(45) 14.11.02
speciale teatro di figura

Nuovo teatro vecchie istituzioni
Castiglioncello, 30 novembre-1° dicembre
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and1
 
L'editoriale
Il ritorno della cartapesta
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and2
 
Le notizie
di ateatro 45
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and3
 
Oggetti perturbanti: le marionette
Dalla Festa delle Marie a Kantor
di Concetta D'Angeli

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and4
 
L'attore musicale
Il melodramma e le marionette
di Eugenio Monti Colla

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and5
 
La poesia della danza meccanica
Il balletto e il teatro di marionette
di Eugenio Monti Colla

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and6
 
Marionette milanesi
La storia della compagnia
di Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and7
 
Cattedrale di Cartapesta
Il Bread & Puppet a Firenze
di Alessandra Giuntoni


 
Guida alla lettura
Appunti sul Bread & Puppet e su Peter Schumann
di Andrea Mancini

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and9
 
27 anni dopo
Incontro con Peter Schumann
di Massimo Schuster

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and10
 
Colui che mi fa giocare
Pentole, padelle, colabrodo, mestoli, telefoni, fiocchi, frange, pulsanti e quant’altro: le mie marionette per Massimo Schuster
di Enrico Baj

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and11
 
Qu'est ce que l'UNIMA ?
Una scheda sull'UNIMA (in francese)
di UNIMA

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and12
 
Il robot romantico
Progetto Euclide
di Stefano Roveda-Studio Azzurro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and13
 
Salve, sono il primo schiavo di Bit
Come si dà l'anima a un personaggio virtuale
di Giacomo Verde

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and14
 
E poi...
 
Le Baccanti in nero
Wole Soyinka, Le Baccanti di Euripide. Un rito di comunione
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and15
 
O ti integri o ti disintegri?
Un mail sul Diario delle prove al Teatro di Roma di Giacomo Verde
di Andrea Liberovici

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro/ateatro45.htm#45and16
 

 

Nuovo teatro vecchie istituzioni
Castiglioncello, 30 novembre-1° dicembre
di Redazione ateatro

 
L’incontro di Castiglioncello sta iniziando (faticosamente) a prendere una propria fisionomia. Le date sono ormai irreversibili: 30 novembre-1° dicembre nelle sale del Castello Pasquini, grazie alla generosa ospitalità di Armunia (avete segnato le date sull’agenda?).

Abbiamo prodotto un po’ di materiale per iniziare a lavorare & riflettere.
Per cominciare, nel forum NTVI puoi leggere il documento introduttivo e il comunicato stampa. Per favore, fai circolare queste info (è un ordine).
Sempre nel forum, abbiamo iniziato a raccogliere adesioni e materiali su cui iniziare a confrontarci.
I principi sono semplici.
In primo luogo, siamo piccoli e fragili. Le risorse sono scarse. La situazione è molto difficile - e lo diventerà sempre più. Al tempo stesso, lo sappiamo, il nuovo teatro (e in questa sigla vogliamo includere anche la nuova danza e le performance multimediali) rappresenta una grande forza e una grande risorsa. Centinaia di compagnie, migliaia di artisti, tecnici, studiosi, compagni di strada, migliaia e migliaia di spettatori. Decine di luoghi, spazi, festival in tutta Italia. Molti spettacoli belli e importanti, apprezzati (e prodotti) anche all’estero.
Idee, energie, passione, cultura. Culture. Una rete di conoscenze, relazioni, rapporti che copre l’intero territorio nazionale.
Ma siamo anche divisi e dispersi, e dunque ancora più deboli.
Perciò dobbiamo trovare in primo luogo forme di auto-organizzazione per utilizzare nella maniera migliore le risorse (umane, artistiche, progettuali, economiche) di cui disponiamo. Solo così potremo essere più credibili nel confronti del sistema teatrale, dei media, delle istituzioni.
Per cominciare, è disponibile on-line una prima provvisoria versione del Censimento del nuovo teatro. Prova a vedere se ci sei, e manda correzioni e suggerimenti - se ci vuoi essere ;-) se non ci vuoi essere :-(
In ogni caso, puoi venire a Castiglioncello e vedere se ti ci ritrovi - e dire naturalmente la tua.
 
Ma sappi che a Castiglioncello due cose sono assolutamente vietate:
- in primo luogo è proibito spiegare quanto sei bravo e quante belle cose hai fatto (già lo sappiamo, siamo tutti bravi e buoni, a volte geniali);
- inoltre non verranno ascoltate lamentele sui torti che hai subito (è vero, il mondo è cattivo, molto cattivo, ma se cominciamo così non la finiamo più, perché i torti sono moltissimi ma la nostra pazienza pare infinita... In ogni caso c’è il Forum sul teatro di guerra, che elenca torti e ragioni).
L’unica alternativa lecita è fare proposte concrete, buttare idee sul piatto, offrire risorse da condividere, inventare alleanze... E poi trovare qualcuno che possa dare ascolto a qualche nostra richiesta o esigenza - e rompergli le scatole, sfinirlo, esasperarlo, tutti insieme.
Proprio per definire alcune proposte concrete abbiamo pensato di dividere il (poco) tempo a disposizione in quattro sessioni, ciascuna con un coordinatore e alcuni relatori. Per la precisione:
- informazione e cultura dello spettacolo dal vivo;
- osservatorio del nuovo (individuazione e valorizzazione delle realtà emergenti);
- produzione, ospitalità, distribuzione e circuitazione degli spettacoli;
- leggi e normative nazionali e regionali.
Questo è solo un primo schema, il dibattito è aperto. Se un’idea folle ti toglie il sonno, se sei riuscito a trovare il bandolo della matassa, se hai un piano, puoi usare il forum, oppure parlare con uno dei relatori del convegno oppure (meglio) venire a raccontarci tutto (in 5 minuti massimo, per dire un paio di cose intelligenti bastano e avanzano) a Castiglioncello. Se la proposta è abbastanza furiosa, ti verremo dietro.
 


 

L'editoriale
Il ritorno della cartapesta
di Redazione ateatro

 
Da diversi mesi avevamo in cantiere questo "ateatro speciale teatro di figura". Soprattutto da quando abbiamo letto il numero speciale che "TDR" ha dedicato a Puppets, Masks and Performing Objects (il numero, curato da John Bell, ha avuto grande successo: è andato rapidamente esaurito e ora viene venduto come volume monografico).

Tanto per cominciare, Bell fa una riflessione semplice semplice, ma di quelle che mettono in moto il pensiero e (forse) le azioni. Racconta che all’università uno degli studenti del suo laboratorio sui burattini gli ha chiesto: "Ma che senso ha lavorare con una forma così obsoleta?". E Bell, paziente, a raccontargli della ripresa di interesse per marionette, pupazzi e burattini in tv e al cinema, in pubblicità e nel teatro d’avanguardia...
A giudicare obsoleta questa forma d’arte non sono solo gli studenti: ai tempi dell’ormai celebre WTO di Seattle, sul "New York Times" l’economista Thomas Friedman ironizzava su forme di protesta antiquate (nell’era di internet!!!) come le marce di protesta con pupazzi e burattini, che gli ricordavano tanto gli anni Sessanta. Invece Seattle è stato solo l’inizio, e le polizie di mezzo mondo hanno iniziato a infiltrare i loro agenti nei laboratori di pupazzi e teatro da strada dei diversi forum... Anzi, il 1° agosto 2000 a Filadelfia ne hanno arrestato in blocco uno, di laboratorio (quello diretto da John Norris e dai suoi Insurrection Landscapers, i "paesaggisti dell’insurrezione"), i 300 pupazzi e i burattini e gli striscioni triturati perché evidentemente venivano ritenuti una minaccia all’ordine costituito.

Le provocazioni di Bell e soci non finiscono qui.
Per spiegare la rinascita dell’interesse per il genere, Stephen Kaplin risale agli anni Sessanta e indica due "capostipiti": il Bread & Puppet di Peter Schumann (ovviamente, almeno per noi "avanguardisti") e i Muppets di Jim Henson. "Pur avendo prodotto enormi quantità di materiale di grande originalità e caratterizzato da uno stile e contenuti delineati con precisione," scrive Kaplin, "sono entrambi rimasti fedeli alle radici populiste ed egualitarie del teatro di burattini". Nel volume si dedica anche ampio spazio a Julie Taymor (massimo rispetto! è la regista del Titus cinematografico), creatrice della versione teatrale del Re Leone della Walt Disney.

Insomma, da un lato l’attivismo politico, dall’altro la cultura mainstream e le multinazionali dell’intrattenimento, da un lato il Re Leone made in Broadway e le creature virtuali che popolano di effetti speciali spot pubblicitarie blockbuster hollywoodiani, dall’altro tradizioni antichissime, che hanno dato vita per secoli alla cultura popolare...

Insomma, suggerisce Bell, è forse giunto il momento di rilanciare anche la riflessione teorica sull’argomento. E nello speciale "TDR" gli spunti non mancano. Ne elenchiamo alcuni, un po’ alla rinfusa.

Una prima annotazione, di carattere storico, riguarda l’interesse della avanguardie storiche (Marinetti, Kandinskij, Léger, Breton, Schlemmer) per gli "oggetti di scena". Bell indica per tre ordini di motivi d’attenzione:
a. perché offrono una connessione tra le performance europee e i rituali non europei;
b. perché appartengono a forme di cultura popolare tradizionale, da far interagire con la sperimentazione contemporanea;
c. perché possono essere inseriti nella "poetica della macchina" cara alle avanguardie.

Kaplin s’incarica invece di fornire un nuovo modello per il teatro di burattini. Per farlo - e questo è lo snodo più interessante - non parte dalla natura del burattino come oggetto espressivo (come ha fatto per esempio Gordon Craig nel 1918), dalla sua forma o dai materiali con cui è costruito, quanto piuttosto dal rapporto tra il perfomer e l’oggetto.
In questa prospettiva, i fattori cruciali diventano due: in primo luogo la distanza, ovvero il grado di separazione e contatto tra il performer e l’oggetto (per l’attore che interpreta in personaggio il contatto è ovviamente totale, la maschera introduce un "grado di separazione", e si può arrivare fino al controllo a distanza di una figura reale o virtuale gestita via computer); in secondo luogo il rapporto tra il numero di oggetti e i performer che li "agiscono" (1 : 1 indica un performer che anima un oggetto; Molti : 1 indica più perfomer che animano un unico oggetto, come i gigantesco pupazzo della Madre Terra del Bread & Puppet; 1 : Molti indica ovviamente più oggetti animati da un unico performer).

Poi qualche frase rubata all’intervista di Richard Schechner a Julie Taymor:

"Beh, che cos’è l’animazione? E’ che puoi davvero mettere la vita in oggetti inanimati. E’ la magia dei burattini. Sai che è morto e dunque gli dai un’anima, la vita".

E ancora:

"Obbligare una persona a entrare in una forma esterna concreta, l’aiuta a uscire da sé stessa".

Infine:

"(In molte forme tradizionali), il burattinaio è nascosto. Ma proviamo a liberarci dalla maschera. Perché quando ti sei liberato dalla maschera, anche se i meccanismi diventano visibili, l’effetto complessivo è ancora più magico. E’ qui che il teatro o più potente del cinema e della televisione. E’ qui che scatta la magia. Non è perché è un’illusione e non sappiamo come funziona. E’ perché sappiamo esattamente com’è fatto."

(Il commento di Schechner: "Una doppia magia: vedi il burattino e il burattinaio. In quell’universo, Dio è visibile.")

Inoltre parla anche Peter Schumann, che ha un grande ruolo pure in questo "ateatro45":

"Perché i burattini insorgono? Perché soltanto i burattini possono insorgere, perché 1. il diritto all’insurrezione, così come viene ... nella Dichiarazione d’Indipendenza, non è mai quella giusta per i politici al potere; 2. è totalmente illegale, chiedetelo alle Black Panthers morte".

(A proposito, c’è un lungo articolo nel quale si parla delle difficoltà attraversate dal Domestic Resurrection Circus, il festival estivo organizzato nella fattoria del Vermont dove ha sede il Bread & Puppet, e della sua sospensione.)

Un’altra serie di interrogativi riguarda il rapporto tra le marionette e i nuovi media: le creature virtuali animate in 3D dobbiamo considerarle burattini o no? (è una questione teorica abbastanza intricata, c’è chi dice sì, c’è chi dice no, provate a rispondere: in questo "ateatro", in ogni caso c’è il nostro amico Bit, che non è animato dai fili ma da un dataglove...).

Non è tutto: in quel TDR Puppets, Masks ad Performing Objects si parla di automi settecenteschi e maschere peruviane, e perfino di semiologi cechi e tradizioni popolari.
In questo "ateatro speciale teatro di figura" anche noi proviamo a parlare di un sacco di cose, e molte altre se ne potrebbero aggiungere - e ne aggiungeremo nei prossimi numeri, perché l’argomento è affascinante e inesauribile. Intanto, un grazie di cuore a tutti coloro che hanno contribuito a rendere il numero così ricco e affascinante.
 


 

Le notizie
di ateatro 45
di Redazione ateatro

 
(ma molte le trovate e le potete mettere anche nei forum)

MARIONETTE & Co.
Facce da burattino. 160 ritratti in bianco e nero di artisti da tutto il mondo
fotografie di Mauro Foli, baracche e burattini del Museo B&F
Una mostra di foto realizzate da Mauro Foli assieme al Centro Teatro di Figura "Arrivano dal Mare!". Un set fotografico semplicissimo e un vecchio fondale scuro sono stati per 15 anni lo sfondo mobile che Foli ha allestito a Cervia durante il Festival Internazionale dei Burattini e delle Figure "Arrivano dal Mare!" e a Charleville Mézières, nel nord della Francia al Festival Mondial des Théatres de Marionnettes.
In queste due capitali europee del teatro di figura sono passati dallo studio di Foli più di 150 artisti e protagonisti del teatro dei burattini, delle marionette, delle ombre, dei pupi e degli oggetti, provenienti da ogni paese del mondo.
La mostra presenta i ritratti di maestri della cultura teatrale e della tradizione, come Maria Signorelli, Otello Sarzi, Giordano Ferrari, Micael Meschke, Joan Baixas, David Syrotiak, Mimmo Cuticchio, Wey Wan Yann, e Artisti e compagnie che attraverso un intelligente ricerca e sperimentazione si sono affermati negli ultimi anni come protagonisti indiscussi della scena contemporanea, come Jacques Templeraud, Roman Paska, Jordi Bertrand, Claudio Cinelli, Faulty Optic, Paola Serafini e Luì Angelini, Sergio Diotti, ecc.
MAURO FOLI, fotografo professionista di pubblicità e moda, è nato a Cervia nel 1955. Ha studiato scultura, pittura e mosaico.
"Facce da Burattinaio" è aperta, alla Galleria Comunale d’Arte, Corso Mazzini, Cesena, da sabato 9 a domenica 25 novembre, mostra è aperta tutti i giorni (salvo il giovedì) al mattino, dalle 10 alle 12,30; al pomeriggio dalle 16 alle 19.
Info: 0544-971958-965876 e-mail: ctf@queen.it
sito: www.arrivanodalmare.it

Fagiolino’s 1° Buratein’s European Festival
In memoria di Otello Sarzi
Art director Luciano Pignatti
Per info www.lamelanet.it

LE RIVISTE

WWW.DRAMMA.IT
Sull’ottimo sito di Marco Isidori www.dramma.it è online il numero di novembre.
Il dramma del mese è Trincea di signore di Silvia Calamai, Premio Battipaglia under 32 e segnalato al Premio Calcante. Il prossimo 24 novembre sarà in scena nell'ambito di "Autrici a Confronto XI edizione, Festival Nazionale sulla Drammaturgia Contemporanea delle Donne" a cura della Compagnia Laboratorio Nove e Teatro della Limonaia lo studio di Barbara Nativi con Marisa Fabbri e Franca Nuti nei panni di Gervasia e Ortensia protagoniste della pièce; il secondo appuntamento sarà nel marzo 2003, quando i due personaggi parleranno con la voce di Lucia Poli e Marcella Ermini.
Per il sito del mese un divertente ed istruttivo viaggio nel teatro: un sito con animazioni, giochi e risorse didattiche per introdurre i più piccoli alla conoscenza del mondo teatrale.
Avete votato pochini al sondaggio di ottobre di cui sono consultabili i risultati finali ma soprattutto è votabile il nuovo sondaggio sulla promozione della nuova drammaturgia. Aspettiamo le vostre opinioni!
Completamente riorganizzata la sezione dei Premi. Scaricabili dalla home page i bandi di prossima scadenza (ottobre e novembre) e cliccando qui troverete i bandi validi in scadenza nei prossimi mesi.
Attenzione! Dell'attesissimo Premio Riccione Teatro è disponibile un pre-bando in attesa del documento definitivo.
Nuova sezione dedicata ai cartelloni dei teatri, pubblicheremo tutti i cartelloni che ci invierete.
Vi segnaliamo una iniziativa interessante per la città di Roma, la PassaparolaCard. Tutte le informazioni alla sezione comunicati stampa.
Nella sezione Drammaturgie, nuove recensioni ed articoli tra cui l'interessante monografia sulle Collane di nuova drammaturgia a cura di Tiziano Fratus.

