mondo di là" attraverso una ricerca-viaggio dell'uomo di teatro che cerca le sue origini e del resistente che cerca la sua patria perduta, per questo sul sentiero di Resistance si incamminano nella direzione da cui sono arrivati.

NOTE
 
1. Bertold Brecht, "La crociata dei ragazzi", in Poesie e Canzoni, Einaudi, Torino, 1961, p. 155
2. Resistance: rappresentato per la prima volta in Italia il 29 luglio 2001 a Novi Ligure
3. Giambattista Lazagna, Ponte Rotto, Edizioni Colibrì, Milano, 1996, p.102
4. Ribelli venivano chiamati i primi partigiani che si opponevano al regime fascista.
5. Giambattista Lazagna, Ponte Rotto, Edizioni colibrì, Milano, 1996, p. 32
6. Dal copione di "Resistenza", Scena 15: La Resistenza al servizio del Pianeta, p. 14
7. Julian Beck, Theandric, Edizioni Socrates, Roma, 1994, p. 216
8. Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, 1968, p. 238
9. Angelus Novus: dipinto di Paul Kee nel
10. Walter Benjamin comprò Angelus Novus nel 1921, col quale egli si identificava profondamente. Numerosi sono anche i riferimenti al dipinto in suoi saggi o scritti
11. Frankentein del Living Theatre, spettacolo rappresentato per la prima volta in Italia alla Biennale di Venezia nel 1965
12. Anna Maria Monteverdi, Frankenstein del Living Theatre, Biblioteca Franco Serantini, Pisa, 2002, p. 62
13. Giambattista Lazagna, Ponte Rotto, Ed. Colibrì, Milano, 1996, p. 38-39
14. Alessandro Fersen, Il Teatro, dopo, Laterza, Bari, 1980, p. 117
15. Julian Beck, La vita del Teatro - L'artista e la lotta del popolo, Einaudi, 1975, p. 81-82
16. Julian Beck, La vita del Teatro - L'artista e la lotta del popolo, Einaudi, 1975, p 67
17. Alessandro Fersen, Il teatro, dopo, Laterza, 1980, p. 97
18. A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 1968, pp. 236-37
19. Fernando Mastropasqua, Contro il Teatro, in In cammino verso Amleto, Biblioteca Franco Serrrantini, Pisa, 2000, p. 125
20. Fernando Mastropasqua, La Creatura ovvero il Teatro del Vivente, Postfazione a Anna Maria Monteverdi, Frankenstein del Living Theatre, Biblioteca Franco Serrantini, Pisa, 2002, p. 165
21. Dal copione di Resistenza donatomi da Stefano Striano, attore del Living Theatre.
22. Filippo Tommaso Marinetti: il 20 febbraio 1909 fa pubblicare il suo primo scritto sulle idee futuriste sul giornale francese Le Figaro. Oltre a numerosi manifesti sulla pittura, danza e musica futuriste, nel 1933 viene stilato da Marinetti un Manifesto del Teatro Radiofonico che prevede l'uso della radio per una nuova forma di conunicazione artistica dche abolendo l spazio cominci "dove cessano il teatro , il cinematografo e la narrazione", con la "utilizzazione delle interferenze tra stazioni e del sorgere e della evanescenza dei suoni" e con la "captazione amplificazione e trasfigurazione di vibrazioni emesse dalla materia".
23. Tratto dal Manifesto del Futurismo di Marinetti, 1909. Vedi anche copione di "Resistenza"; scena 4, p. 2
24. Antigone del Living Theatre, rappresentato per la prima volta in Italia a Roma nel 1967
25. Cristina Valenti, Conversazioni con Judith Malina, edizioni Elèuthera, Milano, 1995, p. 173
26. Fernando Mastropasqua, "Guardare lo spettatore: L'incipit dell'Antigone del Living Theatre", in F. Mastropasqua, Maschera e Rivoluzione, Biblioteca Universale Utopie, Pisa, 1999, p.120
27. Fernando Mastropasqua, "Guardare lo spettatore: L'incipit dell'Antigone del Living Theatre", in F. Mastropasqua, Maschera e Rivoluzione, Biblioteca Universale Utopie, Pisa, 1999, p. 119
28. Vengono così definite da Giuseppe Bartolucci, Il Living Theatre, Roma, Samonà e Savelli, 1970, p. 54
29. Cristina Valenti, Conversazioni con Judith Malina, Elèuthera, Milano, 1998, p. 175-176
30. Nota di regia di Frankenstein (Versione di Venezia), Berlino, set. 1965, in Julian Beck, Judith Malina, Il lavoro del Living Theatre, p. 180
31. Giambattista Lazagna, Ponte Rotto, Edizioni Colibrì, Milano, 1996, p. 117-118
32. Intervista a Judith Malina, 28 luglio 2001. Registrazione video.
33. Fernando Mastropasqua, Metamorfosi del Teatro, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1998, p. 107
34. Fernando Mastropasqua, In cammino verso Amleto, Biblioteca Franco Serantini, Pisa, 2002, p. 11
35. Dal copione di Resistance, p. 15


tekno-teatro-logie
Non sul convegno Prospective des Arts dans la Technologie
di Emanuele Quinz

Il convegno Prospective des Arts dans la Technologie, tenutosi il 21 giugno 2002, si inserisce in una ricca giornata di studi sul tema Scénographie et Technologie, organizzata a Parigi, alla Bibliothèque Nazionale de France, in occasione dell’esposizione consacrata a Jacques Polieri, uno dei pionieri della scenografia contemporanea. L’obiettivo del convegno è di esplorare le prospettive aperte dalle tecnologie digitali per le arti sceniche.

1_ Sally Jane Norman _ Numérique et Art Vivant
2_ Franck Bauchard _ Hypermédiatisation du théâtre
3_ Derrick de Kerckhove _ Sur la théâtralité paradoxale de l’écran
4_ Maurice Benayoun _ De l’art de la situation à la scénographie organique