CULTURE TEATRALI
E’ ancora disponibile il n. 5 della rivista diretta da Marco De Marinis, all’insegna Arti della scena, arti della vita, con testi su Grotwski, sui metodi Gindler e Feldenkreis, sull’Odin...
La rivista esce due volte l’anno. Il prezzo di ogni numero è di Euro 15,50 (IVA assolta). Abbonamento annuale (due numeri) a Euro 25,82 (IVA assolta) da versare sul conto corrente postale n. 31378508 intestato a Carattere - Via Passarotti 9/a - 40128 Bologna.

STORIA E STORIOGRAFIA DEL TEATRO, OGGI. PER FABRIZIO CRUCIANI
Al convegno che ricorda il grande studioso del teatro italiano, largo spazio alle riviste di teatro. In particolare, se ne palerà nella quarta e nella quinta sessione, a Ferrara.
La quarta sessione, sempre venerdì, ore 15, dedicata a Le riviste di teatro nel Novecento è aperta e coordinata da Marco Consolini e Roberta Gandolfi, con una riflessione sulle riviste come oggetto storiografico autonomo e la presentazione di un progetto di ricerca di respiro internazionale, Le officine del pensiero teatrale, volto a promuovere sinergie e coordinare ricerche intorno allo studio delle riviste. Seguono le relazioni di due prestigiosi studiosi francesi, Béatrice Picon-Vallin e Jean Pierre Sarrazac.
Infine, sabato 16 novembre, sempre a Ferrara (alla sede del Centro Teatro Universitario, via Savonarola 19) alle ore 9.30 avrà luogo la quinta sessione di lavori, dedicata a Le culture delle riviste. Daniele Seragnoli modera una tavola rotonda alla quale partecipano i fondatori delle riviste teatrali italiane di area universitaria: «Il Castello di Elsinore», «Culture Teatrali», «Drammaturgia», «Prove di Drammaturgia», «Biblioteca Teatrale», «Teatro delle diversità», «Teatro e Storia».
"ateatro" parteciperà a questi incontri.
Altre info relative al convegno sul forum delle segnalazioni.

PREMI
A Giovanni Clementi per La tecnica del gatto il Premio Vicini Sconosciuti
Il concorso, nell’ambito delle manifestazione per Graz capitale europea della cultura 2003, porterà alle messinscena del testo (in tedesco, naturlich!) nel gennaio prossimo.
Leggi il comunicato stampa (in tedesco... ma sta per arrivare la tradu in italiano).

Bandi & prebandi
# Premio Candoni;

# Premio Riccione.

 


 

Oggetti perturbanti: le marionette
Dalla Festa delle Marie a Kantor
di Concetta D'Angeli

 
E’ luogo comune o automatismo del pensiero, prodotto, a dire la verità, soprattutto da ignoranza intorno all’argomento, quello che, in modo particolare in Italia, collega strettamente il teatro di marionette all’infanzia: attribuzione che ha tutta l’aria di essere una degradazione e che pone il teatro di marionette in un oggettivo stato di inferiorità rispetto al teatro cosiddetto maggiore. In questo senso c’è una sorta di parallelismo tra la degradazione che viene riservata alla marionetta1 e la degradazione medesima alla quale è costretto il bambino, considerato dall’adulto una sua copia imperfetta. Afferma Brunella Eruli, con una frase che mi pare da sottoscrivere per intero: "All’uomo incompleto si offre la marionetta, attore incompleto perché privo di umanità" 2.
Per introdurre dubbi nella falsa persuasione che proprio le sue (presunte) semplicità e elementarità rendano la marionetta adeguata alla semplicità e elementarità del mondo infantile, è opportuno fornire alcune rapide informazioni storiche sul teatro di marionette nel mondo occidentale, dove esso ha avuto un ruolo molto più importante di quanto attualmente si supponga3. Diverso, e del tutto eterogeneo rispetto alla linea del mio discorso, è quello che si può dire a proposito della marionetta del teatro orientale; perciò trascurerò di affrontare questo argomento.
Il nome della marionetta si deve a una usanza veneziana, la "Festa delle Marie". Si racconta che nel 944 dodici ragazze di Venezia, che si avviavano, per sposarsi, alla chiesa di Santa Maria della Salute, vennero rapite dai pirati; ma i veneziani seppero rapidamente reagire e, inseguiti i rapitori, riuscirono a ucciderli e a riprendersi le spose. L’episodio dette origine a una festa annuale, durante la quale si portavano in processione dodici ragazze, che rappresentavano le spose rapite e che ottenevano il diritto di ricevere una ricca dote dalla Repubblica veneziana. Così racconta Yorick: "La scelta delle ragazze era un munus publicum del Doge; ma coll’andar del tempo, cotesta faccenda accattando infinite brighe allo Stato, invalse l’uso di sostituire alle donne altrettante figure scolpite, abbigliate con lusso, e chiamate dal popolo le Marie di legno… o le Marione, per indicare che erano più grandi del vero. Nella settimana delle Marione i baloccai veneziani mettevano in vendita certe piccole riduzioni dei grandi simulacri, che si smerciavano a migliaia; e perché erano precisamente un diminutivo delle Marione, si chiamarono le Marionette" 4.
La marionetta era ben conosciuta e molto utilizzata nel mondo antico: nella VII del II libro delle Satire, il poeta latino Orazio la definisce "mobile lignum", dandoci così anche un’informazione sul materiale, il legno appunto, col quale essa era prevalentemente costruita. Più tardi sono i Padri della Chiesa ad occuparsi del teatro di marionette: severissimi contro gli attori in carne e ossa, parlano invece senza biasimo del "gioco" delle marionette, che evidentemente risultava ai loro occhi meno pericoloso degli altri spettacoli teatrali. Nel Medioevo appaiono le marionette sacre, che la Chiesa tollera per rappresentare i Misteri o alcuni episodi delle vite dei Santi, soprattutto i loro martìri; ne accetta la presenza in occasione di particolari festività o processioni; se ne serve per la raffigurazione di mostri o demoni spettacolari.... Però mantiene una certa diffidenza e seguita a vigilare con sospetto, perché non avvengano abusi che potrebbero coinvolgere la religione.
Legato ai riti della fertilità e della nascita, il teatro di marionette ha contenuto fin dalle sue origini l’elemento comico, ma ha sempre teso ad appropriarsi anche di altri contenuti della cultura dominante e ufficiale. Il suo repertorio è stato perciò molto vasto, inglobando episodi della letteratura cavalleresca, ma anche argomenti più complessi e in qualche misura metafisici, come quello della creatura umana che vende l’anima al diavolo: è il tema di Faust, che trova la sua prima espressione in Germania, nel teatro per marionette della monaca Hroswita, prima di approdare, attraverso una serie lunga di passaggi, al teatro di Goethe. Del resto, anche i legami di Goethe con le marionette furono stretti e importanti, come si deduce dal ruolo di rivelazione, che alle marionette è attribuito nel Wilhelm Meister.
Alle marionette è strettamente legata la musica, e soprattutto e fin dal suo primo nascere, il melodramma: nel Settecento Franz Joseph Haydn compone cinque piccole opere per marionette, oltre alla "Sinfonia Burlesca"; di opere per marionette fu autore anche Cristopher Winnibald Gluck; Il Flauto Magico di Mozart avrebbe dovuto essere rappresentato da marionette.
Ma un grande cambiamento avviene dall’inizio dell’Ottocento, quando gli spettacoli di marionette, da una parte, si perfezionano tecnicamente e si arricchiscono come impatto teatrale, ma d’altra parte smettono gradualmente di rivolgersi alle classi popolari, per diventare soprattutto territorio infantile. Comincia così la decadenza delle marionette classiche, che assume l’aspetto specifico anticipato all’inizio: nella loro destinazione prevalente le marionette vengono utilizzate per rappresentare favole da bambini e finiranno per essere soppiantate anche negli spettacoli infantili, da quando, a Novecento avanzato, la televisione diffonde la rivoluzione dei cartoni animati.
In strettissima sintesi, questa è, per così dire, la storia documentabile della marionetta nelle vicende del teatro occidentale. Ma ce n’è un’altra, parallela e più affascinante, alla quale si riallacciano quegli sperimentatori teatrali del primo Novecento, che decidono, nei loro progetti o sogni o utopie di rinnovamento teatrale, proprio di ricorrere a un oggetto desueto come la marionetta. Mi riferisco in particolare a Edward Gordon Craig e, in anni più recenti, a Tadeusz Kantor – ma si potrebbe pensare anche a Mejerchol’d, in Russia; o in Germania a George Grosz, che allestisce spettacoli satirici con marionette; o, in Svizzera, a Adolph Appia, che collabora con il marionettista Otto Morach, e alla scuola del Bauhaus; in Francia, a Gaston Baty, che teorizza la superiorità della marionetta sull’attore in carne e ossa… e si potrebbe continuare. Il fatto è che marionette e burattini riuniscono alcune importanti caratteristiche che, soprattutto nel primo Novecento, vengono molto amate negli ambienti teatrali che perseguono finalità di rinnovamento o di sovvertimento: "il sapore dell’Oriente e la massima disponibilità all’invenzione, il divertimento satirico e il gusto del grottesco, la ruvidità del popolare e del primitivo e il piacere di sperimentare i materiali più insoliti, l’improvvisazione e il massimo rigore" 5.
Alcuni degli autori che ho citato sopra si riferiscono al saggio, bello e anticipatore, che il drammaturgo tedesco Heinrich von Kleist, scrisse nel 1810, Sul teatro di marionette6, indirizzandosi agli artisti di teatro, e in particolare ai ballerini, nella convinzione che dovrebbero essere principalmente loro ad assistere agli spettacoli di marionette.

Per la chiarezza del mio discorso devo a questo punto introdurre una distinzione fra marionette, burattini, pupazzi e automi. Fatti di materiali diversi, dotati di caratteristiche antropomorfiche ma spesso simili ad animali o rivestiti di forme fantasiose e non realistiche, la vera differenza che distingue le quattro categorie che ho elencato è il loro rapporto con il movimento. Esso si potrebbe articolare in una successione progressiva, sulla base dell’autonomia e della vivacità. A sua volta, tale progressione induce, nel pubblico del teatro e comunque nei fruitori (a qualunque titolo) di marionette, burattini, pupazzi e automi, esiti psichici molto differenziati e che situerei anch’essi in una sorta di escalation: i pupazzi, privi di movimento, sono i più dipendenti dall’intervento della fantasia umana e anche da un intervento manuale, non travestito, esplicito e visibile; i burattini sono pupazzi vuoti all’interno e azionati dalla mano del burattinaio, che lavora prendendo posto nella loro cavità. Proprio per l’approssimazione dei movimenti di cui sono dotati, pupazzi e burattini appartengono in modo più evidente al territorio del comico, al quale li lega prevalentemente l’estremizzazione parodica: fanno ridere perché sono parodia di corpi umani e animali, perché si muovono impropriamente, perché, dei loro modelli, accentuano i comportamenti poco spirituali, eccessivi, sommari, privi di sfumature…
Le marionette sono azionate da fili che, maneggiati dall’alto dal marionettista, obbediscono spesso a un meccanismo complesso e permettono movimenti anche molto sofisticati e in grado di raggiungere, a volte, tali livelli di perfezione tecnica, da riprodurre i gesti umani o animali con un altissimo livello di somiglianza. Gli automi sono capaci di muoversi per conto proprio, grazie a meccanismi nascosti al loro interno. Anche nel caso delle marionette e degli autonomi non sono irrilevanti le reazioni comiche che producono, a causa della ripetizione imprecisa (e dunque avvertita come parodica) delle caratteristiche antropomorfiche, o comunque a causa di un movimento che viene percepito come inadeguatamente e ridicolmente affine alla vitalità e vivacità umana o animale. Ma accanto al comico, nel loro caso diventa importante un’altra conseguenza, anch’essa ascrivibile alle stesse cause, e cioè appunto alla ripetizione e alla parodia: voglio dire che, nel caso delle marionette e più ancora nel caso degli automi, si manifesta, in chi ne fruisce, una reazione poco decifrabile dal punto di vista psichico e capace di provocare sia repulsione sia attrazione ambigua: è una sorta di inquietudine, che non annulla del tutto, ma certo stempera molto l’effetto comico. Sulla natura di tale reazione voglio ritornare a interrogarmi più avanti.
Prototipo comune per marionette, burattini, pupazzi e automi è certamente la bambola, oggetto non rassicurante in termini psichici, e a sua volta diventato materia di gioco infantile dopo aver occupato uno spazio di rilievo nei riti religiosi e magici – e a grandi bambole sono assimilabili i manichini, ai quali pure mi occorrerà di riferirmi.

Che le marionette siano molto attraenti anche per gli adulti è un fatto sperimentabile con facilità: ci si può domandare di quale natura sia la suggestione che esercitano.
I meccanismi fascinosi del teatro, sperimentati, lungo il discrimine che separa e unisce realtà e incantesimo, sia sul piano delle esperienze sensoriali sia sul piano emotivo, che coinvolge affetti e sentimenti, sono smossi in un modo molto particolare da uno spettacolo (quello delle marionette appunto) dove non sono i corpi umani ad agire sul palcoscenico, come succede quando lavorano gli attori; ma dove il riferimento antropomorfico, pur restando molto forte, è nello stesso tempo esibito e rifiutato - o collocato in posizione parodica. Esibito, in quanto è il corpo, la pura materialità del corpo, ad emergere in primo piano: su questo punto insiste Kleist nel saggio Sul teatro di marionette, quando addita nel movimento meccanico della marionetta la perfezione, da lui definita senza mezzi termini "divina", che ogni ballerino desidererebbe trovare anche nei propri gesti. E’ però una perfezione che, a suo avviso, mai può cogliersi, alla stessa misura, nelle movenze umane: in primo luogo, perché essa nasce dall’assenza di gravità, che rende unici i corpi delle marionette, fra tutti i corpi materiali, permettendo loro di muoversi, sospese come sono ad un filo sorretto dalle mani del marionettista, senza soggiacere alla forza di gravità, che inevitabilmente attira gli altri corpi verso terra. E sono perfette, ancora secondo Kleist, a causa della totale mancanza di coscienza da cui gli arti delle marionette sono caratterizzati; dal fatto insomma che il corpo della marionetta, quali che siano i suoi gesti, ha un unico centro di gravità e che la gestione di questo centro di gravità è estranea alla marionetta, dal momento che risiede nelle mani del marionettista:

Ora, siccome il marionettista, mediante il filo di ferro o lo spago, non ha in suo potere nessun altro punto se non questo [il centro di gravità del movimento], tutte le altre membra sono ciò che devono essere, morte, semplici pendoli, e seguono soltanto la legge di gravità.7

E della materialità dei manichini parla più di una volta, nel suo libro prodigioso, Le botteghe color cannella (1934) 8, il narratore polacco Bruno Schulz, proclamando l’aspirazione umana alla creazione, ma ad una creazione che non entri in competizione con quella divina, che si serva di materiali inferiori, di scarto, e non ne nasconda la volgarità dietro la ricchezza e la fantasmagoria mutevole del gioco della vita:

Questo […] è il nostro amore per la materia come tale, per la sua pelosità e porosità, per la sua unica, mistica consistenza. Il Demiurgo, grande maestro e artista, la rende invisibile, la fa sparire dietro il gioco della vita; noi, invece, amiamo la sua dissonanza, la sua resistenza, la sua maldestra rozzezza. Ci piace vedere dietro ogni gesto, ogni movimento, il suo sforzo greve, la sua inerzia, la sua mite goffaggine da orso.9

A Schulz, e con ammirazione grandissima, si richiama un altro polacco, un regista stavolta, Tadeusz Kantor, che nei suoi spettacoli inquietanti ha ripetutamente utilizzato le marionette e i manichini, attribuendo loro un significato fondamentale per la sua arte. 10 Rispetto a Schulz, Kantor fa un passo avanti nel definire il tipo di attrazione che lega la creazione umana alle marionette: egli pensa che ogni atto di creazione, da parte dell’umanità, sia un gesto di ybris e abbia a che fare con il demoniaco, con ciò che è proibito e inaccessibile alla natura umana; perciò le marionette, creazione dell’uomo che ha voluto riprodursi, sono oscuramente legate a tutto ciò che per l’uomo è terrifico, ma anche a tutto ciò che è attraente, e prima di tutto alla morte. Già in uno dei primi spettacoli di Kantor, Balladyna, su testo di Slowacki, messo in scena nel 1943, i singolari manichini utilizzati11 rappresentavano i doppi dei personaggi vivi, diventavano i loro modelli, ma dotati di una coscienza superiore, acquisita proprio attraverso la morte.
Nel manifesto Il teatro della morte, pubblicato a Cracovia nel 1975, Kantor scrive:

L’esistenza di queste creature [i manichini] foggiate a immagine dell’uomo in modo quasi sacrilego e clandestino, frutto di procedimenti eretici, porta il segno dell’aspetto oscuro, notturno, sedizioso del processo umano, l’impronta del crimine e le stigmate della morte come fonte di conoscenza. L’impressione confusa, inspiegabile, che la morte e il nulla liberino il loro messaggio inquietante attraverso una creatura che manifesta illusoriamente i caratteri della vita, benché sia priva di coscienza e di destino – è questo che provoca in noi quella sensazione di trasgressione, a un tempo rifiuto e attrazione. Proibizione e fascino. 12

Il collegamento tra le marionette e la morte è evidente anche in quello straordinario capolavoro italiano che è Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi. Che Pinocchio sia una marionetta a tutti gli effetti è quanto dichiarano, con l’entusiasmo di una agnizione, Arlecchino, Pulcinella, Rosaura e gli altri attori del teatro di Mangiafuoco:

Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare e, voltandosi verso il pubblico e accennando con la mano qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in tono drammatico:
- Numi del firmamento! Sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio.
- E’ Pinocchio davvero, - grida Pulcinella.
- E’ proprio lui, - strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena.
- E’ Pinocchio, è Pinocchio! - urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti fuori dalle quinte. -E’ Pinocchio! E’ il nostro fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio.
- Pinocchio, vieni quassù da me! - grida Arlecchino, - vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno!
13

Ma l’indiavolato ritmo delle avventure si interrompe mestamente nel finale del romanzo che, sebbene obbedisca alle necessità pedagogiche del ravvedimento del ragazzo ribelle, esprime attraverso una cupa immagine di morte il probabile dissenso dell’autore, e la sua presa di distanza da norme educative basate sulla repressione.14:

- E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?
- Eccolo là, - rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto.
15

La morte, di cui la marionetta appare la portatrice, è al tempo stesso anche il passato di un bambino in carne e ossa, che di quella abbandonata marionetta è il doppio ostentatamente trionfante: al bambino restano il presente e il futuro vitali, insieme alla dimenticanza di ogni volontà trasgressiva, mentre la condanna per l’intemperanza proibita e il ridicolo di cui la norma spesso dipinge le trasgressioni, restano, insieme a un cupo senso di morte, sulla marionetta rinnegata:

"Com’ero buffo, quand’ero burattino! E come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!" 16

Sul ridicolo che la marionetta/Pinocchio manifesta, alla fine delle Avventure, voglio restare, per allargarlo a una considerazione più generale: il teatro delle marionette esibisce il riferimento antropomorfico, ma d’altra parte, e contemporaneamente, quest’ultimo è rifiutato - o collocato in posizione parodica, cioè nel territorio del comico, per il fatto che i corpi delle marionette duplicano quelli umani in una forma inferiore in quanto approssimativa, non autonoma e priva di intelletto e spiritualità; e dunque non possono che essere la parodia dei loro modelli. Anche qui devo fare appello all’ambiguità, che è forse l’elemento costitutivo della marionetta, per collegarla stavolta ai fenomeni del comico, dove pure l’ambiguità svolge un ruolo essenziale, essendo il comico, almeno nelle sue forme più alte, fenomeno complesso, e certamente ambiguo.17 Se le marionette sono parodia del modello umano, al quale si richiamano, esse, mentre fanno ridere, si prestano, come molte formazioni parodiche, ad ospitare quanto nel modello umano viene accantonato o respinto nel fondo, mai fatto emergere all’apparenza e alla dicibilità, perché rimosso oppure dimenticato: ma se i contenuti proibiti trovano una forma ridicola, il divieto a manifestarsi si attenua, perché in questa forma essi sembrano "pesare di meno", e dunque avere una forza di rottura meno pericolosa - sembrano caricarsi di minori responsabilità.
In un travolgente spettacolo di Tadeusz Kantor, La classe morta (1975), misto di momenti comici e momenti tragici, c’è un punto estremamente emozionante, in cui i personaggi, i vecchi compagni di scuola, entrano in scena "facendo corpo" con dei manichini, che rappresentano cadaveri di bambini. E’ un’immagine molto intensa, che Kantor spiega in questi termini:

cerco in questo spettacolo di mettere in evidenza che il nostro passato finisce col diventare una riserva dimenticata dove, a fianco dei sentimenti, dei clichés, dei ritratti di coloro che un tempo ci erano cari, si trascinano alla rinfusa dei fatti, degli oggetti, dei vestiti, dei volti. La loro morte è soltanto apparente: basta toccarli perché comincino a far vibrare la memoria e a far rima con il presente. Questa immagine non è affatto il frutto di una nostalgia senile, ma traduce l’aspirazione a una vita piena e totale che abbraccia passato, presente e futuro18

Se i manichini/marionette portati in scena consentono l’epifania del rimosso con tanta evidenza e con tanta forza, è anche perché l’immagine suggerisce con efficace persuasività l’analogia fra le marionette che, inanimate, trovano energia, vita, capacità di comunicazione sotto l’azione delle dita del marionettista; e i ricordi, dimenticati e rimossi sì, però capaci, a un piccolo tocco, di rianimarsi e ritrovare il loro ritmo e il loro movimento.
Torno ancora sulla parodia per sottolineare come essa, nel caso delle marionette, sia giocata accentuando la innaturalità dei corpi artificiali, che si sforzano di imitare quelli umani – e non ci riescono mai, e meno che mai proprio quando la loro (eventuale) perfezione tecnica li rende capaci di riprodurre con molta somiglianza tutti i movimenti dei corpi umani. Ma nell’ostinato persistere della innaturalità delle marionette, anche quando è fortissima l’intenzione mimetica, molti rinnovatori del teatro novecentesco trovano il modo di saldare al teatro di marionette la polemica che tutti conducono contro il concetto troppo semplicistico del naturalismo teatrale e della sua applicazione alla recitazione degli attori. Se infatti il riferimento alla marionetta, proprio per la sua attitudine parodica verso il corpo umano, raddoppia il valore di specularità che tradizionalmente il teatro assume nei confronti del reale, e dunque riproduce a un secondo livello, sia pure straniato, il gioco di specchi sempre rappresentato dal teatro; dall’altra parte, esso contribuisce, e ancora una volta a causa del suo aspetto parodico, a rendere inservibili le idee troppo ingenue della naturalezza e del naturalismo applicate allo spettacolo.
Se ne accorse per primo Edward Gordon Craig, che in un saggio apparso nell’aprile 1908 sulla rivista "Mask", da lui diretta, provocatoriamente ebbe l’aria di proporre l’abolizione degli attori e la loro sostituzione con le marionette. In realtà la sua proposta non andava in questo senso: Craig riteneva solo che fosse necessario liberare il teatro dalle debolezze dell’attore. La supermarionetta equivale, nella sua proposta provocatoria, all’attore che, avendo acquisito alcune qualità della marionetta, dovrà manifestare una tecnica di recitazione completamente diversa da quella in uso da parte del prim’attore del teatro d’eredità ottocentesca. Al di là delle polemiche, l’aspetto più importante e innovativo della proposta di Craig è il suo rifiuto di riferirsi al corpo dell’attore come all’equivalente dei corpi reali e il ricorso a quanto c’è di ambiguo, distante, ironico, innaturale nel corpo e nella recitazione della marionetta.

La condizione psichica che lo spettacolo di marionette suscita negli spettatori (e non faccio adesso alcuna differenza tra il pubblico adulto e quello infantile) mi pare insomma che sia ben interpretato dal concetto freudiano di "perturbante".19
Il perturbante è, secondo Freud, qualcosa di spaventoso, collegato a ciò che ci è stato familiare, ha subìto una rimozione e ritorna come rimosso, portandosi dietro una sensazione d’angoscia. Questa sensazione è nuova, ma finisce per fare tutt’uno con l’immagine ritornante, di per sé neutra o perfino attraente, che il passato ci consegna. Dunque l’elemento perturbante non è niente di estraneo o insolito, ma è anzi qualcosa di familiare alla vita psichica fin dai tempi più antichi - qualcosa che si è estraniato soltanto a causa del processo di rimozione.
Freud elenca molti oggetti e molte condizioni che assumono il carattere perturbante: per esempio, il motivo del sosia, cioè la comparsa di personaggi che, presentandosi con il medesimo aspetto, devono essere considerati identici anche se sono distinti; o ancora, la ripetizione involontaria, che rende inquietante ciò che di per sé sarebbe innocuo, insinuando l’idea della fatalità e dell’ineluttabilità là dove avremmo semplicemente parlato di caso. Ma fra i numerosi esempi addotti da Freud a me preme sottolinearne in particolare due: in primo luogo, il rapporto con la morte, con i cadaveri e con il ritorno dei morti, con gli spiriti e gli spettri – e abbiamo già visto come alcuni artisti (Schulz e soprattutto Kantor) mettano esplicitamente le marionette in relazione al regno della morte e al demoniaco. Ancor più mi interessa sottolineare l’altro esempio freudiano, e cioè gli automi, i quali fanno nascere il dubbio, terribilmente inquietante, che un essere in apparenza animato sia vivo davvero, e viceversa che un oggetto privo di vita possa animarsi.
L’automa è certo diverso dalla marionetta, ma è anche analogo ad essa e, sebbene le due immagini non vadano confuse, l’impressione inquietante che producono si assomiglia. Nel corso del Novecento, dopo il saggio di Freud, l’automa ha goduto, nella letteratura, in teatro e poi nel cinema, di un’ampia fortuna, che molto probabilmente dipende dalla capacità, che l’automa possiede per le sue stesse caratteristiche, di interpretare con pertinenza alcune ossessioni tipiche dell'uomo moderno. Queste sono l'alienazione, lo spossessamento e la schizofrenia: i territori che, in termini freudiani, appartengono propriamente alla psicosi, cioè alla piena patologia psichica. Il disagio inquietante, il più innocuo perturbante che, all’inizio del Novecento, Freud connetteva all’automa, ha dunque virato, nel corso del secolo e sempre restando di pertinenza dell’automa, e si è spostato nella direzione della piena angoscia psicotica – è diventato infine paura, nel pubblico dei fruitori (o degli spettatori).
Alla marionetta, figura interpretata come più casalinga e addomesticabile, è rimasto in proprietà il territorio del comico e quello dell'infanzia: un’appartenenza che, come si è visto, ne ha determinato il declassamento. Ma a distanza di un secolo circa dall’intuizione freudiana, mi pare che si possa dire che, proprio per non aver interpretato, a causa della sua marginalità, la "tragedia dell'uomo moderno", la marionetta resti tutt’oggi l'immagine che assume con maggiore precisione il concetto del perturbante definito da Freud: e cioè una condizione psichica sfuggente e ambigua ma certamente "normale" e che mi sembra adeguato legare allo statuto teatrale e al misto di identificazione, distanziamento, proiezione, illusione, molto spesso inesplicabilmente inquietanti, che determinano il fascino dello spettacolo.

Ma non voglio trascurare il legame con il femminile, che si manifesta già, sia pure di sfuggita, all’interno del saggio di Freud, con il breve riferimento a Olimpia, la ragazza misteriosa della quale, nel racconto Il mago sabbiolino di Hoffmann, centrale per le considerazioni freudiane sul perturbante, si innamora Nathaniel, il protagonista del racconto, per poi scoprire, con delusione angosciata, che la ragazza non è altro che un automa, costruito da un ingegnere demoniaco.
D’altra parte, è perfino banale sottolineare il legame tra le donne e il mondo infantile, che è, come ho detto, l’interlocutore principale, in età moderna, degli spettacoli di marionette. Per ancorare a un’immagine precisa e ancora una volta teatrale l’ovvietà di questo legame, ricorro al personaggio di Nora, in Casa di bambola di Ibsen (1879): all’inizio del dramma Nora vi appare simile a una bambina fra i suoi figli bambini, allegra e spensierata come si suppone che i bambini debbano essere – e coccolata, anche, da un marito adulto e responsabile, allo stesso modo in cui si coccola una bambina fatua e seducentissima:

HELMER E io non vorrei averti diversa da quello che sei, mia cara piccola lodola canterina. Però… mi viene in mente una cosa. Oggi, hai un’aria così… così… come dire?… così sospetta...
NORA Io?
HELMER Sì. Guardami un po’ negli occhi.
NORA Ebbene?
HELMER La ghiottona è andata forse in città a sgranocchiare?
NORA No. Perché ti viene questa idea?
HELMER La ghiottona non ha fatto proprio una scappata nella pasticceria?
NORA No, Torvald, ti assicuro...
HELMER Non ha leccato qualche dolcino?
NORA No, davvero.
HELMER Non ha neanche assaggiato qualche amaretto?
NORA No, Torvald, ti assicuro, davvero…
HELMER Via, via, faccio per ridere…
20

Dunque, le donne si occupano dei bambini perché sono le più simili a loro, sono anzi bambine come loro. In tal modo offrono all’immaginario degli uomini un doppio motivo di seduzione: è verso donne adulte, sì, ma anche verso delle bambine che così si indirizza l’erotismo maschile. Per mezzo di questo passaggio, agendo sull’ambiguità di una immagine che è funzionale alle strategie dei ruoli sociali non meno che eccitante per gli echi sessuali che suscita, si legittima l’attrazione pederasta dei maschi adulti: avvertita come intensamente erotica anche nel mondo contemporaneo e nella civiltà occidentale, attraverso un tale travestimento o gioco in controluce essa si può affermare senza cadere sotto il tabù rigoroso che la vieta e la reprime.
Un doppio ordine di motivi concorre a avvicinare oggettivamente la dimensione delle donne e quella delle marionette. Un primo motivo è di tipo culturale: Casa di bambola mostra il modo in cui si definiscono il ruolo e gli attributi sociali e culturali della donna nella famiglia e nella società, in un Ottocento che segna il pieno trionfo della borghesia e dei suoi valori; in anni coevi la marionetta viene gradualmente sottratta alla fruizione che le era per gran tempo appartenuta, quella popolare, e diventa dominio del pubblico infantile. L’altro motivo di vicinanza appartiene a un ordine emotivo: il gioco in controluce che si instaura fra la donna adulta e la bambina, centrale nel conservare un desiderio proibito che assume però aspetto irreprensibile, obbedisce allo stesso meccanismo di ogni travestimento – lo stesso che sottostà al gioco in controluce delle marionette, rendendolo inquietante nella misura in cui, dietro i movimenti inanimati dei fantocci mossi dai fili, si delineano, straniati ma ben riconoscibili, i movimenti consapevoli dei corpi umani.
Anche in questo caso, dunque, le marionette riportano a galla un rimosso, che fa perno stavolta sui legami tra il femminile e l’infantile. Se, per quanto riguarda la psiche maschile, tale legame fa affiorare i fantasmi della pederastia, terrorizzanti tanto più quanto maggiormente appaiono suggestivi in un universo maschile che l’emancipazione delle donne priva delle sue certezze e mette profondamente in crisi; nei riguardi della psiche femminile la rimozione può essere individuata in una sorta di vergogna culturale, può cioè affondare nel rinnegamento di un passato recente, così disprezzabile e degradante da identificare la donna con la non piena umanità dei bambini. Ma può riguardare anche un meccanismo infantile, che si estende a tutti i cuccioli animali: sentendosi minacciati dalla aggressività adulta e consapevoli di essere impari a contrastare vittoriosamente tale minaccia sullo stesso terreno dell’aggressività, essi usano la loro inermità e la loro bellezza per convertire in tenerezza e affetto un impulso che nasce come distruttivo. Però sulla natura della tenerezza maschile, nella quale l’aggressività si riconverte, come pure sulle modalità della seduzione infantile pesa una fortissima componente erotica; ed è questa che si attiva con probabile consapevolezza, quando la donna adulta, a sua volta minacciata dal prepotere maschile, compie una regressione verso l’infanzia ricorrendo al grande teatro della seduzione travestita. E’ un gioco che agisce sulle grandi proibizioni culturali, scardinate proprio da chi se ne fa, come ogni donna nella famiglia, la trasmettitrice.
In questo modo è come se le marionette riproponessero un’oscura e terrorizzante immagine di sovversione, ambigua e sleale, da parte delle donne: testimonianza di una guerra di sessi che mina i principi istitutivi della civiltà e delle sue norme – e proprio perciò immagine evocata con fastidio e paura da un’emancipazione femminile che fatica a prendere atto di tutti i tormenti e le bassezze, morali e psichiche, dalle quali vuole liberarsi.