1_
Direttrice dell’Ecole Supérieure de l’Image d’Angoul_ême (F), Sally Jane Norman inizia il suo intervento sottolineando che non esiste un teatro, ma dei teatri, una pluralità di proposizioni e di definizioni del teatro. Ma, al di là della molteplicità e della diversità delle applicazioni, è forse possibile identificare una funzione di base del teatro, che, secondo Norman, non sarebbe di rappresentare le dinamiche del vivente, ma piuttosto di “modelizzare” gli stati e i comportamenti del vivente.
In questo senso, più che “art vivant” il teatro si definisce come “art du vivant”. Facendo riferimento alla nozione di Skene-Biotope di Louis Bec (la scena come un ambiente artificiale in cui sono immersi degli organismi-modello), Norman insiste sul termine di “modelizzazione”. In particolare, nel contesto attuale, nel momento in cui il teatro comincia a confrontarsi con le tecnologie digitali, questo concetto assume un ruolo decisamente centrale: modellizzazione come programmazione, come scrittura algoritmica dei comportamenti.
Secondo Norman, l’apporto più profondo delle tecnologie digitali non è da cercarsi nella possibilità di un controllo molecolare (nano-metrico, e gigante-metrico) della materia, ma nella capacità di gestione, di programmazione (appunto di modellizzazione) dei gesti, dei comportamenti e di conseguenza delle relazioni.
Nella scena-biotopo, le relazioni di prossimità sono allo stesso tempo relazioni prossemiche. Ciò implica una definizione della scena come luogo di una con-divisione tra diversi soggetti, come eco-sistema. A questo punto diventa fondamentale l’indagine sulle modalità di questa condivisione, sulle strategie della connessione, della contiguità e della comunicazione. Parallelamente, la sperimentazione di nuovi dispositivi scenici corrisponde fondamentalmente ad un’esplorazione di quelli che Norman chiama “registri della presenza”.
Per confortare queste sue affermazioni, Norman descrive una serie di workshop da lei guidati in diverse sedi (Institut International de la Marionnette di Charleville-Mézières, ZKM, etc.), in cui, attraverso dei sistemi sempre più complessi di Motion Capture, gli attori animano delle ‘ombre elettroniche’ su di uno schermo. Se nei primi esempi la figura virtuale risponde in modo speculare al movimento dell’attore cablato, negli esempi più recenti essa inizia ad trovare delle zone di autonomia. La relazione che s’instaura tra l’attore e la sua ombra elettronica si modifica, perché lo statuto dell’ombra elettronica muta: da specchio a quasi-soggetto. Il percorso illustrato da Norman, una sorta di “archeologia della motion-capture” mostra che l’evoluzione di questi sistemi non va semplicemente valutata rispetto all’aumento della ‘fedeltà’, della precisione millimetrica della registrazione del gesto e della sua trasmissione, ma va (paradossalmente) identificata nella progressiva autonomia, o meglio nel complesso rapporto di instabilità (sospeso tra l’aderenza e la distanza) tra la figura virtuale e il corpo reale.
In questo senso, la scena digitale diventa universo di relazioni, “luogo di palpitazione sociale”, che non intende in nessun modo sostituirsi agli altri luoghi storici della socialità, ma che propone un sistema particolare di relazioni, “modellizzate”: scena digitale come biotopo della vita artificiale, e allo stesso tempo come biotopo artificiale della vita.

2_
Franck Bauchard, ispettore per il teatro presso il Ministère de la Culture e saggista, sostiene che è necessario situare le esperienze sceniche che utilizzano le tecnologie all’interno di un contesto critico complesso. Il teatro e in generale le arti della scena sono da sempre il luogo privilegiato di convergenze multiformi tra le arti e i linguaggi, sono quindi delle pratiche “dense”, espressioni della complessità. Oggi, in un contesto socio-culturale in cui le tecnologie hanno un ruolo dominante, la scena risponde alla sfida di altre convergenze (tra cui quelle tra reale e virtuale, o tra arte e scienza). La scena non solo integra le tecnologie come nuovi strumenti, ma anche come nuove problematiche: spettacolarizzazione dell’universo tecno-logico.
Ma siamo in una fase embrionale: le tensioni di questo mutamento in atto ci mostrano che le arti della scena restano ancora impigliate in una sorta d’incubazione, di interzona, in cui i sintomi delle mutazioni iniziano ad affiorare, a tratti, a volte in modo confuso o precario.
Con l’obiettivo di mettere un po’ d’ordine in questo universo nebuloso, Bauchard propone di analizzare il processo di mutazione della scena secondo tre categorie:
- (Ars) ri-combinatoria
- trasmutazione
- inter-medialità.
Il modello ricombinatorio ha radici antiche: prelievo di dettagli, di frammenti di testi da riutilizzare poi come materia di un nuovo assemblaggio. Riciclaggio testuale, neo-barocco. Il repertorio dei testi (letterari, musicali, iconici, video…), i documenti e i monumenti artistici diventano cellule di montaggio. Questo processo implica una profonda contaminazione tra i codici. Come nella biologia molecolare o nella genetica, nuovi organismi possono nascere dalla manipolazione dei codici e delle cellule, così nella scena digitale si opera un’ibridazione tra reale e virtuale, “tra il teatro della vita quotidiana e le immagini virtuali” (secondo i termini del Critical Art Ensemble): mixed-reality come mixage, come pratica post-moderna.
Se l’ars ri-combinatoria è un modello biologico, la trasmutazione è piuttosto un modello alchemico. Prendendo come esempio la Trans-architettura definita di Markos Novak, Bauchard sottolinea che la materia oltre a ricombinarsi, può cambiare stato, da solida divenire liquida… Dimensione alchemica appunto: una sostanza si trasforma in un'altra sostanza. Mutamento qualitativo. Se il primo modello di mutazione operava soprattutto sull’asse dello spazio, il secondo s’inserisce piuttosto sull’asse del tempo.
Il terzo modello proposto parte dal celebre assunto di McLuhan, secondo il quale il contenuto di un medium è un altro medium. L’intermedialità sarebbe “la rappresentazione di un medium in un altro medium”. Struttura a cerchi concentrici, che esibisce la permeabilità dei media, la loro instabilità, la loro reversibilità.

Risultato di una dinamica ricombinatoria, di una serie di meccanismi di montaggio, di transcodifiche e di imbricazioni inter-mediali, il teatro deve ancora riformare la sua pelle dopo la contaminazione con le tecno-logie. E, conclude Bauchard, questa sospensione del teatro in una posizione di disequilibrio, di fluttuazione, di effervescenza paradossalmente non lo fragilizza, ma lo rinforza, facendone per eccellenza l’arte del ‘momento’.

«Les nouveaux médias n’interviennent pas comme des perturbations extérieures et périphériques aux arts. Ils se greffent sur des contextes artistiques et culturels et sont l’objet de stratégies de captation visant à redéfinir les positionnement esthétiques, sociaux et économiques des arts. Le numérique développe une micropolitique des arts qui cherche à démultiplier leurs possibilités d’inscriptions dans la société.
Cette vision se croise avec une relecture de l’histoire de l’art envisagée comme une confrontation permanente entre deux rapports aux réels : l’un immédiat qui efface toute trace de médiation dans son rapport au public - de la perspective au théâtre de l’illusion, de la photographie à la réalité virtuelle - l’autre exhibant au contraire les signes de médiation pour en faire l’objet même de l’œuvre - des incunables au photomontage, du collage à la scène constructiviste.
Dans la première composante, la présence médiatrice de l’artiste et du processus de création s’effacent pour montrer la chose même, permettant ainsi au spectateur de faire une expérience authentique.
La Réalité Virtuelle dans son ambition d’effacer la présence médiatrice de l’ordinateur et de ses interfaces rendant la technologie pour ainsi dire transparente renoue ainsi avec .
L’hypermédia s’exprime en revanche à travers une multiplicité d’actes de représentation au sein d’un même acte artistique . Cette stratégie participe à multiplier et à rendre visible les signes de médiation et à créer des espaces hétérogènes.
Après avoir été intrigué par les phénomènes de recomposition hypertextuelle du théâtre - à travers les tentatives d’hyperdrame, de théâtres combinatoires...- et les phénomènes de recomposition théâtrale de l’hypertexte - avec notamment le recours à l’esthétique aristotélicienne dans l’écriture hypertextuelle -, comme si la dislocation du théâtre s’accompagnait de sa relocalisation sur une scène virtuelle - on peut se demander si on ne pourrait pas parler aussi de recomposition hypermédiatique du théâtre qui se combinerait avec une recomposition théâtrale des hypermédias. Le ready made d’Internet sur scène que proposait Hotel Pro Forma dans Site seeing zoom coexiste ainsi avec des premières tentatives de théâtre en ligne interactif. Mais le recours aux nouvelles technologies au théâtre peut tout à fait se combiner avec une esthétique de l’illusion, dans la tradition de la scène machinée du théâtre baroque, proposant ainsi une immédiateté augmentée ».