NOTE

1 Brunella Eruli adotta una espressione efficace: "Recuperata dal teatro ufficiale, essa [la marionetta] viene inserita nel ghetto del teatro per bambini", B. ERULI, Introduzione, in AA. VV., La marionetta: un'ipotesi di trasgressione, in "Quaderni di teatro", a. II, n. 8, maggio 1980, p. 4.
2 Ibidem.
3 Ricavo molte delle notizie storiche sulle marionette dal vecchio libro, ma gradevole e colto, di YORICK (Pier Coccoluto Ferrigni), La storia dei burattini, Firenze, Bemporad, 1902.
4 YORICK, La storia dei burattini, cit., p. 84. Yorick polemizza contro altre ipotesi avanzate per spiegare il nome della marionetta: ad esempio, contro l’opinione che "marionetta" sia un gallicismo derivato da Marion, un burattinaio che durante il regno di Carlo IX avrebbe introdotto in Francia la novità dei burattini mossi da fili.
5 Vittoria OTTOLENGHI, Morte e tormenti del burattino, in "Quaderni di teatro" cit., p. 96.
6 Heinrich von KLEIST, Sul teatro di marionette, Parma, Guanda, 1986.
7 Heinrich von KLEIST, Sul teatro di marionette, cit., pp. 33-34.
8 Bruno SCHULZ, Le botteghe color cannella, Torino, Einaudi, 1970.
9 Bruno SCHULZ, Trattato dei manichini, ovvero secondo libro della Genesi, in Le botteghe, cit., p. 30.
10 Per alcune notizie e commenti sull’opera teatrale di Kantor, rimando a: Jerzy POMIANOWSKI, Tadeusz Kantor, in Antonio Attisani, Enciclopedia del teatro del 900, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 235-240; Denis BABLET (a cura di), T. Kantor. Le Théâtre Cricot 2, La classe morte, Wielopole-Wielopole, Paris, Éd. Du Centre National de la Recherche Scientifique, 1983; Lido GEDDA (a cura di), Kantor. Protagonismo registico e spazio memoriale, Firenze, Liberoscambio, 1984.
11 "insieme sculture antropomorfe, elementi scenografici e bizzarre macchine sonore", Renato PALAZZI, Il genio clandestino, in Maurizio BUSCARINO, Kantor, Milano, Leonardo Arte, 2001, p. 12.
12 Tadeusz KANTOR, Il teatro della morte, a cura di Denis Bablet, Milano, Ubulibri, 1979, p. 216.
13 Carlo COLLODI, Le avventure di Pinocchio, Torino, Einaudi, 1968, pp. 31-32.
14 Fernando TEMPESTI (Chi era Collodi, in Carlo COLLODI, Pinocchio, Milano, Feltrinelli, 1972, p. 36) riferisce la testimonianza di Ermenegildo Pistelli che, avendo rimproverato lo scrittore per la brutta conclusione del romanzo, ne ebbe una risposta sconcertante: "Sarà, ma io non ho memoria d’aver finito a questo modo". E’ possibile che Pistelli abbia inventato l’episodio; ma è anche possibile che, sebbene le carte autografe di Pinocchio dimostrino che il finale è stato indubbiamente scritto da Collodi, l’autore stesso avvertisse un qualche disagio nell’adottare una normalizzazione tanto repressiva.
15 Carlo COLLODI, Le avventure di Pinocchio, cit., p. 170.
16 Ibidem.
17 Sui meccanismi psichici del comico rimando a Sigmund FREUD, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Torino, Boringhieri, 1975; Francesco ORLANDO, Due letture freudiane: Fedra e Il misantropo, Torino, Einaudi, 1990; Concetta D’ANGELI-Guido PADUANO, Il comico, Bologna, Il Mulino, 1999.
18 Tadeusz KANTOR, Il teatro della morte, cit., p. 233.
19 Sigmund FREUD, Il perturbante (1919), in L’Io e l’Es e altri scritti. 1917-1923, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, pp. 81-114.
20 Henrik IBSEN, Casa di bambola, Milano, Mondadori, 1986. Traduzione di Ervino Pocar.

 


 

L'attore musicale
Il melodramma e le marionette
di Eugenio Monti Colla

 
E' con la seconda metà del secolo XVII che nasce il connubio fra marionette e musica: fenomeno assai facile a comprendersi, se consideriamo l'epoca, l'essenza dell'attore - marionetta e la rilevanza del fenomeno musicale.
Al gusto e alla cultura dell'epoca marionetta e musica sono molto gradite: entrambe rispondono all'idea del meraviglioso, nonché del fantastico arabesco che sublimanza e maraviglia generano nel loro intreccio; entrambe adombrano l'ideale della perfezione e dell'infinito. La gestualità del novello attore suggerisce il divino, così lontana come esso è dalle umane cose e dal vero, malgrado la verosimiglianza che è presente in lui; l'armonia che scaturisce dalla note unite alla voce è foriera di contemplazione. Ma oltremodo fuori luogo sarebbe parlare di teatro.


Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli, Aida: la scena del trionfo.

Il termine più appropriato è intrattenimento con marionette, tanto lo spazio scenico riservato all'azione e la struttura drammaturgica dei testi rappresentati sono lontani dalle caratteristiche che definiscono la libertà di espressione connaturata alla marionetta ed al suo teatro. Non a caso si parla di operine o di bambocciate, preziosismi e carinerie che interpretano perfettamente lo spirito del tempo.
E per quanto storici e studiosi si siano trovati concordi nel magnificare e celebrare i fasti legati a questo fenomeno, non possiamo attribuire ad esso valori artistici e culturali che non vadano al di là del puro accademismo e della fredda esibizione scolastica. E chi ne riferisce lo fa parlandone come fenomeno "di moda".

Venezia e Bologna sono le città da cui provengono le notizie riguardanti le operine rappresentate con marionette. Ne Le glorie della poesia e della musica Gian Carlo Bombini riferisce che nel maggio 1679 era stato rappresentato, al Teatro delle Zattere, il Leandro di Camillo Badoer su musica di Francesco Antonio Massimiliano Pistocchi, celebre cantante meglio conosciuto come il Pistocchino. Egli dice che "questo Drama fu rappresentato con Figure di legno, cantando i Musici dietro le scene in una Casa su la Riva, o Fondamente detta Le Zattere, verso Ogni Santi". Lo spettacolo ebbe molto successo, al punto che venne ripreso di lì a qualche anno, e più precisamente nel 1682, presso il teatro San Moisè con diversa titolazione: Gli amori fatali.
Il Residente di Toscana presso la Serenissima Repubblica di Venezia, Matteo del Teglia, in uno scritto dell'ottobre del 1679 comunica che "al Teatro di San Moisé si farà l'opera in musica con certe figure di nuova invenzione". Ma Venezia conta fra i suoi cittadini una Vera autorità in materia di Teatro e di marionette: Filippo degli Acciaioli, altrettanto famoso per il titolo di Cavaliere di Malta quanto per le numerose invenzioni di macchinerie. Nel 1680 egli presenta nel ricostruito spazio del Teatro San Moisè, ora adibito ad intrattenimento con marionette, l'opera La Damira placata, una sua creazione su musica di Marc’Antonio Ziani.
Dei protagonisti "legnosi" Padre Enrico De Noris, sempre attraverso l'epistolario dei Residenti a Venezia, ci informa descrivendoli come "figure di legno al naturale di estraodrinario artificioso lavoro". Ma l'ingegno dell'Acciaioli è simile ad una grande fucina: l'anno successivo (1681) eccolo produrre Ulisse in Feacia con musiche di Antonio del Gaudio, opera interpretata da figure modellate in cera che consentiranno al loro costruttore di compararsi al mitico Dedalo. E nel 1689 l'incredibile uomo di teatro presenta, ancora al San Moisè, un dramma comico su musica di Jacopo Melani, Girello, opera che aveva già conosciuto a Roma, qualche anno prima, grande successo per il ricco allestimento scenico e per la comicità alquanto pesante che aveva suscitato grande ilarità negli spettatori.
Il 1682 vede il nostro artista presentare a Roma "Chi è causa del suo mal pianga se stesso", sempre con musiche dello Ziani, nel teatro del Gran Conestabile Don Lorenzo Onofrio Colonna in onore della giovane nuora dell'Anfitrione, giunta di fresco dalla terra di Spagna. Ma lo spettacolo non giunge gradito al Pontefice Innocenzo XI, così l'Acciaioli deve presentare formali scuse, sminuendo il contenuto dell'opera che egli non esita a definire "bagatella" ricorrendo ad un nomignolo che, nei secoli passati era stato attribuito agli intrattenimenti di piazza tenuti, appunto, dai bagatellieri.

Risolta la questione relativa alla "censura" papale, con la chiusa finale, comune a tutti gli autori, in cui si dichiarava un "buon Christiano", l'Acciaioli si volge a conseguire maggior fama nel 1684, anno in cui costruisce per Ferdinando de' Medici, figlio del Granduca di Toscana Cosimo III, un "edificio" (chiamasi così in gergo il complesso che comprende tutto ciò che serve a realizzare uno spettacolo di marionette) dotato di centoventiquattro personaggi e di ventiquattro cambiamenti di scenografia.


Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli, Aida: Aida e Radames.

Sempre il De Noris, in una lettera indirizzata a Giovanni Battista Ricciardi, pubblico professore nello studio di Pisa, così si esprime: "Il Principe Ferdinando ricevè tanto gusto dalla di lei comedia, che, per averne una sempre vicina, ha fatto venire da Roma periti artefici, quali gli hanno lavorato una buona compagnia di recitanti di quelli che parlano per l'altrui bocca, si muovono al moto d'un filo di ferro sottilissimo, et essendo statuette insensate, sono nelle scene mirabili ne' loro gesti. Il volgo li chiama burattini. Nella villa di Pratolino si farà la commedia de' Sig.ri Burattini, che promettono un giocondo spettacolo a gli uditori, ed a suo tempo ne sentirà anch'ella le nuove. Cotesti comici piacciono ancora a me, perché si spende poco nel prepararli le scene, meno nel vestirli, e nulla nel farli le spese. Per loro alloggio basta uno scattolone simile a quello col quale io già viaggiavo. Non v'è fra essi loro emulazione o invidia. Sono ubbidienti più che i frati; né hanno alcuno de' vizij che propri di coloro che recitano nelle scene".
E pochi giorni appresso: "Il Granduca ritornò poscia nella città per accelerare la recita di quei fantoccini, essendo qua venuto da Roma il Cav.r di Malta Acciaiuoli prattico in eccellenza di tale sorta di commedia…"E, dopo aver aggiunto notizie sulle poche prove, in grazia alla bravura degli attori di legno, sul concorso di molte dame, ci comunica che "i comici insensati" e le scene arrivati da Roma in dono al Signor Principe sono costati ventimila scudi.
Anche il Morei, nelle Notizie Istoriche degli Arcadi morti testimonia che il teatrino "era formato di 24 mutazioni di scene, e di 124 figure, tutte con tale arte fabbricate, che egli solo dirigeva colle proprie mani tutta l'opera, non facendosi in altro aiutare che nel preparare le scene, adattare a' suoi canali le figure, che a forza di contrappesi ne' detti canali mirabilmente si muovevano, e disporre le macchine, che non poche, sì nel prologo, come nell'intermezzi, e nell'opera stessa aveva egli inventate".

Un'ulteriore importante testimonianza sui trattenimenti in musica con marionette ci viene da Scipione Maffei il quale, pubblicando nel 1738 le sue Osservazioni letterarie che possono servire di continuazione ai giornali dei letterati d'Italia, ci informa che "era il Pellegrini di rara abilità nelle meccaniche onde per aver luogo d'operare secondo il genio, (Juvara) persuase al Cardinale di lasciargli costruire in una certa sala del suo palazzo un piccolo teatro ad uso di pupazzi, per farvi recitare onestissime o nobili operette in Musica, alle quali solo pochi uditori di condizione e di confidenza venivano ammessi. I compositori della musica e i pochi sonatori e cantanti erano i più scelti di Roma. Al teatro lavoravano unicamente il Pellegrini e l'Juvara, e per la verità non si sono vedute mai scene, prospettive e macchine più ammirabili, e più ingegnose in così poco sito. Le scene usate ne' i tre drammi di Costantino, Teodosio e Ciro furono pubblicate con la stampa, intagliate in acqua forte molto gentilmente dallo stesso D. Filippo".
Un compilatore di notizie teatrali, il Groppo, nel 1746 afferma che in questo genere non si poteva vedere "cosa più nobile e grandiosa". E vi è da credergli se pensiamo che il nobile Labia, appunto in quell'anno, aveva fatto edificare in contrada San Gerolamo, nelle sale di una fabbrica, un teatrino che ripeteva le proporzioni dell'allora famoso teatro di San Giovanni Crisostomo, dove, durante il Carnevale, fu rappresentata l'opera con "fantocci" Lo sternuto d'Ercole, testo di anonimo da Pier Jacopo Martelli con musica di Hasse e (…), e per la Fiera delle Bagatelle Timocleone, ovvero I rivali delusi testo di Girolamo Zanetti e musica di Hasse.
Il Michiel nelle Note ed osservazioni intorno all'origine e al progresso dei teatri e delle Rappresentazioni teatrali in Venezia e nelle città principali dei paesi Veneti, pubblicate esattamente un secolo dopo, riporta giudizi particolarmente interessanti: "Le scene e le decorazioni si muovono con macchine e ruote allo stesso identico modo che si pratica nei maggiori teatri; e le figurine degli attori sceneggiavano senza lasciar comprendere l'artificio che produceva i loro movimenti. Era magnifico il vestiario, sfarzosa l'illuminazione. Le logge, l'orchestra e la platea erano di figurine eccellentemente lavorate che rappresentavano le maschere e gli altri spettatori, come solevano vedersi nei teatri".
E nello stesso anno viene rappresentato Il Cajetto, dramma per musica di Antonio Rigo e musica di Ferdinando Bertoni. Nel Carnovale dell'anno seguente è la volta della Didone abbandonata, riduzione da Metastasio per la musica di Adolfati, e nel 1748 Gianguir, su testo di autore anonimo con musica di Giminiano Giacomelli.

Una nota a parte merita l'opera Lo sternuto d'Ercole. In questa vasta produzione di operine in musica con marionette spicca un evento molto particolare che vede quale protagonista un grande personaggio del mondo del teatro: niente meno che Carlo Goldoni il quale, adolescente, ebbe l’avventura di prestare la sua opera addirittura come regista e come marionettista. Colui che sarebbe divenuto uno dei più grandi autori di teatro nel mondo, allontanato dal collegio dove frequentava gli studi, raggiunse a Vipack, nel soggiorno estivo del conte Lantieri, luogotenente generale degli eserciti dell’imperatore Carlo VI e ispettore delle truppe austriache nelle Carnia e nel Friuli, il padre che, come medico, aveva in cura il nobiluomo.
Dice Goldoni che "il conte Lantieri aveva molti riguardi per me. Per farmi divertire fece rimettere in ordine un teatro per marionette molto ricco per figurine e di scenari, ma da tempo abbandonato. Ne approfittai e divertii l’intera compagnia rappresentando l’opera di un grand’uomo, fatta apposta per gli attori di legno: si trattava de Lo sternuto d’Ercole di Pier Jacopo Martelli, , bolognese… C’è disegno, svolgimento, intreccio, catastrofe finale, continue peripezie; lo stile è buono e ben sostenuto, i pensieri e i sentimenti sono proporzionati alla misura dei personaggi, anche i versi sono brevi: tutto davvero annuncia i Pigmei. Per il personaggio d’Ercole fu necessario far costruire una marionette gigantesca. L’esecuzione dello spettacolo fu ottima. Il divertimento riuscì molto piacevole. Se non sbaglio sono stato il solo a rappresentare le bambocciate del signor Martelli".

Altre città hanno con Venezia il primato del teatro in musica con marionette: Bologna e Roma. Bologna aveva alcuni teatri dedicati alle marionette dove, secondo le notizie riportate da Antonio Francesco Ghiselli nelle Memorie patrie e da Antonio Barilli nello Zibaldone, i nostri attori di legno sono particolarmente apprezzati per i loro movimenti aggraziati e per la loro eleganza. Si presenta: Olimpia vendicata, La Bernarda e L’enigma disciolto, Crisippo, Inganno vince inganno.


Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli, Il pifferaio di Hamelin.

A Roma personaggi celebri come il cardinal Ottoboni favoriscono questo genere di teatro e vi operano come autori, assicurandone il crescente successo. Scrittori e musicisti non mancano, gli attori di legno prolificano e gli illustri spettatori aumentano. Ma ciò che si evince distintamente è il gioco raffinato e garbato di una moda che non lascia alcuno spazio se non appunto alle "bambocciate". L’interesse è festoso, senza dubbio, gaio ma frivolo; l’intrattenimento con "pupazzi", "comici di legno", "burattini" desta stupore e meraviglia e si introduce nel rituale del viver del tempo come la volandola, la Cerussa ed i nei posticci. Chi penetrasse nell’impianto drammaturgico di un’operina come Lo sternuto d’Ercole faticherebbe non poco a ritrovare una sola scintilla di teatralità e neppure il marionettone di Ercole mantiene ciò che promette, tanto egli pure è intralciato da ovvie consuetudini poetiche che fanno presto dimenticare il suo spettacolare sternuto e le sue straordinarie dimensioni.
Le marionette, amate, vezzeggiate, ammirate, incarnano la mera certezza dell’effimero, la caducità del sentimento e la fragilità dell’emozione, ninnoli di un secolo dorato. Dietro i movimenti aggraziati, mirabili, leggiadri, la marionetta perde la propria identità, si sostituisce agli attori ed ai cantanti in un teatro che è per attori e per cantanti. E’ la meraviglia che scaturisce dalle piccole dimensioni a conquistare il pubblico dell’epoca, non la provocazione che l’attore di legno racchiude dentro di sé – e sarà proprio questo elemento a modificare la futura funzione scenica: tramonta per sempre la squallida denominazione di "bambocciata".

Quando si parla di melodramma, più esatto sarebbe parlare del melodramma per marionette perché, nella tradizione, sempre si trattò di nuova scritturazione e di nuova drammaturgia per gli attori di legno che mal sopportavano, nel loro distacco dalle umane cose, le "costruzioni" delle arie e dei duetti non che il ripetersi degli acuti, dei filati e dei trilli di virtuose e virtuosi del bel canto. Lasciati alle spalle i clamorosi successi riportati, le marionette si scostano dalla "contemplazione" scenica di eroi e di eroine circonfusi di "leggiadre aurette" alle prese con crudeli ed implacabili Divinità Superne. In realtà, e ci perdonino i cultori della musica, se ancora ripetiamo non essersi trattato di melodramma tanto ogni componente teatrale è troppo soffusa e fluttuante al punto che l’agire con marionette è gioco ed esercizio meramente arcadico e scolastico, cioè "poco marionettistico", qui intendendo la marionetta come linguaggio teatrale autonomo.
Al succedersi però di fermenti d’amor patrio e di libertà, di passioni amorose tragicamente predestinate alla infelicità, alla follia ed alla morte, di giuramenti di sempiterna fede ed amicizia, il mondo marionettistico avverte immediatamente le mutate potenzialità sceniche della materia drammaturgica da trattarsi e la ricchezza che ne viene ai nuovi personaggi i quali, ora, acquistano spessore forse meno poeticamente letterario ma, senza alcun dubbio, drammatico e foriero di sussulti dell’anima, di rovelli del pensiero, di estremi sacrifici. Il tema della morte scritta negli astri da un destino ineluttabile ed impietoso contrastava con quanto, sino ad allora, era passato sui palcoscenici lirici dove era d’obbligo il lieto fine. E quando la morte era calata sui grandi personaggi dell’opera, si era trattato soltanto di una eroica apoteosi trionfante più che del violento termine della vita. Ora appare estrema la fine, quanto estrema la passione amorosa, quanto estremo l’odio che tale passione suscita. E d’intorno, gruppi diversi pronti al tradimento, alla ribellione, all’obbedienza, alla celebrazione, alla guerra, nel mutato ruolo dell’antico Coro della classicità, ora non solo presente sulla scena ma, finalmente, partecipe della trama e della azione scenica, non più mediatore nei confronti dello spettatore ma interagente con i personaggi protagonisti di cui è spesso interlocutore, e, a sua volta, protagonista.

Nel XVIII secolo l’opera lirica ha costituito l’unico repertorio per il Teatro delle marionette, sia quello pubblico che quello privato, ma per tutto l’Ottocento e per la prima metà del Novecento, il melodramma è una scelta che si affianca ad altri filoni quali la commedia classica di Molière, di Goldoni, di Gozzi, per parlare dei più illustri, del Beringhieri, del Federici e degli autori anonimi che avevano trasformato in copioni i Canovacci della Commedia dell’Arte in dotazione ed uso presso tutte le formazioni marionettistiche; ai testi epico cavallereschi quali Guerrin Meschino, I Reali di Francia, alle Sacre Rappresentazioni della Nascita e della Passione, alle agiografie dei Santi, alle gesta dei Briganti, ai grandi romanzi quali I promessi sposi, Il giro del mondo in 80 giorni, Ventimila leghe sotto i mari, agli spettacoli che, svolgendo la funzione di mass media dell’epoca, riportavano sulla scena episodi relativi all’età Napoleonica, quali La battaglia di Austerlitz, La battaglia di Marengo o L’incendio di Mosca o agli episodi delle Guerre di Indipendenza come La battaglia di Palestro, Le battaglie di Solferino e San Martino, L’epopea di Garibaldi, le imprese delle guerre d’Africa e di Libia e la prima guerra mondiale, nonché le Riviste a sfondo satirico.
Oltre a far spettacolo, la finalità era quella di educare all’amor patrio esaltando, anche se, spesso, in forme ampollose e generalizzanti, i personaggi che le cronache e le leggende consegnavano inscritti in "medaglioni" assai stereotipati ove onore, gloria, lealtà e dovere rifulgevano splendidamente, lezione che per altro, anche il melodramma riproponeva nella rilettura dei personaggi storici secondo i dettami dell’età romantica. Ma la traboccante piena dei sentimenti che l’opera lirica portava con sé nello sviluppo musicale e scenico, consentiva agli attori di legno di raggiungere il "sublime" per accenti e per afflato poetico.
E là dove la trama e la tessitura musicale si facevano "giocose", ecco la genialità di consumati marionettisti trasformare le opere di Cimarosa, di Rossini, dei fratelli Ricci e di Piave in brillanti commedie dal ritmo incalzante con brani musicali che si alternavano a parti dialogate dove la giocosità si accentuava per la presenza del personaggio-maschera che recitava nel dialetto di origine rivestendo i panni dei diversi personaggi: Taddeo ne L’italiana in Algeri, ora Geronimo ne Il Turco in Italia, ora Crispino nell’opera dei Ricci, oppure infiltrandosi in veste di nuovo personaggio, non a caso quello di un servitore, ne Il matrimonio segreto del Cimarosa, al fine di stravolgere il finale favorendo la fuga dell’attempata Fidalma con il Conte Robinsone!
Le locandine che annunciavano le rappresentazioni recitano scrupolosamente che Baciccia, Famiola, Gianduja, Gerolamo, Facanapa, Sganaspino sosterranno la parte di…".

Nel panorama dell’opera seria, la distribuzione dei ruoli nell’edificio marionettistico, per altro, rispondeva pienamente ai "topoi" che la drammaturgia operistica aveva canonizzato: padri nobili, fanciulle indifese perseguitate, tiranni persecutori e traditori in agguato, amici di entrambi i sessi fedeli e pazienti, "solitarij" e "confidenti". Rimase escluso, per comprensibili motivi, l’ambiguo e sottile rapporto sociale e psicologico tra padri e figli che tanta incidenza ebbe nell’evoluzione drammatica dei personaggi lirici.
Il teatro di animazione affrontò l’opera seria in una atmosfera di assoluta sublimazione, al di sopra di ogni condizione umana, come se i suoi personaggi rispondessero a canoni scultorei. Così nacquero le riduzioni teatrali di Norma, di Giovanna d’Arco (dramma in quattro atti che termina con una grande Marcia funebre durante la quale la Pulzella d’Orlèans, condotta in scena sopra una barella con orifiamma, muore felice invocando il nome dell’amato Leonello), di Attila, de I masnadieri, di Macbeth (che iniziava con un sabba tenuto da Ostragamus e dalle figlie dell’Erebo nel quale il Demonio istruiva "le fide ministre del regno buio di Pluto" su come corrompere Macbeth e "trascinarlo negli Abissi", sollevando pietosamente il protagonista dalla sua predestinazione al delitto!), de Il Trovatore, de La forza del destino, de La battaglia di Legnano (di cui esisteva, assai modificato nella trama, un ballo di grande successo con protagonista il Barbarossa), di Otello, di Falstaff, di Aida (più comunemente indicata da qualche capocomico burlone con la colorata titolazione "la schiava Etiope ovvero l’Aida di Giuseppe Verdi"), in stesure che mescolavano, talvolta selvaggiamente, talaltra genialmente, i testi teatrali a cui si erano ispirati i librettisti, o a rimaneggiamenti in prosa o in versi già operati in precedenza, trasformando, il più delle volte, secondo un’antica tradizione, la tragedia in lieto fine ed inserendo, molto arbitrariamente, il personaggio-maschera in ruoli che non sempre si armonizzavano con gli altri personaggi e con la trama dell’opera.

Di una arbitraria quanto folle lieta soluzione per Il Trovatore di Verdi è giunta notizia tramite un piacevole aneddoto di cui fu protagonista il poco paziente baritono Mondini, (come racconta il figlio in una deliziosa pubblicazione dedicata ai teatrini da salotto), il quale, vedendo Leonora e Manrico "burattini" convolare a nozze fra Azucena e zingari festanti, scattando in piedi, diede un urlo così potente da spaventare l’intera platea! E non è da meno il manoscritto conservato presso la biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna in cui, a sostituire Azucena (nel mondo delle teste di legno una siffatta madre avrebbe preoccupato non poco!) vi è Maritana, sorellastra di Manrico, la quale, sconosciuta a Leonora, ne desta la potente gelosia.
Ma la ricchezza e la complessità degli allestimenti marionettistici, spesso superiori per unità stilistica a quelli dei teatri lirici, richiedevano momenti di spettacolo di grande effetto che non tutti i melodrammi italiani potevano soddisfare. E, del resto, il palcoscenico delle marionette non perseguiva la concisione spesso sopra le righe degli autori lirici ( basti pensare al processo conclusivo de Il Pirata di Bellini!).
Fu, quindi, naturale che l’attenzione si rivolgesse al mondo del Grand-Opéra francese ove il testo drammatico imponeva la presenza di alcuni effetti tipici come grandi scene di massa, balletti, sorprendenti invenzioni scenotecniche, il pittoresco e l’esotico. Oltre a tale cifra drammaturgica, entrò nel mondo marionettistico la grande lezione del teatralissimo Scribe, lezione che, da allora, rimase elemento fondamentale nel pensare lo spazio scenico nello spettacolo delle marionette: l’alternarsi di scene "corte" a scene di grande sfondo, di ambienti aperti ad ambienti chiusi, di penombra e di tutta luce. In questo fondamentale clima di rinnovamento (la scenografia dipinta, dilatandosi in più elementi di illusione prospettica, acquistò il ruolo di atmosfera e non più di ambiente) ecco entrare nel repertorio marionettistico la musica di Meyerbeer con Roberto il Diavolo, L’Africana, Il Profeta, e quella di Gomez con Il Guarany.
Che non si trattasse di una scelta di moda o di un pedissequo imitare il teatro ufficiale ma di una precisa convinzione artistica, è attestato dal fatto che, con l’avvento dell’opera verista, il sodalizio teatrale marionette e melodramma si interruppe; troppa realtà, numerose problematiche, profonda introspezione avrebbero contrastato non soltanto con la gestualità enfatica degli attori di legno ma, soprattutto, con la loro essenza, per altro, già ampiamente occupate a riproporre sul palcoscenico drammoni "borghesi" come La Monaca di Cracovia, I due sergenti, Lo zio Battista e La notte di San Silvestro, Le barricate di Parigi, La sepolta viva. Ma quando il teatro ufficiale subì una importante evoluzione con l’avvento dei registi Craig, Stanislavskij, Appia, e, soprattutto, quando i musicisti compresero nel loro percorso artistico la scritturazione per marionette, il connubio si rinnovò per spettacoli come Pierino e il lupo e L’amore delle tre melarance di Prokofiev, La boite à joujoux di Débussy, La bella addormentata nel bosco di Respighi, El retablo de Maese Pedro di De Falla, Génévieve de Brabant di Satie.
Con le nuove concezioni musicali si rinnovano anche la struttura drammaturgia, l’ideale estetico dello spettacolo marionettistico ed il significato metafisico dell’attore "marionetta". E furono contemporaneamente riprese opere come La serva padrona di Pergolesi, Cendrillo di Massenet, Il barbiere di Siviglia, La gazza ladra e La cambiale di matrimonio di Rossini. E in tempi a noi vicini Lucia di Lammermoor, Rigoletto, Carmen, Mefistofele, Cenerentola di Rossini, Il principe Igor, alcuni intermezzi goldoniani con musiche di Vivaldi e di Salieri, Cristoforo Colombo di Franchetti, I promessi sposi di Ponchielli.

Ma perché non sembri che ci si adoperi soltanto per celebrare il passato rinnovandone i fasti antichi rimanendo chiusi nell’immobilismo a cui ci hanno condannato alcuni astuti teorici etichettandoci come "teatro di tradizione", è necessario dare una risposta all’inevitabile quesito: perché, oggi, il melodramma "per" marionette? Immediata si pone la precisazione che ci vuole energicamente lontani dai rituali teatrali dedicati alle opere di Mozart, in cui eccellono, incontrastate, le Marionette di Salisburgo, imitate, ormai senza esitazione, da tutte le Compagnie marionettistiche di cultura mitteleuropea. Energicamente lontani anche dalla tecnica di animazione assolutamente perfetta, dalla concezione di spettacolo e dall’idea di marionetta di questa illustre formazione. Altrettanto immediato il rifiuto della teoria che ritiene il melodramma uno spettacolo superato di cui riappropriarsi attraverso la sua "attualizzazione". Sulle pagine di un quotidiano, tempo fa, un critico si augurava che si diffondesse, finalmente, la moda di mettere in scena gli spettacoli così come scritti e pensati dagli autori! Non sembri pertanto azzardato pensare che l’umiltà e la purezza di "oggetti" teatrali come le marionette, così emblematiche, metaforiche, al di là di ogni realtà fisica, divengano "l’intelligenza visiva" di grandi opere teatrali. Nella Storia delle marionette, antica quanto universale, in più di una situazione esse furono strumenti di "lettura" equilibrata di grandi eventi. E là dove musica, gesto, parola, luogo ed azione sono inscindibilmente teatro, vive un grande evento. Oggi come allora.