3_
Estremamente denso, l’intervento di Derrick de Kerckhove, direttore del Progetto McLuhan a Toronto, cerca di definire la “teatralità paradossale dello schermo”.
Secondo de Kerckhove, in modo diverso dalla scrittura, il teatro ha la funzione di costruire dei modelli esteriori (o esteriorizzati) dell’universo interiore (psiche). Ma questa esteriorizzazione può assumere diverse forme. In particolare, oggi ritorna attuale l’opposizione tra due visioni del teatro. de Kerckhove cita Brecht e Artaud. Se da una parte Brecht persegue la poetica dell’Entfremdung, della distanza (critica) tra scena e pubblica, dall’altra Artaud definisce il teatro come immersione sensitiva, polisensoriale, come esperienza vissuta. Ora lo schermo come nuova scena ripropone questa opposizione, almeno a cinque livelli diversi: spazio-temporale, sensoriale, epistemologico, cognitivo, sociale.
Il teatro come “momento transitorio dell’interiorità” si oppone alla fissità del testo scritto, ma entrambi sono sistemi basati su di una separazione tra soggetto e oggetto, tra mondo interiore e superficie esteriore. Ora, lo schermo rivoluziona il rapporto che il ricettore instaura con l’informazione: non più oggetto, l’immagine sullo schermo è un’esteriorizzazione condivisa e quindi non più intima. Secondo de Kerckhove con la televisione e con le reti, non si opera un fenomeno di co-soggettivazione, come pensano alcuni, ma di co-oggettività, di coalescenza tra oggetti. Lo schermo è contagioso: come diceva già Baudrillard, lo spazio si appiattisce, tutto diventa superficie, tutto diventa schermo.
A livello sensoriale, come sottolineava McLuhan, passiamo da un regime ottico ad un sistema dominato dal tatto: lo schermo è una grande immagine tattile, che ci tocca, che noi tocchiamo. I sistemi immersivi, a partire dal Dolby-Surround, amplificano questa sensazione di relazione fisica, di prossimità, di presenza, e soprattutto di con-tatto. Il mondo audiovisivo, dice de Kerckhove, si offre come una superficie tattile, che attende le nostre interazioni.
Ugualmente, il web può essere definito come un serbatoio cognitivo disponibile a tutti. Come un’esteriorizzazione degli oggetti mentali.
Gli oggetti mentali descritti da J.P. Changeux come unità allo stesso tempo percettuali e concettuali si identificano con gli oggetti digitali, materia fluida d’informazione disponibile e manipolabile.
Questa apertura delle reti alla comunità planetaria, ridisegna la geografia della conoscenza e della produzione dell’informazione. Riconfigurazione epistemologica, ma anche sociale. Dal broadcasting al net-casting: l’informazione è disponibile a tutti, è vero, ma nel modo privilegiato dell’accesso individuale. Internet in questo è diverso dalla televisione, in quanto separa il soggetto collettivo dal soggetto individuale. Su questo punto, de Kerckhove sottolinea la sua distanza dalla teorizzazione dell’intelligenza collettiva di Pierre Lévy.
Per concludere, riprendendo l’opposizione tra Brecht e Artaud, tra distanza critica e immersione sensoriale, de Kerckhove si augura che il teatro sia oggi capace di trovare una posizione di equilibrio tra queste due posizioni e di rispondere alla sfida delle “arti dello schermo”, non diventandone ostaggio, ma proponendo nuovi suggestivi modi di “esteriorizzazione” del nostro capitale immaginario e cognitivo.

_4
Secondo il mito, i pittori greci Zeusi e Parrasio si sfidarono a chi riusciva a realizzare il dipinto più vicino al vero. La giuria si trova di fronte due opere coperte da veli. Zeusi scopre il suo quadro: una natura morta così realistica che gli uccelli si avvicinano per becchettare l’uva dipinta. Parrasio, sorridendo, propone a Zeusi di levare il velo alla sua opera. Zeusi, quando prova a sollevare il velo si accorge che esso è dipinto, che esso è il dipinto.
Secondo Maurice Benayoun, questo mito può essere considerato come fondatore dell’arte interattiva: l’opera di Parrasio senza il gesto di Zeusi, il gesto che viene poi ingannato, non ha valore, non esiste. L’opera interattiva è questo: un oggetto più un gesto.
L’artista sposta l’asse della discussione, ma con coscienza: dalle arti performative alle arti plastiche, dalla scena alle installazioni interattive. Del resto, se è il gesto che definisce l’opera in quanto interattiva, un residuo di performatività riconfigura in profondità l’esperienza estetica attuale.
Attraverso una descrizione delle sue installazioni di realtà virtuale più famose come il Tunnel sous L’Atlantique e World Skin (cave realizzata con Jean-Baptiste Barrière, premio Ars Electronica 1998), Benayoun illustra la complessità degli ambienti immersivi. Non solo spazi, ma soprattutto “situazioni”, tali dispositivi modificano l’esperienza della realtà. Sfiorando da lontano l’utopismon che ha caratterizzato i primi manifesti della cybercultura, Benayoun si avvicina alla definizione di Sally Jane Norman e parla dell’immersione come “scenografia organica”, come ecosistema informativo e informatico, in cui lo spettatore può sperimentare nuove forme di contatto non solo con delle figurazioni sintetiche (Dieu est-il plat?), ma anche con la sua storia (World Skin) e con le altre culture (Tunnel sous L’Atlantique).