Bibliografia:
- Patrick J. Smith, La decima musa - Storia del libretto d’opera, Sansoni Editore 1981.
- Luca Zoppelli, L’opera come racconto. Modi narrativi nel Teatro musicale dell’Ottocento, Marsilio Editore 1994
- Franca Cella, Prospettive della librettistica italiana nell’età romantica, in "Contributi dell’Istituto di Filologia Moderna - Storia del Teatro", Vol. I - Vita e Pensiero 1968
- Franco Lorenzo Arruga, Incontri fra poeti e musicisti nell’opera romantica italiana, "In Contributi dell’Istituto di Filologia Moderna - Storia del Teatro", Vol. I - Vita e Pensiero 1968
- Giovanna Gronda e Paolo Fabbri, Libretti d’opera italiani dal Seicento al Novecento, Mondadori 1977
- Roger Parker, Storia illustrata dell’opera, Giunti-Ricordi 1998
- Luigi Baldacci e Gino Negri, Tutti i libretti di Verdi, Garzanti 1975
- Raffaello Monterosso, La musica nel Risorgimento, Vallardi 1942
- Doretta Cecchi, Attori di legno – Le marionette italiane tra ‘600 e ‘900, Fratelli Palombi Editori, Roma 1988
- Burattini e marionette italiane – Catalogo della mostra – Museo Teatrale alla Scala, Milano 1967
- Burattini e marionette in Italia dal ‘500 ai giorni nostri – Catalogo a cura di Maria Signorelli, Roma, Palazzo Antici Mattei, febbraio 1980
- Roberto Leydi e Alessandra Mezzanotte, Marionette e burattini, Milano 1958
- Burattini, Marionette, Pupi – Catalogo della mostra – Palazzo Reale, Milano 1980

 


 

La poesia della danza meccanica
Il balletto e il teatro di marionette
di Eugenio Monti Colla

 
Fu l'età barocca a consacrare il successo dell'intrattenimento con marionette quale rappresentazione di un mondo assolutamente "maraviglioso" per le proporzioni, per la raffinatezza, per la dovizia di marchingegni e macchinerie, per le sofisticate trasformazioni "a vista", per la ricercatezza degli arredi, per la ricchezza delle ricostruzioni scenografiche.
Mentre gli invitati del Castello di Esthérazy plaudivano alle ovidiane metamorfosi di Filemone e Bauci o alle trame di altre operine per marionette quali Genoveffa, Didone, La vendetta compiuta, La casa bruciata, scaturite dal genio musicale di Haydn per l'illustre Mecenate, e mentre gli ospiti del Conte Lantieri, nel soggiorno di Wipack, assistevano agli amori contrastati dei buffi pigmei protagonisti de Lo sternuto d'Ercole di Martelli per la musica di Hasse (il quindicenne Carlo Goldoni era, per l'occasione, marionettista d'eccezione per questa "Bambocciata", come egli la definisce), nei teatrini dei palazzi nobiliari e della ricca borghesia nei primi anni dell'800 lo spettacolo di marionette veniva ad assumere connotazioni particolari a differenza dei pubblici teatri dove trionfavano soggetti teatrali ispirati ai grandi temi pastorali e ai nobili personaggi della mitologia, secondo le inclinazioni del mondo di Arcadia e le mode dell'età neoclassica. Consultando attentamente il repertorio dei Balli del materiale teatrale di casa Borromeo, certamente il più ricco e prezioso "edificio" marionettistico di un teatro privato oggi esistente, ci troviamo di fronte a titolazioni che indicano come il ballo dalla trama pressoché inesistente che prevedeva tutori burlati, amanti che giungono, alfine, a coronare il loro sogno d'amore e creature a mezzo fra il fantastico ed il reale, fosse un pretesto per l'utilizzo di macchinerie, marchingegni e trasformazioni, elementi di una drammaturgia che aveva come finalità quella di essere puramente intrattenimento e svago. Ecco allora apparire sulla scena il Ballo detto della Marsina e della Parrucca, il Ballo dei Maccheroni, il Ballo del Pulcinella con lanterna magica, il Ballo dei Tavoli trasformati, il Ballo della Portantina ed altri ancora. Solo verso la metà dell'Ottocento troveremo una commedia tratta da Il noce di Benevento, balletto di Salvatore Viganò che per l'occasione diventa Il noce ossia Le streghe di Benevento con Arlecchino servo, ed Il nano di Saragozza, balletto fantastico ad uso di marionette. Nelle formazioni professionistiche itineranti o stabili, all'inizio del secolo, i minuscoli attori di legno diversamente interpretavano le mitiche imprese e gli amori di Apollo, Minerva, Giove, Plutone e Minosse in forme spettacolari denominate "Ballo", composizioni musicali in più quadri scenici che alternavano parti mimate a momenti di danza (pas de deux, pas de quatre, danze di carattere), secondo la moda del tempo.
La lezione giungeva dalla terra di Francia dove Jean Georges Noverre trionfava, e si diffondeva in Italia e, più precisamente, a Milano, dove era approdato, come maître de ballet presso l'Imperial Regio Teatro alla Scala, Salvatore Viganò, allievo di quel Daubreval che aveva, con devota fedeltà, trasmesso la dottrina del Noverre, di cui era discepolo.
Jean George Noverre descriveva:

"Une troupe de nymphes, à l'aspect imprévu d'une troupe de jeunes faunes, prend la fuite, avec autant de précipitation que de frayeur; les faunes, au contraire, poursuivent les nymphes avec cet empressement que donne ordinairement l'apparance du plaisir: tantôt ils s'arrêtent pour examiner l'impression qu'ils font sur les nymphes; celles-ci suspendent en même temps leur course; elles considèrent les faunes avec crainte, cherchent à démêler leurs desseins et à s'assurer par la fuite un asile qui puisse les garantir du danger qui les menace; les deux troupes se joignent, les nymphes résistent, se défendent et s'échappent avec une adresse égale à leur légèreté, etc.".

Ed affermava:

"Voilà ce que j'appelle une scène d'action où la dance doit parler avec feu, ave énergie; où les figures symétriques et compassées ne peuvent être employées sans altérer la vérité, san choquer la vraisemblance, sans affaiblir l'action et refroidir l'intérêt. Voilà, dis-je, une scène qui doit offrir un beau désordre et où l'art du compositeur ne doit se montrer que pour embellir la nature. (...)"

E fu proprio nel carattere fortemente narrativo dei balletti creati da Salvatore Viganò, improntati a complessi svolgimenti di azione che prendevano un notevole sopravvento sui momenti di danza, che il teatro delle marionette trovò occasione per un repertorio d'eccezione. Il successo, la fama e la fortuna dei balli di Viganò sollecitarono i marionettisti del tempo ad inserire nel loro repertorio gli spettacoli dell'illustre e celebre coreografo; inoltre tali composizioni offrivano ampie possibilità ad essere facilmente tradotte più in azione drammatica che coreografica., per le complesse componenti "spettacolari" come l'intreccio, i personaggi, gli avvenimenti e gli elementi ispirati al fantastico e al meraviglioso. L'Almanacco dell'anno 1822 dell'Imperial Regio Teatro alla Scala è buon testimone della genialità dell'illustre coreografo:

"Quivi egli trovò gran parte di quei mezzi, che altrove forse gli sarebber mancati per condurre la mimica a quel grado di elevatezza a cui non era mai per lo innanzi salita. Senza parlare di quei soggetti, a cui sono affidati i più importanti particolari dell'azione, e ch'egli, con un metodo inarrivabile, guidò per le vie d'un'imitazione sì bella della natura, che la mimica può reputarsi, per opera di lui, condotta allo stesso seggio delle arti più nobili, parlerò del grande cambiamento operato da esso nella massa dei ballerini delle classi secondarie, e in quella dei figuranti. Gli uni destinati talvolta a rappresentare le parti, si moveano con esagerazion, senza grazia, senza verità; gli altri erano condannati a movimenti uniformi in cadenza. Tutta la cura dei compositori non si volgeva che nel far brillare le prime parti; il resto era negletto. Viganò fu il primo che trasse il corpo di ballo dallo stato di nullità in cui giaceva da tanto tempo in Italia, e che con finezza inarrivabile nel comparto delle masse, nella disposizione dei gruppi, e nella composizione dei quadri, si mostrasse altrettanto poeta che pittore. I primi attori mimici perfezionarono anch'essi il loro stile sotto gli insegnamenti di un uomo di tanto ingegno e sapere; e i Costa, i Molinari, i Bocci, le Abrami, per tacer di tant'altri che troppo lungo sarebbe l'enumerare, dischiusero la mente a nuove idee, e provarono che sino all'arrivo di Viganò era loro mancata l'occasione di mostrarsi quali esser potevano".

E questo ed altro ammirò il pubblico della Scala ad apparire del Prometeo, uno degli indiscussi successi dell'illustre coreografo. Testimoni autorevoli Stendhal e il milanese Carlo Porta.


Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli, La marionette raccontano Milano: il Vescovo Ambrogio.

E proprio a Milano, sulla scia di tanta fama, fu il marionettista Giuseppe Fiando (il suo teatro, l'Oratorio del Bellarmino, era dislocato a pochi passi dal tempio del Piermarini) a rappresentare con le marionette, ad un anno dal suo debutto scaligero, il Prometeo di Viganò, inserendo, nel ruolo di coprotagonista, il personaggio-maschera di Gerolamo; e bisogna immaginare che si trattasse di un successo senza precedenti se lo spettacolo, rimasto in repertorio, fu rappresentato in una successiva edizione nel 1844, come testimonia una recensione del 15 ottobre di quell'anno sul bisettimanale teatrale "Il Pirata":

"Non è la prima volta che il nostro Gerolamo ci fa vedere e toccare co' fatti che egli sa imitare alla perfezione i grandi spettacoli delle nostre massime scene, e loro tener dietro per modo da riscuoterne applausi, ed iterati, e fragorosi... come ad una serata di una prima ballerina o d'una prima donna (cantante, ben intesi). Il nostro Gerolamo, oltre i mezzi che ha, possiede molto buon gusto, e al buon gusto congiunge molta intelligenza; e, l'intelligenza condisce con una grande dose di zelo, poiché ov'egli pon piede, è certo di non errare, e di riportare bensì nuovi encomi. Il nostro Gerolamo, celebrità piemontese ed ormai milanese, quando si accinge ad un impegno, non vi si mette mai da burla, ma sul serio, non risparmiando spese, non curando fatiche, occupandosi, in uno spettacolo, e dello insieme, e degli accessori. Gran cosa, gran pregio, gran merito... e parlo con voi, signori Impresari! Non vi meraviglierete dunque, nè ci taccerete di esagerazione, se vi verremo asserendo che il Prometeo è qui magnificamente ed esattamente allestito, che nulla gli manca, che tutto concorre a renderlo degno dell'attenzione non solo dei ragazzi, ma degli adulti ben anco e dei vecchi o semi-vecchi; non vi meraviglierete se vi diremo, che anche coloro che nel 1813 lo videro nascere alla Scala gli accordano la loro approvazione, e lo chiamarono il Prometeo in miniatura. Né Gerolamo fa qui la figura affatto del plagiario, del pittore che copia i visi e le teste di Raffaello, e poi sostiene che crea, del romanziere che traduce e poi dice che inventa, del tragico che ruba all'Alfieri o al Niccolini scene e pensieri di sbalzo e poi fa il muso duro a chi non lo chiama autore originale e sublime. Gerolamo, da quell'avveduto ch'egli è, vi ha introdotto le sue belle e buone innovazioni, d'un ballo ne fa un dramma, e con versi, che si avvicinano alla prosa, pur son migliori di tanti che tutto dì si stampano e ne si vendono per tipo di poesia italiana. E non è questa l'opinione d'un solo, la mia particolare opinione; ve lo ripete il fior di Milano che accorre in folla a vedere il Prometeo, intendendo per fiore signorili famiglie, amabili e leggiadre donnine, ragguardevoli persone. Né tralasciate di notare, a laude del vero, che è tempo di vacanza, che l'autunno ha fatto della città quasi un deserto... che chi non ha i ceppi ai piedi, come noi giornalisti, ha voluto salutar la Brianza, specchiarsi nell'onde del lago di Lecco od ispirarsi ne' beati dintorni di Como. Al redir di San Carlo, al cader delle foglie, il locale del nostro Fiando non basterà a contenere tutti i suoi ammiratori..."

E non deve stupire se anche Compagnie marionettistiche che non avevano ancora un teatro stabile come Fiando inserivano nel loro repertorio i balli del Viganò. Così, dal palcoscenico del Teatro alla Scala, confluirono nel mondo delle teste di legno della Carlo Colla e Figli, allora compagnia itinerante, Il noce di Benevento con il titolo Argante e Gerolamo nella selva incantata di Benevento e Le Vestali, spettacoli che ottennero uno straordinario successo per le tematiche simboliche e per le trame suggestive che presentavano. Le foreste incantate abitate da streghe in lotta fra loro e intente a beffarsi di servi sciocchi e gli anfiteatri d'epoca romana affollati da centurioni intrepidi pronti a sfidare leoni feroci, da Vestali innamorate, da bighe e soldati, non potevano che stuzzicare l'estro teatrale dei Colla, i quali vedevano nelle trame dei balletti la possibilità di escogitare congegni e macchinerie spettacolari, tali da sopravanzare gli allestimenti di qualsiasi teatro d'opera.
Una scelta artistica di tal fatta, ovviamente, poneva in primo piano la forma pantomimica, senza, peraltro, trascurare la danza, almeno a giudicare dalle impressioni che molti personaggi illustri e critici teatrali riportarono dopo aver assistito agli spettacoli interpretati dalle marionette. E il successo, proprio per le stesse componenti teatrali, continuò ininterrotto se nel maggio del 1940, dopo più di un secolo, quando ormai i Colla erano stabili al Gerolamo dall'inizio del Novecento, la scrittrice Camilla Cederna a proposito dello spettacolo Le Vestali dalle pagine de "La sera" riporta queste impressioni:

"Tragedie evitate e ballerine siriache: il circo era affollatissimo di soldati romani, di belle signore con reticelle di perle, di bimbi irrequieti in toga bianca, il sole splendeva e in mezzo all'arena un leone africano, in attesa della preda, dava balzi feroci e orribili sguardi all'ingiro. Ma venne Decio che era un baldo centurione a trafiggerlo con estrema destrezza e venne un servo a trascinarlo via, tirandolo per la coda. A questo punto allora, Livia, una sottile vestale, coronò d'alloro l'eroe e dopo averlo guardato negli occhi, perdutamente se ne innamorò. Le ballerine siriache, tutte in bianco e argento, per festeggiare la vittoria, danzarono sulle punte, senza mai perdere il tempo; mirabile anzi fu un passo a due, durante il quale una di esse riuscì, con belle piroette a salire sulle spalle del compagno e a fare di lassù un ampio gesto di saluto al pubblico. Seguì poi la premiazione e il trionfo per le vie della città. Sfilarono i guerrieri lucenti di elmi e di corazze, i figli dei pompeiani, festanti, sventolavano fronde, i cavalli avanzavano a scrolloni, un po' impauriti dalla grande folla. Decio sorrideva dalla biga infiorata e intorno c'era un delizioso scenario: Pompei gaia e soleggiata aveva ornato i suoi templi di festoni rossi e verdi, i balconi di fiori turchini, le finestre di tende color ruggine con frange. Sopra un cielo bellissimo senza una nube. Che contrasto col quadro seguente! Era questo il tempio delle vestali, oscuro e profondo, ahimè gravissime cose erano accadute. Livia, bella e indolente, e per di più distratta come tutti gli innamorati, aveva lasciato che il fuoco sacro si spegnesse e le sue compagne, benché il loro cuore se ne dolesse, decisero, come era prescritto in simili casi, di seppellirla viva. La musica pianse desolatamente, il primo violino singhiozzava forte e Livia stava già per sparire sotto una grossa pietra, quando il cielo si squarciò, i lampi balenarono, il Vesuvio cominciò a sputare fuoco e Decio, in mezzo a fumo e faville, arrivò a liberare la sua bella e a portarsela lontano, galoppando su un cavallo bianco. Le sacerdotesse svenivano a gruppi, la lava colava velocemente e tremendi rumori eccitavano il pubblico bambino; intanto la gente di Pompei scappava a gambe levate: i vecchi sulle spalle dei figli, le bestie tirate dai contadini, gli amanti già lontani e in salvo. Sullo sfondo il Vesuvio continuava a fiammeggiare. Che bello, il leone sembra vivo! - esclamò uno dei bimbi felici che si dirigevano all'uscita: - Il fuoco, il fuoco! che paura ho avuto! - rispondeva un altro, pestando un poco i piedi. Noi invece rimanemmo seduto ai nostri posti, insolitamente assorti e sereni finché il teatro fu quasi sgombro".

A tanta dovizia di effetti spettacolari si aggiungeva una precisa intenzione nel fare teatro. Al titolo Le Vestali si era sostituito quello di Gli ultimi giorni di Pompei di maggiore richiamo per il pubblico, nell'ottica di un teatro popolare come è quello delle marionette. Ed il successo si ripeté puntualmente quando lo spettacolo, in una riscrittura del 1980 incentrata sulle testimonianze degli scavi e dei reperti archeologici (parte del lavoro di allestimento fu fatto durante un soggiorno estivo a Pompei) a cura di chi scrive, fu presentato a Milano e successivamente a Berlino, a Parigi, a Grenoble e al Festival dei Due Mondi di Spoleto.


Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli, La marionette raccontano Milano: la mensa dei poveri.

Grande fortuna ebbe anche il ballo La flûte enchantée où Les danseurs involontaires che nel 1818 il mimo italiano Fortunato Bernardelli portò a Mosca. Il successo fu tale che nel 1893 al Piccolo Teatro della Scuola Imperiale di Ballo di Pietroburgo comparve una nuova versione dello stesso balletto dal titolo Il flauto magico, coreografia e libretto di Lev Ivanov su musica di Riccardo Drigo.
Ma nell'archivio storico della Compagnia Carlo Colla e Figli il ballo Il flauto magico compare già nel 1866, anche se in un particolare adattamento che vede mutate alcune situazioni ambientali e alcuni personaggi al fine di favorire, particolarmente, l'atmosfera fiabesca della trama ed il carattere grottesco dei protagonisti. Lo spettacolo, poi in repertorio dal 1924 con il titolo Lo Spirito Folletto, fu rappresentato per molte stagioni al Teatro Gerolamo di Milano.
Questa la trama del balletto originario: Lisa, figlia di una ricca possidente, ama Luca, non gradito alla madre per la sua povertà. Il Marchese del luogo, sceso al villaggio per scegliersi la sposa, pone gli occhi su Lisa e ne chiede la mano. Lisa però, nonostante le pressioni materne, lo canzona. Mentre Luca attende Lisa, vede la madre di lei cacciare un povero eremita mendicante. Impietosito dal suo miserevole stato, Luca gli dona la sua ultima moneta, ricevendone quale ricompensa un flauto incantato, il cui suono induce tutti a danzare. Il Marchese accusa Luca di stregoneria e il giudice, indotto anch'egli a danzare, lo condanna a morte. Ma l'eremita si rivela come Oberon e lo salva; scaccia il Marchese e obbliga la madre, in cambio del suo perdono, a consentire le nozze di Luca con Lisa.
La trasposizione nel mondo delle marionette ha mantenuto gli elementi più lineari della trama così da conferirle un certo afflato poetico ed ha sviluppato in forme simboliche e metafisiche altri aspetti drammaturgici. Siamo nella seconda metà del secolo XVII, in un luogo imprecisato. Le costruzioni caratteristiche fanno pensare alla Francia, alla regione fiamminga o comunque all'Europa Centrale.
L'azione si apre su un ambiente che, pur essendo realistico, il parco del castello di Bellariva, è già di per sé sognante, così immerso nel verde fra cascate di fronde e fitto fogliame che una sapiente mano pittorica ha realizzato senza linee nitide e delimitanti, così da trasportare immediatamente lo spettatore in una atmosfera particolare.
Zanetto, il protagonista, è centro di tale atmosfera, lui che è giardiniere e ama la musica. Il flauto gli è compagno e su di esso modula il richiamo d'amore per la sua bella. Equilibrio di armonia che si compone fra l'amore per la natura che nasce dal lavoro e l'amore per la musica, quella dei pastori, della siringa del dio Pan, del mondo virgiliano in cui lo sprofondare nella natura è certezza di realtà metafisica e non banale rifuggire dal mondo che sta d'intorno.
Irma è il personaggio della fanciulla innamorata che la tradizione burattinesca e marionettistica ha consacrato: bella, giovane, infelice per la decisione del padre di maritarla ad un uomo nobile e ricco ma, soprattutto, fedele all'uomo che ama e fiduciosa negli eventi. Estranea agli avvenimenti che sconvolgono i nobili personaggi che vivono intorno a lei, la sua presenza caratterizza momenti romantici che hanno sempre come sfondo l'ambiente naturalistico che è il mondo del suo amato: il parco nel primo quadro, quando mette a parte della decisione paterna l'amato Zanetto; il parco di notte, in riva al laghetto illuminato dall'argenteo raggio della luna, mentre attende il giovane innamorato che fugge dalla Sala di Giustizia; il regno incantato dello Spirito Folletto dove, finalmente, coronerà il suo sogno d'amore in un trionfo di personaggi fantastici. Creatura evanescente, realizzata scenicamente fra il pianto e la tenerezza amorosa.
Intorno ai due innamorati, calati in un mondo che non recepiscono né per delicatezza di sentimenti né per sensibilità alla realtà che li circonda, stanno i personaggi dei potenti: un padre, un nobile sposo, un giudice, un usciere, i gendarmi, figure burlate nell'esercizio della loro autorità. Saggiamente e acutamente il marionettista ne ha fatto personaggi buffi, immaginandoli in contrapposizione fisica, che è teatralmente dualismo compositivo di univocità scenica, e irridendo alla loro posizione (basti pensare alla trasformazione del giudice in asino recalcitrante, allo sposo trascinato dai folletti, ai gendarmi che ballano) senza, però, che la burla si trasformi in punizione. Perché punirli? E per che cosa? La mancanza di "cuor gentile" a cui giungono i richiami profondi e i sussurri misteriosi del mondo della natura, l'armonia della musica o le voci più concrete di coloro che soffrono intorno, non può e non deve essere giustificazione per una punizione. Né lo Spirito Folletto è creatura divina. E' sufficiente dimensione teatrale quella di lasciarli trafelati e spossati per il ballo cui hanno involontariamente partecipato (una "Monferrina"!), allineati nel loro schematismo mentale, con le case e con gli oggetti trascinati con loro nel ritmo voluto dal magico flauto.
Ammiccamento del marionettista al pubblico è la presenza del burattinaio con la sua baracca che dà spettacolo sulla piazza. Semplicemente teatro nel teatro? Voluta polemica con chi vuole negare la popolarità del teatro delle marionette per eternamente considerarlo a mo' di "giovin signor" figlio di una opulenta società aristocratica e borghese? Espediente di eccezione, tuttavia, ed unico in tutto il repertorio della "Carlo Colla e Figli". E, forse soltanto espediente scenico per ciò che dalla baracca scaturirà a conclusione del quadro secondo il rituale degli oggetti a trasformazione.
Il Folletto non ha nessun legame con la tradizione nordica, nulla ricorda più la figura di Oberon dell'originale azione coreografica, né gli elfi; il suo intervento non è magico, è gioco, è burla, è canzonatura. Egli non è neppure divinità pagana o genio benefico. E' spirito di un mondo ignorato e spesso trascurato che si manifesta in forma benevola. Naturalmente, in rispetto ad un'antica tradizione di teatro classico, è, soprattutto, deus ex machina, con interventi che nulla hanno di soprannaturale ma che stravolgono semplicemente una logica comune: basti pensare al penultimo quadro, in cui persuade realisticamente il Barone padre ad accondiscendere alle nozze di Zanetto con Irma.
Ed è interessante, in un discorso simbolico come quello relativo al teatro delle marionette, vedere come questo personaggio si ricomponga nel mondo a cui appartiene: il quadro finale è, infatti, lettura fantastica in cui figurazioni e personaggi sono soltanto composizioni coreografiche, strettamente legate alla festa popolare che diventa spettacolo.
Una curiosità per gli amanti della musica: nella partitura, a firma di Allegrini, compaiono due brani tratti da celebri balletti, il famoso "pizzicato" di Silvye di Delibes e le variazioni della protagonista nel secondo atto di Giselle di Adam sulle cui note danza il personaggio della Follia. Ironia delle teste di legno sul triste destino dell'eroina romantica!
Ma il successo più travolgente coronò la fatica artistica delle Compagnie marionettistiche quando i "magatèi", come affettuosamente i milanesi hanno da sempre chiamato le marionette, interpretarono, a pochi anni dal debutto scaligero del 1881, il ballo Excelsior, su libretto di Luigi Manzotti e musica di Romualdo Marenco. Fu il grande paradosso: celebrare il mondo delle scoperte e delle invenzioni "tirando" i fili! Era quella "macchina semplice" che la marionetta rappresenta ad inneggiare al trionfo della Luce e della civiltà sull'Oscurantismo (in abito da frate nelle prime contestate edizioni marionettistiche!) con messinscene senza precedenti, con sofisticati macchinismi ed effetti spettacolari, realizzando, così, quello che il teatro degli "attori" in carne ed ossa non poteva permettersi a causa degli altissimi costi e delle ovvie impossibilità legate ai palcoscenici "ufficiali". Fu la Compagnia Zane che l'8 marzo 1884, tre anni dopo il debutto scaligero, presentò al Teatro Gerolamo il ballo Excelsior con un successo così travolgente da richiamare numerosissimi spettatori, al punto che il cronista del "Corriere della Sera" confessò di non aver potuto accedere alla sala:

"Continuano i successi strepitosi dell'Excelsior al Teatro Gerolamo. Iersera, un quarto d'ora prima delle otto, abbiamo tentato invano di entrare in platea. Ci siamo dovuti accontentare di star nell'atrio a vedere il pubblico salire ai palchetti. C'erano tutte le celebrità danzanti milanesi, c'era il Sindaco Belinzaghi e c'erano parecchie delle solite famiglie frequentatrici del Manzoni. Stassera proveremo a recarci al simpatico teatrino alle sette e mezzo".

E "La Perseveranza":

"L'Excelsior - il gran ballo del Manzotti - ha avuto ieri sera al Gerolamo un nuovo successo; anzi uno dei soliti strepitosi successi. Bisogna vedere come quelle brave teste di legno, dirette dal Zane, sanno rappresentare con arte mirabile i diversi personaggi manzottiani, così da parere, nelle loro mosse, nei loro gesti d'avere una non comune intelligenza. Truce e rabbioso l'Oscurantismo, maestosa e sfolgorante la Civiltà, il volto pieno di genio e d'ansietà, il Papin avvilito e calpestato, gli ingegneri e minatori del Cenisio con le trepidazioni affannose prima che cada l'ultimo diaframma, che si abbandonano poi all'ebbrezza della vittoria: infine, in tutti, un "talento" miracoloso. Il ballo è riprodotto fedelmente dal principio alla fine, nella proporzione, s'intende, della piccola scena, e con lusso di costumi superiore ad ogni elogio. Il primo ballabile, la celebre mazurka dei postiglioni, il galop dei fattorini del telegrafo, il gran ballabile dell'Istmo di Suez e l'ultimo delle Nazioni, con l'apoteosi finale, hanno fatto furore. Così il combattimento nel deserto, ove un beduino colpito da un palla cade morto mentre il cavallo continua illeso nella corsa precipitosa, e l'Oscurantismo che si scotta le mani nel toccare la pila, e il ponte aereo con due treni che si incontrano mentre il battello a vapore fila di sotto molti nodi all'ora. Tutto magnificamente bene, con una illusione degna di un grande teatro di teste... meno dure. La musica del Marenco accresce l'incanto... Pare d'essere alla Scala. Quanta gente questo Excelsior farà accorrere al Gerolamo! Il bravo Zane rimpiangerà ogni sera, come ieri, che la sala non abbia qualche metro di più in ampiezza".

Qualche anno più tardi è la Compagnia di Antonio Colla, figlio primogenito di Giuseppe, capostipite della dinastia, a presentare al Teatro Gerolamo di Milano il grande ballo inneggiante al Progresso e a portarlo, addirittura, a Città del Capo e a Londra, al Regent's Theatre, unitamente allo spettacolo Il diluvio universale.
Nel 1895 Carlo Colla jr, nipote di Antonio, a Caluso, realizza "con il gentile consenso dell'autore" lo spettacolo Civiltà e Progresso che, dopo poco tempo, col titolo di Excelsior entrerà nel repertorio della Compagnia Carlo Colla e Figli diventando uno dei "cavalli di battaglia" che, sino al 1957, hanno trionfato sul palcoscenico del Teatro Gerolamo e che, ancora oggi, segnano, in Italia e all'estero, la fama e la notorietà di questa formazione marionettistica.
Anche Vittorio Podrecca, avvocato e giornalista insigne, il più grande impresario di spettacoli marionettistici di questo secolo che aveva tralasciato la metafora e le simbologie del teatro marionettistico di tradizione per valorizzarne, al contrario, la perfezione tecnica, introdusse nel repertorio dei suoi "Piccoli" il galop del secondo quadro.
E per parlare del nostro tempo, va ricordato che negli scorsi anni le marionette della Compagnia Lupi di Torino riproposero, in un allestimento a firma di Filippo Crivelli, il ballo Pietro Micca della premiata ditta Luigi Manzotti e Giovanni Chiti, curato nella parte musicale da Mario Pasi. L'evento fu particolarmente interessante per gli antichi materiali (marionette, scene, costumi) della famosa formazione marionettistica, che tornavano alla luce per un'occasione assai più consona alla fama e alla storia della Compagnia, che non gli spettacoli realizzati in anni più recenti. Alquanto discutibile sembrò, invece, la presenza di un attore che, esternamente al teatrino, interpretava il ruolo del Conte Raffaele della Torre, sovvertendo inevitabilmente gli spazi scenici degli attori di legno ed annullando totalmente la funzione prospettica delle splendide scenografie d'epoca liberamente ispirate a quelle del pittore Magnani realizzate per la prima rappresentazione avvenuta a Torino, al Teatro Vittorio Emanuele, nell'autunno del 1843.
Ma tutto ciò potrebbe acquistare soltanto un sapore di antica nostalgia se non si considerasse, nel parlare di marionette e balletto, anche il presente e il futuro.
Per trattare dell'oggi, la Carlo Colla e Figli, invitata al Berliner Festwochen a celebrare mezzo secolo di cultura sovietica con la messinscena di un'opera lirica e di due balletti, realizza gli allestimenti di Shéhérazade su musiche di Rimskij-Korsakov e di Pétruschka su musica di Igor Strawinsky, nelle trascrizioni per pianoforte a quattro mani curate dagli autori. Invece di ripercorrere il soggetto del coreografico in un atto di Léon Bakst creato per i balletti russi di Diaghilev, l'edizione marionettistica ha tessuto una trama ispirata ai temi descritti dall'autore del poema sinfonico (il viaggio di Simbad, il guerriero di Bronzo, il Principe Calender, Shéhérazade, la città di Bagdad), dove personaggi reali e fantastici si alternano sulla scena come il sogno e la realtà che i protagonisti vivono. L'azione drammaturgica ripete la struttura dell'azione pantomimica alla Viganò con l'inserimento di parti danzate: pas de deux, pas de quatre e danze di carattere. L'impianto scenico prende l'avvio dai ricordi di Simbad il marinaio e del Principe Calender trasportando l'azione negli abissi marini, nei giardini d'Oriente e nella reggia del Califfo Shariar. Per il balletto di Strawinsky l'attenzione del marionettista si è soffermata sulla funzione simbolica e metafisica che il personaggio di Pétruschka ed il mondo in cui il pupazzo vive, riassumono. E proprio a quel mondo (il laboratorio del marionettista) egli ha affidato il compito di restituire visivamente i momenti più poetici della struttura musicale.
Non stupisca un'operazione come quella indicata che, per la prima volta nella storia dello spettacolo marionettistico, affronta il balletto moderno: il teatro marionettistico di tradizione, pur vivendo artisticamente di una sua specificità che, disturbando Kleist, sfugge al teatro degli esseri umani, in particolare al teatro-danza, affonda le sue radici nella struttura del gran ballo scaligero, là dove mimi, danzatori e tramagnini erano parte indispensabile del balletto. Va da sé che spettacoli di grande successo rappresentati al Gerolamo dalla Carlo Colla e Figli come L'umile eroe, Cristoforo Colombo, La serenata di Pierrot, Il Drago Verde, I saltimbanchi e Cenerentola furono strutturati come veri e propri balletti su impianto drammaturgico alla Noverre; ed altrettanto dicasi per quelli della Compagnia Zane come La dea dei fiori o La battaglia di Legnano. Ed a tale operazione teatrale si ispirano i costumi, le scenografie ed il materiale di attrezzistica nonché la tecnica di movimento delle marionette.
Non bisogna dare vita alle marionette, ma sollecitare soltanto la vita che sprigiona dalla loro immobilità. E' questa che il pubblico scopre quando le vede da vicino e dice che sono belle. Non è la bellezza dei costumi, delle acconciature o degli accessori, quella che viene immediatamente recepita, ma è tutto questo sommato alla "legnosità". L'azione coreografica, la pantomima, nascono dalla coralità del movimento. Movimento meccanico, indicativo, nessuna interiorizzazione o morbidezza di passaggio mimico. La gestualità deve risultare ampollosa e soltanto riassuntiva di momenti psicologici esclusivamente affidati al fraseggio musicale. Le note ed il gesto non devono comparire quali dicotomia dell'azione scenica. La musica è già azione, è spazio per il movimento in cui ogni gesto è premessa o risoluzione, clausola della struttura coreografica.
Quando un personaggio "parla", ha, cioè, azione dominante sugli altri, alle figure di contorno spetta la controscena: non movimenti che isolino dalla coralità ma sola tensione nell'ascoltare. Commenti a due o tre soltanto, sui momenti di pausa o di esitazione, presenti nella partitura musicale, gesti solo accennati e non suscettibili di involuzione o reiterazione, semmai sola inclinazione della testa facendo perno sui fili portanti; una mano, non articolata, leggermente sospesa è già indicazione gestuale, di pathos...
Il ballo: occorre isolare la tipologia di ogni danza. Il pas de deux e il pas de quatre sono un retaggio classico in cui devono mescolarsi l'imitazione del gesto umano e l'abilità tecnica in sintesi così precisa che meccanicità diventi tensione. Il pubblico deve sapere che sono "pezzi" di legno ma deve abbandonarsi alla loro bravura, a ciò che essi fanno, allo spazio fantastico che li riporta in un attimo a tutti i ballerini in carne ed ossa che ha veduto esibirsi in palcoscenico, al cinema, in televisione, e comunque, preferire in quel momento questi che non superano il metro e che non sono esseri umani...
Agli aerei intrecci delle farfalle e delle libellule, corrispondono i ritmi cadenzati e i movimenti goffi e bamboleggianti dei fiori, così caricaturali come essi sono nella figurazione scenica che petali, steli e corolle hanno assunto...
Deve assomigliare ad un ballo campestre, ad una festa di paese, estremamente popolare e immediata. I folletti devono sfiorare l'assito del palcoscenico più che evidenziare passi di danza, devono colpire per l'insieme dei colori, per la statura, per il rapido alternarsi dei loro movimenti, per quanto di gaio e di scattante c'è nella loro presenza.
A conclusione di questo excursus, appare oltremodo interessante constatare come il teatro marionettistico di tradizione possa oggi ancora restituirci, insieme ad un'antica sapienza del fare spettacolo, trame e partiture immeritatamente trascurate dai teatri lirici e dai grandi festival di teatro danza, e continuare, nel contempo, a tramandare la forma spettacolare del "gran ballo" esaltando la potenza e la suggestione della gestualità, e affermando, insieme, il valore simbolico e allegorico che se, spesso, sui grandi palcoscenici, con mimi e ballerini in carne ed ossa, assume toni sfuocati e indeboliti dal tempo, sul palcoscenico delle marionette rivela spessore drammaturgico e acquista quella valenza metafisica che ci riporta, inevitabilmente, all'origine della marionetta, rito e magia, gioco ed incanto.
 