_5 CONCLUSIONI

Dall’incontro con le tecno-logie, sembra emergere una nozione di scena espansa, in sospensione tra la frontalità (che non si estingue, malgrado tutto) e l’immersione. Ma soprattutto emerge una definizione della scena come ambiente relazionale, evolutivo. Non più oggetto spettacolare, “récit” consequenziale e compiuto, ma matrice di eventi, di drammaturgie potenziali. Lo spettatore non è semplicemente attore, ma protagonista di un processo di adattamento o meglio di auto-poiesi, all’interno di un sistema chiuso ma dinamico.
In realtà questa nozione espansa di scena si applica più agli ambienti interattivi, alle installazioni di realtà aumentata o virtuale, come implicitamente segnala l’intervento di Benayoun, che alle sperimentazioni sceniche attuali.
Del resto come monito è stato evocata l’amara constatazione seguita alle esperienze di Polieri, che tanto si è industriato per creare dei sistemi scenografici immersivi, di sale sferiche, “del movimento totale”: l’unico teatro circolare realizzato (a Grenoble, negli anni 60), in cui gli spettatori sedevano al centro ed erano totalmente circondati dall’azione, è stato utilizzato solo una volta. Dopo il primo spettacolo, sono state immediatamente aggiunte delle pareti per ricreare la prospettiva scenica frontale…
Significa forse, per riprendere la provocazione di de Kerckhove, che Brecht sia destinato a vincere su Artaud? Che l’immersione non sia “teatrale”? che la “distanza critica” sia indispensabile al teatro?
Questa la questione di fondo, emersa nel dibattito. Forse ancora una volta si tratta di trovare una mediazione, una posizione di equilibrio: ma è possibile mantenere una prospettiva critica in un sistema immersivo? Forse, a condizione che non sia “troppo” immersivo: dalle realtà virtuali alle realtà aumentate, alle mixed realities.
La questione resta aperta. In ogni caso, nonostante tutto, ciascuno degli intervenuti ha cercato di trovare una definizione di teatro: come “esteriorizzazione dei fenomeni interiori” (de Kerckhove); come “spettacolarizzazione dell’attuale (inteso in senso temporale e in senso “tecnologico”, in opposizione a virtuale: Bauchard); come “situazione” o come “scenografia organica” (Benayoun); o come “modellizzazione del vivente” (Norman). Definizioni molto diverse, ma tutte suggestive, tutte da esplorare in profondità.
Le difficoltà derivano senza dubbio dal fatto che il sistema delle arti è oggi estremamente composito e complesso. I progetti creativi sono ibridi, eterocliti, stratificati, multi-supporto. Forse in questo contesto non ha più senso parlare di “teatro”, forse sarebbe meglio parlare semplicemente di “teatralità”, e cercare di identificarne le tracce nelle opere artistiche contemporanee. Forse bisognerebbe continuare a cercare, come dicono alcuni, al di là dell’impatto tecnologico, le radici antiche dell’espressività.

(Un ringraziamento a Anna Maria Monteverdi, Franck Ancel, Susanna Lotz, e Franck Bauchard).


DNE = Descrambling Nova Express
progetto flash su http://digilander.iol.it/wang/
dedicato all'opera di William Burroughs

di Mariano Equizzi


 

Sono sempre stato attratto da WSB, dal fatto che sia stato un pò il pappa (pardon il papà) di un certo tipo di SF.
Mi piace il fatto che contestualizza avventura, incubo, allucinazione e molti altri elementi della letteratura Pulp in uno scenario contemporaneo, mescolando noir, horror, avventura, sesso.
E' stupendo.
La cosa che mi invece sempre spaventato è stato il suo literary warfare.
Credo che WSB fosse un uomo che conosceva, o aveva accesso a delle conoscenze riservate che in una certa misura possiamo chiamare paranoia, ma che se studiassimo i testi tecnici e tattici della CIA e dell'FBI ci accorgeremmo che sono realtà scientifica.
Ultimamente ho letto tramite FTP un manuale dei trucchi sporchi FBI per far parlare le persone. Se fosse stato scritto da WSB non mi sarei meravigliato.
 
Queste conoscenze "riservate", cui aveva accesso o che immaginava, dovevano essere scramblerizzate, sottoposte ad una crittografia, come spiega ne La rivoluzione elettronica; lui stesso considerava il mestiere dello scrittore il più pericoloso....
Il cut up più che un mezzo artistico appare, in questa visione, come un mezzo per nascondere conoscenze riservate, verità sporche (come l'Argot degli architetti delle cattedrali serviva per nascondere segreti da non divulgare).
   
DNE ha lo scopo di descramblerizzare, di svelare Nova Express, che nella forma di lettura che tutti conosciamo è invece scramblerizzato, nascosto.
La volgarizzazione di WSB è sempre passata attraverso sue biografie spurie (Il pasto nudo di David Cronenberg), volevo riuscire a raccontare una storia di WSB senza raccontare la sua vita, voglio riuscire a raccontare una avventura di WSB senza nasconderla, senza trasformarla in un piacevole pastrocchio grafico-verbale per pochi.
Ho immaginato un agente, Leonov, che scopre che il complotto NOVA esiste davvero, che l'uomo che ha sempre protetto insieme ai suoi compagni è uno della Banda NOVA, è un punto di coordinamento per l'ingresso nella nostra realtà  della banda nova stessa.
A questo punto DNE svela la vena pulp avventurosa di WSB, evidentemente mutuata della letteratura popolare americana degli anni '50, duri, drogati, gentaglia, spie: una fauna degna dell'Interzona.
Altro punto affascinante di WSB è che ha creato un vero e proprio "Platform Game" della paranoia, una geografia alternativa ispirata alle vicende della pirateria Islamica del 16° secolo e miscelata con le moderne paranoie del complotto internazionale.
    DNE è pensato per due formati, il primo è una performance videoteatrale giocata con Loop video brevi, ma intellegibili, lanciati da tastiere MIDI che ovviamente controllano anche la musica e il parlato (progetto di Paolo Bigazzi / Iter Research).
Il pubblico è circondato da casse perimetrali che con la tecnica del Cut Up  raccontano la storia, che invece sullo schermo è spezzettata con la tecnica del flashback-flashforward (schema nel flash), ci sono anche le classiche casse a fondo schermi che emettono suoni, musica ed effetti.
Il secondo formato è quello di un video lineare di circa 25minuti, un "cortometraggio" con le avventure dell'Agente Leonov e della sua lotta contro la Banda Nova che sto girando in questi giorni in mini DV e webcam (presto su www.ntxt.it).
La cosa che mi esalta di lavorare su di un grande dell'underground è vedere come ha sovvertito in modo folle, ma intelligente, provocativo, il viaggio dell'eroe.
Secondo l'assunto "Niente è vero tutto è permesso" non ci sono eroi senza macchia, icone crociate alla Luke Skywalker, ma esistono invece bastardi atomici che per curare il male affondano loro stessi nel male peggiore, si fondono ad esso senza via di uscita.
Credo che questa sia realtà più che science fiction.
 
L'agente Leonov è interpretato da Giuseppe Sansone
Rose Vath è interpretata da Chiara Leone
Le Body Guards sono il Pitbull Wargame Group
Produzione Luca Liggio (2LP), Napalm, Iter Research.
Suono e Musica Paolo Bigazzi
Le coreografie di azione sono a cura di Franco Montana Distribuzione WEB www.ntxt.it/INTERACT
 
web linX
# il flash di DNE
# sito dell'autore
# the next text project
# iter-research
# www.fantascienza.com (search consigliata)


W.S. Burroughs: istruzioni per l’uso (1)
di Fabio Nardini
 
Il programma dell’élite di governo in 1984 di Orwell era: “Un piede premuto per sempre su un volto umano!”. Questo è naif e ottimistico. Nessuna specie può sopravvivere per nemmeno una generazione sotto un programma simile. Questo non è un programma di dominio eterno, o anche solo molto lungo. E’ chiaramente un programma di sterminio
William S. Burroughs Terre occidentali

 
Un virus ha lentamente infettato il corpo della cultura di fine (e inizio) millennio: un virus dalle movenze eleganti, dalla sintomatologia oscura, così elusivo da sembrare invisibile. Ha un nome: si chiama William Seward Burroughs.
Nato nel 1914 a S. Louis, nel Missouri (USA), tossicomane per molti anni, fanatico di armi da fuoco, amico intimo di Jack Kerouac, Burroughs si avvicina relativamente tardi alla scrittura: il suo primo romanzo, Junkie, lo scrive all’età di trentasei anni. Poco dopo uccide la moglie in un incidente rimasto oscuro e si trasferisce a Tangeri, abbandonandosi sempre più all’uso di droghe pesanti (morfina ed eroina).
Burroughs - sia detto per inciso - non ama gli oppiacei. Ecco come racconta, anni dopo, la sua condizione di tossicomane: “Vivevo in una stanza nel quartiere indigeno di Tangeri. Non avevo fatto un bagno in un anno né cambiato vestiti né mai tolti salvo che per infilarmi un ago ogni ora nella fibrosa grigia legnosa carne della tossicomania terminale. (…) Se un amico veniva a trovarmi - e di rado lo facevano visto chi o che cosa restava da essere trovato - restavo lì seduto senza curarmi che lui era entrato nel mio campo visivo - uno schermo grigio sempre più vuoto e più tenue - e senza curarmi che se ne andasse. Se fosse morto sul colpo sarei rimasto a guardarmi le scarpe in attesa di andargli a frugare le tasche. E voi no? Perché non avevo mai abbastanza droga - nessuno ne ha mai” 1.
Il mondo della droga appare come un’esemplificazione dell’universo del controllo totale.
“La droga - scrive sempre Burroughs nella Prefazione a Il pasto nudo 2 - è il modello del monopolio e del possesso. E’ il prodotto ideale… la merce finale. Nessuna propaganda è richiesta. Il cliente striscerebbe su da una fognatura a supplicare di comprar. Il mercante di droga non vende il suo prodotto al consumatore, lui vende il consumatore al suo prodotto”.
Il pasto nudo, il testo scritto negli anni della tossicomania più disperata, inocula nel tessuto letterario il virus Burroughs.
Difficile definirlo un “romanzo”: pur essendo stato profondamente rivisto da Kerouac e Ginsberg - che lavorarono per mesi sulla massa di pagine disperse che costituiva il manoscritto originale - Il pasto nudo sembra rifiutare qualsiasi forma di linearità narrativa a vantaggio di una progressione frammentaria che fa germinare continuamente situazioni, personaggi, immagini, abbozzi di storie… Eppure non c’è nulla di caotico, in questo come in tutti gli altri volumi di Burroughs. Le figure che ne attraversano le pagine - il dottor Benway, i Mugwump, William Lee - sono funzioni di quell’algebra del bisogno che è il centro del libro; la dipendenza dalla droga, la Malattia, come metafora di una condizione di mercificazione, controllo, spossessamento, alienazione.
Benché abbia proceduto per tagli e ricomposizioni, scrivendo Il pasto nudo Burroughs non ha utilizzato coscientemente la tecnica del cut-up, che sarà inventata qualche anno dopo, principalmente grazie a Brion Gysin.
Che cos’è un cut-up?
 
“La Metodica cut-up dona allo scrittore il collage, praticato dai pittori da almeno cinquant’anni, usato dalle cineprese, fisse o in movimento. Ogni ripresa per strada è, nei fatti Cut-up, per gli imprevedibili fattori del traffico e delle entrate in campo. E i fotografi vi confermeranno come le loro migliori immagini siano spesso fortuite…e altrettanto gli scrittori.
Il metodo è banale. Vi insegno un modo per agire. Prendete una pagina. Come questa pagina. Ora tagliatela a metà, e ancora a metà. Avete quattro ritagli: 1 2 3 4…Ora ricomponete i ritagli accostando il quattro con l’uno, il due con il tre. Avete una nuova pagina. Talvolta dice le stesse cose, qualche volta dice cose del tutto diverse - il cut-up dei discorsi politici è un’interessante esercizio” 3.

 
Il cut-up è l’arma biologica vincente, quella che ha permesso al virus Burroughs di infettare così in profondità l’organismo della cultura contemporanea. Una cosa molto semplice: taglia-e-incolla.
Vi ricorda niente?
Fare montaggio cinematografico, manovrare un telecomando della televisione, cliccare quando appare la manina sullo schermo del computer sono tutti atti molto molto simili a un cut-up burroughsiano.
D’accordo, il casuale nell’arte aveva fatto la sua comparsa già all’epoca delle avanguardie storiche. Per restare nell’ambito “letterario”, è lo stesso Gysin a ricordare che “in una riunione surrealista, negli anni Venti, Tristan Tzara, l’uomo del nulla, propose la creazione seduta stante di una poesia mediante l’estrazione di parole da un cappello. Il tumulto che ne seguì portò alla distruzione del teatro” 4.
Burroughs, però, sistematizza ed esplicita una pratica fino ad allora soltanto occasionale. Il cut-up è qualcosa di più di un tecnica di scrittura sperimentale, simile al “cadavere squisito” inventato dai surrealisti; è una tecnologia di sovversione della parola, un semplice ma efficacissimo meccanismo che corrode, altera, rovescia ogni discorso. E’ un virus anarcoide e incontrollabile. La sua rapida diffusione nel tessuto culturale contemporaneo si basa sul fatto che l’organismo infettato era già predisposto all’azione del virus. Le tecnologie della comunicazione elaborate nel ‘900 sono tutte centrare sul taglio e sulla ricomposizione di un materiale testuale preesistente (o addirittura, nella diretta televisiva, un materiale grezzo assemblato sul momento): dal cinema, alla televisione, ai programmi per computer, al Web.
Non bisogna però pensare, soltanto perché l’organismo ospite era predisposto ad accogliere il virus, che l’infezione sia innocua o facilmente riassorbibile. Al contrario. Così come possedere recettori efficaci per gli oppiacei rende tanto tremenda la tossicomania, così l’esistenza di profondi meccanismi assemblatori nella cultura contemporanea rende il cut-up distruttivo e sovvertitore. Analogamente, è la facilità con la quale la tecnologia digitale permette la libera riproduzione di copie a rendere tanto feroce la questione del copyright.
Il carattere virale di Burroughs ha permesso di evitare facilmente ogni forma di mummificazione artistica; mentre la beat generation veniva riassorbita in una sottosezione del grande catalogo della cultura-merce (per la precisione, la sottosezione dal titolo “Ribellione giovanile”), Burroughs, più anziano della maggior parte dei beat, continuava la sua esistenza di hombre invisible. La difficoltà di lettura dei suoi testi (dei quali, tra l’altro, solo Il pasto nudo ha raggiunto una certa notorietà) lo teneva al riparo da una visibilità che poteva soltanto danneggiare la sua opera di virus ad azione lenta. Neppure la trasposizione cinematografica del suo romanzo più conosciuto, realizzata da Cronemberg all’inizio degli anni Novanta; nemmeno la riscoperta del nostro scrittore durante gli ultimi dieci-quindici anni, è riuscita a disinnescare la carica infettiva del virus. Di più: nemmeno la morte di William S. Burroughs - un evento del tutto trascurabile nella storia dell’omonimo virus - ha fatto sì che la merce mediale riuscisse a riassorbire il cancro burroughsiano.
Viene da chiedersi cosa ci sia di tanto ostico in uno scrittore di dubbia leggibilità, tossicomane ma contrario all’uso di droghe pesanti, omosessuale ma sposato e con un figlio, rampollo degenere di una famiglia della buona borghesia americana.
Per capirlo, occorre forse leggere un testo non letterario - non credo che la distinzione abbia senso per gli scritti di questo autore, ma prendiamola per buona - “The electronic revolution”, del 1970. Si tratta di un vero e proprio manuale di sovversione mediatica, utopistico e folle ma fin troppo lucido nell’analisi di quella forma di società tardocapitalistica che si andava proprio allora edificando (e che pochi anni prima Guy Debord aveva chiamato “società dello spettacolo”).
Burroughs parte dall’idea che il linguaggio è un virus: “Nella Rivoluzione elettronica avanzo la teoria che il virus è una piccola unità di parola e immagine”. Un virus ha la tendenza innata ad autoreplicarsi, infettando un organismo ospite. La mente umana è l’organismo scelto dal virus del linguaggio per autopropagarsi. Questa bizzarra teoria - che era già stata avanzata, in modo più criptico, ne Il pasto nudo e nei successivi due romanzi La morbida macchina e Nova express - offre la base per una pratica di scardinamento di ogni linguaggio autoritario, di ogni forma comunicante a senso unico.
“Il controllo dei mass media dipende da certe linee di associazioni. Quando queste linee sono tagliate le associazioni si spezzano. Potete tagliare le linee del chiacchiericcio mediatico e creare nuove linee in contatto in contatto con la strada, tramite un semplice registratore a nastro.Suggerisco che la stampa underground adotti l’uso di tecniche di cut-up. Per esempio, preparare un cut-up dei peggiori politici reazionari e metterci intorno le peggiori immagini che riuscite a trovare” 5.
Questo che “è un’estensione del metodo cut-up” è il nucleo della tecnologia sovversiva di William Burroughs. In sostanza: frantumare il discorso dell’avversario rivoltaglielo contro. “Scrambled”, cioè rimescolando e quindi facendo saltare la comunicazione: “un’arma per confondere e annullare le linee di associazione messe in campo dai media”.
Tutte le principali pratiche di sovversione degli ultimi trent’anni passano da qui. Manifesti pubblicitari e fumetti “deturnati” nel 1968, radio libere del 1977, hackeraggio, azioni nel web (tipo costruire falsi siti di organizzazioni ufficiali dove il fascismo di queste organizzazioni viene esplicitato e quindi esposto alla pubblica condanna): sono solo alcuni dei momenti (i più eclatanti) di una metodologia dello stravolgimento comunicativo.
Burroughs è un virus: va studiato, va letto, va capito. Ma soprattutto, va usato.

NOTE
1 Il pasto nudo, The Naked Lunch, 1959. Trad, di Claudio Gorlier, 1992 SugarCo edizioni, pag. 10.
2 Il pasto nudo, cit., pag. 8
3 ReSearch edizione italiana, Shake, 1992, pag. 134
4 ReSerch edizione italaiana, cit., pag. 131
5 William S. Burroughs The electronic revolution, 1970 (ho reperito il testo in inglese in internet. Ignoro se esistano in commercio traduzioni in lingua italiana)
 
William Burroughs: istruzioni per l'uso (2)
di Andrea Campanella
 
La fortuna e l’influenza di William Burroughs nella cultura rock dagli anni 60 in poi è notoria. Partiamo dai Soft Machine di Robert Wyatt che presero il nome dall’omonimo libro di B.; il ritratto di William B. compare nella cover del celeberrimo album dei Beatles Sgt Pepper's lonely heart club band (1967), al fianco di Marilyn Monroe.
E in genere tutto l’ambiente psichedelico per il quale il nostro insieme a Huxley e Leary costituì una specie di guru. Burroughs ebbe frequentazioni con musicisti del calibro di Iggy Pop, David Bowie ( che confermò di avere usato a più riprese il cut up per la composizione dei suoi testi), Frank Zappa, Led Zeppelin, Lou Reed e Rolling Stones quando dette vita alla fine degli anni 70 alla Nova Convention. Pìù tardi fu la volta di Patti Smith, Laurie Anderson, Debbie Harry, John Giorno, Lydia Lunch, Jim Carroll e David Johansen (New York Dolls). Esistono cd musicali con diretti interventi di Burroughs come Spare Ass Annie e Break Through in grey rooms (etichetta Sub Rosa) e sono molti i musicisti che hanno usato/campionato la voce di B. nei loro brani: citiamo il lavoro della ricostituita Yellow Magic Orchestra di Riuichi Sakamoto che all’interno del cd Technodon (1993) ospita testi di B. nel brano Be a Superman (mentre in Floating away è la volta di William Gibson). Stesso discorso vale per Laurie Anderson e il suo lavoro Mister Heartbreak (1984) e il successivo Language is a Virus (1986). Ancora di quel periodo il tributo a Burroughs dei Duran Duran (ebbene si!) che asserirono di aver scritto Wild Boys dopo aver letto l’omonimo libro del nostro.In tempi recenti Burroughs incise insieme a Kurt Cobain il cd They called him The Priest ma fortemente burroughsiani appaiono ad esempio i Sonic Youth ed in generale i musicisti dell’area newyorchese. In sintesi tutto il lavoro dei Dj-musicisti come Howie B. o Fatboy Slim, Moby e David Shea concettualmente molto deve al cut up di Burroughs e Gysin. William Burroughs compare nel film Drugstore Cowboy di Gus van Sant (1988) nella parte di un prete (ancora!) tossicodipendente e mistico.
Lo stesso regista percorre strade burroughsiane in Belli e Dannati (My own private Idaho) (titolo proveniente da una canzone dei B52’s) con River Phoenix (morto l’anno dopo) e Keanu Reeves.Regista di chiare influenze burroughsiane è il canadese David Cronenberg che celebra il mondo di B. Nel film The Naked Lunch che vide il diretto coinvolgimento della scrittore (esistono parecchie foto che testimoniano la presenza di B. sul set). Altro regista con chiare influenze burroughsiane e cyberpunk (movimento che deve molto concettualmente a B.) è Tsukamoto con il celebre Tetsuo. Testimonianze di Burroughs sono reperibili anche nel film di Klaus Maeck Commissioner of Sewers (ora in edizioni Shake) e in 1950-1960 The Films-I films di Anthony Balch scritti e interpretati da William Burroughs: Towers open fire/The Cut-ups/Bill & Tony (etichetta Rarovideo). Da citare il lavoro fumettistico del Professore Bad Trip Il Pasto Nudo (edizioni Shake) ispirato al film di Cronenberg.


Il teatro yoruba
(parte prima)
di Francesca Lamioni

La Nigeria ha avuto una tradizione letteraria più lunga di qualsiasi altra colonia inglese in Africa. Quando gli inglesi, alla fine del secolo diciannovesimo, si addentrarono nel territorio yoruba, non trovarono capanne di agricoltori ma città fiorenti, in cui esisteva una cultura elaborata e vivace, con luoghi di culto, di mercato e palcoscenici per gli spettacoli; trovarono poesia e scultura. All’inizio del 1900 furono fondate scuole pubbliche in lingua inglese, di conseguenza la letteratura inglese, con un accento particolare su Shakespeare, rappresentava la parte più cospicua della formazione scolastica.
Nel 1948 nacque l’Università di Ibadan, che doveva seguire standard imposti dall’Università di Londra e inevitabilmente la Facoltà di Arte organizzava corsi sulla cultura inglese, oltre che sugli immancabili classici europei.
Non sorprende il fatto che, in questa cultura trapiantata, il teatro indigeno abbia impiegato molto tempo a emergere, infatti l’innovazione culturale non era incoraggiata dai professori.
Il metodo più sicuro per soddisfare la richiesta scolastica era fare riferimento ai capisaldi della cultura occidentale, da Molière ai greci.
Il teatro che troviamo finalmente oggi in Nigeria è il risultato di secoli di esperienze e prende origine dalla vita stessa della gente, dalla sua religione, dalla sua storia.

GLI YORUBA
Gli yoruba costituiscono una delle principali tribù della Nigeria, insieme agli Ibo e agli Hausa. La loro sede originaria è la Nigeria, ma si possono trovare anche in altre parti dell’Africa, come ad esempio la regione del Dahomey. G.J. Afolabi scrive:

L’area culturale tipica degli yoruba coincide con le sei regioni della Nigeria occidentale: Oyo, Ibadan, Abeokuta, Ijebu, Ondo, Lagos.
1

L’economia yoruba è al 50% di tipo agricolo: una delle colture principali è quella del cacao, di cui gli yoruba sono fra i maggiori esportatori nazionali. Altri prodotti tipici sonno l’olio di palma ( da cui viene ricavato anche il vino di palma, bevanda usata sia per le cerimonie sacre che nella vita di tutti i giorni), la cola e l’igname (sorta di tubero simile alla patata), simbolo di prosperità e vita nella credenza tradizionale. Il tema del raccolto è fondamentale nella drammaturgia indigena, per quanto anche la caccia e la pesca siano attività abbastanza importanti nella vita yoruba.
Negli ultimi decenni la Nigeria ha avuto un forte sviluppo nel settore petrolifero, divenendo una delle maggiori esportatrici africane ma non mancano nel paese industrie di trasformazione e manifatturiere, fra cui le più sviluppate sono quella tessile, di prodotti agricoli , di materiale da costruzione e di metallurgia leggera.
Nel territorio yoruba le città sono vaste e popolate e rivestono un ruolo importante anche dal punto di vista religioso: Ife, ad esempio, è vista da ogni yoruba il proprio luogo d’origine, una città santa e l’Oni (sacerdote) di Ife è considerato un capo spirituale.
La religione domina la vita di questo popolo:

Il concetto di base, il modo di vedere il mondo, nelle società tribali dell’Africa occidentale, è costituito dall’idea che la realtà più immediata è quella spirituale. 2

La filosofia è basata su una profonda armonia, in cui uomini e dei sono sullo stesso piano e le divinità hanno caratteristiche fortemente umanizzate; l’idea centrale è quella della qualità ciclica dell’esistenza, parallela alla qualità ciclica della natura e i riti mostrano il ciclo ripetitivo della morte e della rinascita. Dilatandosi fra passato e futuro, la vita umana si estende fino agli spiriti di coloro che sono morti e di coloro che non sono ancora nati. Il mediatore fra vivi, morti e coloro che seguiranno è l’abiku child, un bambino che, nato per morire, tormenta sua madre: incontra infatti la morte nella prima infanzia, ma rinasce ancora dalla stessa mamma, per morire di nuovo. Il bambino abiku è una personificazione dei poteri della morte, è il simbolo di una delle idee centrali nella religione yoruba, quella della reincarnazione. Rappresenta di conseguenza anche il futuro.
La divinità suprema che presiede al pantheon yoruba è Olorun, dotato di onnipresenza, onniscienza e onnipotenza: è considerato troppo perfetto per essere oggetto di culto. Dopo Olorun vengono le altre divinità maggiori o orisha: Esu, il diavolo, Ifa, la divinità profeta, Obatala, capostipite degli orisha insieme alla moglie Oduduwa, Sango, dio del lampo e del tuono, infine Ogun, dio del metallo e della guerra (principalmente). Dopo gli orisha seguono gli spiriti divinizzati degli antenati e altri spiriti minori. Agemo è capo degli spiriti ancestrali e presiede alcuni culti dei morti, con Eluku e Oro. Importante è l’Egungun, culto di molti spiriti che possono manifestarsi in qualsiasi momento ma soprattutto in occasioni importanti (v. nascita, matrimonio, morte).
C’è infine un numero minore di orisha:

Al di sotto delle divinità ci sono numerosi spiriti degli antenati e delle cose. Alcuni dei sono antenati elevati al rango di divinità. Per esempio Shango un tempo era il re di Oyo. Gli dei e gli spiriti degli antenati sono molto vicini fra loro: gli alberi, alcuni terreni, i fiumi etc. potrebbero essere identificati con gli stessi spiriti che li rendono sacri. 3

La tradizione yoruba presenta un aspetto animistico molto vivace e i miti sono permeati da una forte vena poetica:

Per ciascuna delle centinaia di divinità ci sono apposite canzoni, danze, strumenti musicali, inni di lode, simboli, cibi sacrificali coi quali vengono nutrite. Gli yoruba non adorano i simboli ma gli dei da essi rappresentati. Gli dei hanno i loro litigi, le loro storie d’amore, le loro città d’origine e il tutto è in stretta relazione coi luoghi dove, giunti sulla terra, sono adorati sotto forma di roccia o di fiume. 4

A proposito della lingua yoruba, E.Jones scrive:

Tutta la cultura yoruba è custodita nel linguaggio musicale, che dà l’impressione di essere cantato più che parlato. Questi ritmi e queste tonalità non possono essere traslati nella lingua inglese. 5

La questione della lingua nel teatro africano
Il problema della lingua presa in prestito da altre nazioni è uno dei più dibattuti negli ambienti intellettuali e politici africani. Quasi dappertutto esistono programmi radiofonici e televisivi impostati su un sistema perlomeno bilingue: una o più lingue indigene affiancano la lingua che prima la colonizzazione e poi i rapporti internazionali hanno reso sempre più necessaria e hanno organicamente diffuso attraverso l'alfabetizzazione scolastica.
L'uso letterario delle lingue indigene pone, o porrebbe, molti problemi : in primo luogo perché le aree linguistiche non coincidono con quelle degli stati (che ricalcano invece le spartizioni coloniali, indifferenti alle etnie e alle culture locali);bisogna poi considerare che, in parte ancora a causa delle ripartizioni territoriali degli stati, le lingue indigene assunte come lingue nazionali si imporrebbero sulle etnie minori, riproponendo fenomeni di colonialismo linguistico. Infine si deve tenere conto che la codificazione scritta delle lingue indigene, iniziata in generale dai missionari, non è ancora perfetta.
Ma un altro ordine di problemi è forse il più difficile da superare: quello del mercato, quasi sempre infatti le aree linguistiche principali sono troppo esigue per sostenere un mercato di diffusione libraria; scegliere quindi di esprimersi in una lingua europea può quindi diventare un'esigenza di diffusione.
C'è un aneddoto di Labou Tansi, scrittore dell'area del Congo:

Mi hanno chiesto "Perché scrive in francese?" Siccome la domanda mi veniva posta in francese, mi sono stupito e ho detto " Si può fare altrimenti?" 6

Commentando l'attribuzione del Nobel per la letteratura a Wole Soyinka, Claudio Gorlier disse:

Se Soyinka - già fellow a Cambridge - si affida a un linguaggio di grande rigore letterario, a una retorica drammatica di respiro quasi elisabettiano nelle sue scansioni ma incentrata su diversi livelli di discorso e intessuta di tensioni tragiche e ironia beffarda, egli non consente tuttavia una lettura in chiave riduttiva occidentale. Infatti la sua parola inglese s'impadronisce della crisi dell'individuo trasformandola in crisi della parola stessa, intesa religiosamente come Verbo, senza più certezze assolute, e in Carne, esposta alla corruzione. 7

Lo stesso Gorlier, in un'intervista a Ben Tomolojou, drammaturgo e giornalista nigeriano, nonché art director del "Guardian News Paper" di Lagos, chiede delucidazioni sul problema della lingua in Africa:

D: Veniamo al problema del linguaggio. Lei scrive in inglese ma inserisce passi in yoruba. E' un compromesso? Come vede il futuro del suo teatro da questo punto di vista?
R: Io penso a un teatro totalmente in lingua africana, nel mio caso yoruba. L'alternativa si può porre in questi termini: dobbiamo giungere a un teatro popolare, nel senso che sia diretto al popolo. Questo teatro, che deve essere in lingua africana, si sta sviluppando ma non esiste ancora. Così noi scriviamo, io scrivo (o meglio costruisco, perché non si tratta solo di parole un testo teatrale) ma questo teatro tende a essere alienato rispetto al popolo. Il nostro futuro teatro dovrà essere del popolo, senza rinunciare alle esperienze, ai risultati e alla lezione del teatro letterario.
8

E' interessante il fatto che, coerentemente a quanto affermato sopra, l'autore non abbia mai voluto pubblicare e diffondere le sue opere all'estero. Lo stesso Soyinka, che scrive esclusivamente in inglese, ha sempre dato aiuto e sostegno alle compagnie teatrali che recitano in yoruba o in altre lingue africane, come quelle di Duro Ladipo, Hubert Ogunde, E.K.Ogunmola tutte nell'ambito dell'opera folk.
L'interesse di Soyinka per la lingua locale emerge anche attraverso la traduzione che egli ha fatto dell'opera The Forest of a Thousand Daemons , originariamente scritta dal romanziere D.O. Fagunwa.
Tomojolou accetta alcuni aspetti dell'idea di Soyinka circa l'impegno dell'artista come mediatore delle verità che sostengono la vita collettiva e quindi anche quello della decolonizzazione della lingua, ma per lui questa decolonizzazione avverrà tout court col passaggio all'uso di lingue nazionali africane.
Soyinka ritiene invece sterile, o perlomeno limitativa, una ricerca tesa prevalentemente al recupero delle radici della cultura africana; nella sua visione cosmopolita egli considera anche la lingua che ha scelto una koiné che garantisce l'osmosi e lo scambio fra culture diverse.
Sylvan Bemba, scrittore francofono, saggista e giornalista, ha interesse per le diverse forme di espressione artistica, in particolare il teatro e la musica; si è inoltre sempre impegnato politicamente per risolvere i problemi del proprio paese, il Congo (attuale Zaire). Il suo si potrebbe definire un teatro terapeutico, con lo scopo di correzione sociale e reintegrazione al gruppo degli emarginati, dei disadattati e talvolta dei malati di mente. Alla pratica terapeutica concorrevano la favola di elaborazione collettiva, il ruolo di portavoce del gruppo, l'insieme rituale, la partecipazione del pubblico. In una fase della sua ricerca Bemba ha scritto e pubblicato un testo teatrale in petit-negre, il francese fonetico e maccheronico parlato nell'Africa francofona dalle classi subalterne urbane:

Un foutu monde pour un blanchisseur trop honnete

Ma è Labou Tansi il più prolifero in fatto di giochi nati dal tentativo di integrare la lingua africana con quella francese. Egli afferma:

A partire dagli anni sessanta la gente comincia a dirsi: " Scrivo con l'idea di inventare un linguaggio dentro a questa lingua". Veniamo quasi definiti prigionieri della lingua francese. Se ne fa una questione di stato. Credo che si debba a tutti i costi prendere atto di una realtà, convertirsi a una realtà: oggi esistono paesi che vivono in francese. Io non ho conti in sospeso con la lingua francese, li ho con la mia identità, con la mia cultura. Sono in conflitto con me stesso quando devo comunicare a altri cose percepite solo attraverso i libri, come ad esempio: La Senna, grande fiume francese.
In riva alla Senna io mi aspettavo qualcos'altro. Il problema si pone perché adesso so che è possibile che qualcuno dica: Senna, grande fiume - e io dica: Congo, fiume.
Ho un rapporto più diretto con le parole e con la sintassi francese e ho voglia di dare un calcio alla sintassi e anche qualche calcio alle parole per inventare un linguaggio tropicale, lussureggiante e fuori dalla linea retta. Mi sembra un'esperienza importante che può essere coniugata con altre esperienze umane. Ecco perché mi pare che il dibattito francofonia/francese sia abbastanza secondario. Il linguaggio ha sempre più bisogno che si lavori per lui.
9

Il punto in comune a tutti gli scrittori di teatro africani è quello della ricerca di autenticità, non solo linguistica. A questo proposito afferma ancora Labou Tansi:

Ho lavorato in teatro in Europa, ho visto molti spettacoli e ho notato che il teatro, che dovrebbe rimanere mezzo di espressione del corpo, dell'anima, della parola, e della forza dell'attore e del testo, è diventato una dimostrazione di sofisticazioni inimmaginabili. 10

Soyinka, dal canto suo, sottolinea l'importanza di un teatro nazionale, che porti in scena i problemi dell'Africa e ne renda cosciente il mondo intero:

Vorrei direttamente confrontarmi con una delle sfide che ci assalgono. Qualcuno potrà credere che non si tratti della più cruciale, ne invocherà altre come la fame, la malattia, la minaccia di annientamento totale etc. Qualcuno sottolineerà l'esiguità delle nostre risorse e la debolezza della nostra arte per farsene carico. Saranno pochi a negare che in questo caso si tratta dello scandalo più evidente dei nostri tempi e che l'angoscia e la rivolta delle vittime hanno finalmente incominciato a incidere la corazza di indifferenza con cui il mondo si proteggeva ostinatamente. Penso che sia chiaro che intendo parlare del razzismo (…) 11

NOTE
 
1. G.J.Afolabi, Yoruba Culture, Ife, University Press, 1971, p.20
2. M.Laurence, Long Drums and Cannons, London, Macmillan, 1968, p.13
3. E.Jones, Writing of Wole Soyinka, London, Methuen, 1967,p.87
4. W. Bascom, The Yoruba of Southwestern Nigeria, New York, Rinehart and Winston, 1959,p 97.
5. E. Jones, ibid.., p.8
6. Dichiarazione riportata da Egi Volterrani nella Introduzione a Teatro Africano, Torino, Einaudi, 1987, p.VI
7. Ibid.
8. Intervista di Claudio Gorlier a Ben Tomolojou, Lagos, Maggio 1987, in appendice a Teatro Africano , cit. p. 331
9. In Egi Volterrani, Introduzione a Teatro Africano, cit., p. VII
10. Ibid., p.VIII
11. Dichiarazione di Wole Soyinka, in appendice a Teatro Africano, cit., p.324


Appuntamento al prossimo numero.
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