 

Marionette milanesi
La storia della compagnia
di Compagnia Marionettistica Carlo Colla e Figli

 



Il XVIII secolo, al suo declinare, già aveva consacrato il successo e la fortuna delle marionette in Milano. E non soltanto per le antiche maschere della Commedia dell'Arte ma, soprattutto, per un nuovo curioso personaggio particolarmente gradito al pubblico milanese: Gerolamo della Crina. Le incerte notizie sulla sua nascita, in parte reali ed in parti fantastiche come per tutti i personaggi divenuti un mito, lo vogliono originario di di un paese dell'Astigiano, Caglianetto, verso la prima metà del Seicento, e intrattenitore di un vasto pubblico sulle piazze delle piccole città e dei villaggi. Nel Settecento è protagonista assoluto degli spettacoli del marionettista Sales a cui causò non pochi guai per l'omonimia con alcuni personaggi in carne ed ossa che vantavano nobili prosapie e parentele illustri. A Genova, infatti, il Sales fu invitato a lasciare la città poiché non era gradito al Doge Gerolamo Durazzo che una marionetta, sempre pronta a lanciare strali ai potenti e a strizzare l'occhio al pubblico sulle umane vicende, portasse il suo stesso nome.
Trasferitosi a Torino, il marionettista e la sua celebre marionetta trovarono un'accoglienza altrettanto ostile; in un'epoca di dominazione francese non era gradito che in Borgo Doragrossa il pubblico si affollasse allegramente per assistere al dramma semi-serio dal titolo inequivocabile Artabano tiranno universale, con Gerolamo suo fido scudiero. La chiara allusione a Napoleone Bonaparte, futuro imperatore, e al fratello Giuseppe, offrì il destro ai funzionari della Polizia per espellere marionette e marionettisti.
La città di Milano, al contrario, accolse con calorosa cordialità questo buffo personaggio di legno che vestiva una livrea di taglio settecentesco color rosso scuro profilata di rosso chiaro, con cravatta bianca annodata, a metà fra il fazzoletto da collo di uso campestre ed una trascurata galla alla Vallière, calzava calze rosse e scarpe con grossa fibbia, portava in capo un cappello a lucerna di chiara moda illuminista e parlava una lingua che ricordava agli spettatori milanesi una terra libera ed indipendente: il Piemonte. Si muoveva e si dimenava in palcoscenico, portava le mani sui fianchi girando la testa ora verso i suoi interlocutori ora verso il pubblico e tracannava sulla scena un quintino di buon vino che un piccolo serbatoio occultato nella cavità superiore del corpo restituiva, una volta calata la tela
Chi dava vita al personaggio era questa volta il marionettista Giuseppe Fiando il quale presentò i suoi spettacoli dapprima in un locale situato in Piazza del Duomo presso l'Albergo del Dazio Grande e poi in uno stabile della Piazza dei Tribunali, l'odierna zona di Via Mercanti.
Un dipinto di Angelo Inganni, raffigurante la piazza del Duomo di Milano sul lato della Loggia dei Mercanti, mostra la "plancia" (così, anticamente, venivano chiamate le locandine illustrate degli spettacoli marionettistici, divise in "quarti" che presentavano i momenti salienti dell'azione scenica) recante l'avviso di uno spettacolo del Teatro Fiando detto Gerolamo, tratto da un fatto di cronaca nera accaduto in Olanda: La Luna del 13 marzo con Gerolamo avvocato difensore.
L'abilità del Fiando e la ricchezza dei suoi spettacoli riscossero, col passare degli anni, grande successo e conclamata fama al punto che con un decreto del 24 marzo 1807 gli venne concesso l'Oratorio del Bellarmino sito in Piazza Cesare Beccaria dove oggi sorge il monumento dell'illustre statista a cui i milanesi intitolarono la piazza.
Il locale fu trasformato in sala teatrale dal Canonica, allievo del Piermarini e la facciata affidata al Tazzini. Va detto che nella città di Milano molti erano i teatri di marionette e tutti assai frequentati come il Lentasio, il Sant'Antonio, il Santa Redegonda ed i marionettisti che vi agivano o vi avevano agito erano assai illustri come il Re, il Nardi che presentava il personaggio di Gianduja, ed il Macchi. Ma il repertorio di Giuseppe Fiando seppe resistere a tanta concorrenza (ivi compreso un teatro meccanico a Porta Orientale) anche per la puntuale insistenza con cui inoltrava richiesta alle autorità cittadine per ospitare nel suo locale anche spettacoli di genere vario. Il repertorio marionettistico era comunque di grande richiamo non soltanto per la varietà ma, soprattutto, per la costante attenzione del nostro marionettista agli spettacoli che trionfavano sui palcoscenici della città: i drammi e le tragedie presentati dagli attori in carne ed ossa (basti pensare al Temistocle di Metastasio o ad Alvaros mano di sangue, cavallo di battaglia del celebre Bon), i grandi balli a firma dei celebri coreografi e danzatori del Teatro alla Scala come Prometeo o Il noce di Benevento, le fiabe di Carlo Gozzi Il mostro turchino e La regina serpente, le riduzioni dei grandi romanzi come Robinson Crusoè, le numerose commedie interpretate dalle maschere della Commedia dell'Arte e i grandi melodrammi con orchestrina (Giovanni Ricordi suonava il violino al Gerolamo) e cantanti dal vivo. Nella seconda metà del secolo il Consiglio Comunale decise il destino di Fiando e del suo teatro: l'abbattimento delle costruzioni Fiando, Daverio, Mevola, Carretti.
Ma soltanto dopo due anni sulla Piazza del Palazzo di Giustizia fu costruito un nuovo teatro per le marionette: disegno di Paolo Ambrosini Spinella, costruttori Rivolta e Pellini, i due capimastri che curavano l'edificazione della Galleria Vittorio Emanuele su progetto del Mengoni. Il nuovo edificio è definito da un cronista dell'epoca elegantissimo per le colonnine, le travature in ferro, le decorazioni in stucco dorato e l'ornato a fiori della volta. A due anni dall'inaugurazione esordisce nella sala del Gerolamo anche il teatro dialettale che, per qualche tempo, si alternerà agli spettacoli di marionette sino al 1871, quando queste ultime la faranno da padrone in uno spazio costruito a loro misura e dimensione. Solo sporadicamente le Compagnia dialettali rientreranno al Gerolamo. La Compagnia Fiando diretta dalla vedova del celebre marionettista, presenta una nutrita programmazione alternando la ripresa di spettacoli di grande successo a nuove produzioni. Di particolare interesse, in questi anni, le riviste teatrali, importate da Parigi, che vedono Gerolamo e Meneghino protagonisti di eventi contemporanei. Di particolare interesse le riviste del 1897 e del 1898; quest'ultima, nel quadro finale, presentava i protagonisti del Risorgimento intenti al gioco delle carte disturbati dal Pedreterno intenzionato ad inviare sulla terra qualcuno che portasse un poco di scompiglio.
Dopo un decennio la famiglia Fiando abbandona il Teatro che, da quel momento affidato ad un impresario, ospiterà le più celebri formazioni marionettistiche del momento: la Compagnia Zane, che tornerà nella sala-bomboniera di Piazza Beccaria a più riprese, con grande successo sino al trionfo dovuto alla messainscena del ballo Excelsior; la Compagnia di Antonio Colla (il maggiore dei figli del capostipite Giuseppe) che, in diverse stagioni, presentava spettacoli come Guarany e Dogali, obbligando le autorità ad intervenire per timore di rinnovate agitazioni popolari contro la politica coloniale; e la Compagnia Gorno dell'Acqua.
Nel 1906 l'impresario Gittardi che dirigeva il Gerolamo, piuttosto malcontento per le ultime esperienze vissute con le compagnie marionettistiche, aveva deciso di non ospitare più attori di legno. Ma recatosi a Vigevano ad assistere a Pietro Micca, spettacolo della Compagnia Carlo Colla e Figli, scritturò quei marionettisti per quella ed altre stagioni. Così la Compagnia Carlo Colla e Figli fece il suo ingresso al Teatro Gerolamo di Milano, dove rimarrà sino al 1957, assumendo dal 1911 in poi anche la gestione della sala di Piazza Beccaria. Ma per conoscere la storia dei Colla occorre camminare a ritroso per quasi un secolo.
A qualche passo dal Duomo, fra la Corsia dei Servi e la Piazza Beccaria, sorgeva il vicolo San Martino. Qui, fra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, esisteva il palazzo di Giovanbattista Colla, un ricco commerciante proprietario di una rivendita di legna, carbone e foraggi ("sostra" era il nome che veniva dato a questi edifici), fornitore prima dell'Imperial Esercito Austriaco e poi delle Armate degli invasori Francesi.
Nel 1805 egli battezzò nella chiesa di Santa Maria alla Corsia dei Servi, oggi San Carlo, il figlio Carlo Gaspare Gioachino, detto Giuseppe, "Compadre il Signor D. Gioachino Valcharzer Cordoba figlio del fu D. Pietro della Parrocchia di San Sepolcro", come attesta il certificato di battesimo ritrovato nell'archivio parrocchiale a firma del Curato Borroni.
Il nome altisonante del padrino sottolinea le amicizie di buon tono, le stesse che, con molta probabilità, affollavano le sale di casa Colla e assistevano agli spettacoli di marionette che vi si tenevano per diporto. Il Colla, infatti, secondo l'uso del tempo, aveva adibito una delle sale del palazzo per darvi spettacolo facendo costruire un teatro di marionette dotato di scenografie e di personaggi alti, all'incirca, quaranta centimetri.
Lo spettacolo delle marionette nel teatrino di casa era una moda che accomunava le famiglie aristocratiche e quelle della borghesia, come attesta Goethe il cui Guglielmo Maister, fanciullo, assiste in casa della nonna paterna, nell'incantata atmosfera natalizia, allo spettacolo di Davide contro il gigante Golia. Carlo Goldoni adolescente, nelle delizie di Wipack, ospite dei Conti Lantieri, si esibisce in qualità di marionettista usando un teatrino dalle ricche decorazioni con mutamenti di sontuose scenografie, rappresentando Lo sternuto d'Ercole su versi di Martelli e musica di Hasse. I preziosi materiali teatrali di Casa Borromeo all'Isola Madre, costruiti da rinomati ed illustri artisti, sono un raro quanto ricco documento di tale consuetudine.
Certamente nessuno della famiglia Colla avrebbe mai immaginato che lo svago privato potesse dare origine ad una formazione marionettistica vera e propria. Fu infatti un rovescio di fortuna dovuto ai tempi assai burrascosi, agli improvvisi mutamenti di padrone, che costrinse la famiglia Colla a dover abbandonare Milano e a cercare rifugio altrove.
Non si hanno notizie di quel che sia avvenuto negli anni che seguirono immediatamente le epurazioni avvenute dopo il Congresso di Vienna per chi aveva avuto rapporti con i francesi, né delle peregrinazioni a cui fu costretta la famiglia dopo aver lasciato il capoluogo lombardo. Soltanto dal 6 marzo 1835, mentre la Compagnia teneva spettacoli nella "piazza" di Borgo Vercelli, furono annotati su di un libro mastro gli spostamenti della formazione nei vari paesi e cittadine del Piemonte, le opere rappresentate, gli incassi e le spese sostenute. E' questa la data con cui ufficialmente si indica l'inizio dell'attività professionale della famiglia Colla, guidata da Giuseppe Colla ormai trentenne.
E' curioso notare come il repertorio di questo periodo abbia pochissimo in comune con quello delle altre compagnie. Le titolazioni di spettacoli come Le prigioni di Lambergher, La venuta dell'Anticristo, Il creditor burlato, Il sagrifizio delle Vergini, Li equivoci in confusione non trovano riscontro presso altre formazioni marionettistiche. Possiamo pensare che esistesse una produzione propria o che i Colla attingessero a fonti totalmente estranee al pubblico delle grandi città ma più vicine alla tradizione del popolo ed ispirate ad un concetto di teatro molto più genuino ed immediato. Tale ipotesi è confermata ampiamente dal protagonista degli spettacoli, la maschera Famiola, sconosciuta alle compagnie marionettistiche che in quegli anni e nei seguenti, almeno sino al 1861, diedero spettacoli nelle diverse regioni dell'Italia settentrionale.
Famiola era il nome derivato dalla traduzione dell'espressione piemontese "J l'ai fam" (ho fame), che il singolare personaggio pronunciava nascendo da un enorme uovo che campeggiava al centro della scena; gioco scenico comune ai personaggi nati dalla fantasia popolare poiché già nel luglio 1806, a Milano, il Fiando aveva rappresentato la commedia "Il povero superbo ed il ricco ignorante con Gerolamo nato dall'uovo". Un secolo più tardi, e precisamente nell'aprile 1908, il burattinaio Campogalliani presentava al pubblico milanese lo spettacolo "Fasolino che nasce e muore dall'uovo".
Famiola indossava pantaloni, gilet e giacca di panno rosso bordati di bianco, calze a righe bianche e rosse, scarpe nere con fibbia settecentesca, parrucca nera con codino rialzato stretto da un nastro rosso, uno zucchettino rosso sul capo e al collo una vistosa cravatta verde a farfalla, insieme di colori che non doveva passare inosservato in territorio piemontese!
In quegli anni in cui la storia d'Italia, e, in particolare, del Piemonte, si preparava ad eventi importanti, l'attività continuò con ugual ritmo rispettando gli stessi itinerari nella scelta delle "piazze" che, sprovviste di un teatro vero e proprio, senza possibilità quindi di ospitare attori e cantanti in carne ed ossa, cominciarono ad accogliere con particolare simpatia le compagnie marionettistiche di passaggio (e questa dei Colla in particolare), ad entusiasmarsi alle peripezie di Famiola, finto buffone sordomuto per aiutare un padrone perseguitato ingiustamente o ingenuo interlocutore di un Sultano iroso, nel tentativo di ricongiungere amanti separati da ineluttabile destino.

All'interesse per le commedie di repertorio, che precedevano balli a sfondo storico come L'incendio di Mosca o a sfondo mitologico quali Plutone e Minerva, si aggiunse il fervore commosso dei tempi nuovi quando la Compagnia Colla si presentò con lo spettacolo La battaglia di Palestro.
Era accaduto che Giuseppe Colla, alla fine del maggio 1859, si fosse trovato nel bel mezzo della battaglia di Palestro e avesse di lontano assistito allo scontro fra piemontesi ed austriaci operando validamente con la popolazione. E naturalmente il pubblico accolse trionfalmente lo spettacolo che mostrava avvenimenti di cui era giunta soltanto un'eco confusa.
Nel 1861, con la morte del fondatore avvenuta il 21 maggio a Soresina, la struttura della Compagnia mutò, poiché i figli Antonio, Carlo e Giovanni, unici sopravvissuti della numerosa figliolanza, decisero di dividersi l'edificio teatrale (così si chiama, in gergo marionettistico, il patrimonio costituito da marionette, teste di ricambio, costumi, scenari, copioni e materiale di attrezzeria) e diedero vita a tre diverse compagnie. Antonio, dopo un sodalizio con il marionettista Croce, morì senza eredi; Carlo diede vita alla formazione Carlo Colla e Figli di cui ci occupiamo; da Giovanni discese la Compagnia "Giacomo Colla e famiglia", oggi nota come "Le marionette di Gianni e Cosetta Colla".
Carlo Colla prese ad annotare la storia della sua Compagnia a Broni il 22 agosto del 1863.
I piccoli paesi e le borgate scomparvero quasi del tutto per lasciar posto, nell'itinerario della Compagnia, alle grandi città e ai centri più importanti, indizio preciso di un'attività professionale che andava migliorando qualitativamente sino al punto di essere in grado di soddisfare un pubblico sempre più esigente. Gli spostamenti diventarono meno frequenti poiché la Compagnia sostava per circa tre mesi in ogni piazza; si arrivò, persino, ad un massimo di sette località in un anno e tutte comprese fra il territorio piemontese e quello dell'Oltrepò Pavese, zona in cui i Colla erano già simpaticamente noti.
Ed arriviamo al 1889, anno in cui una grave malattia alla gola colpì Carlo Colla costringendolo a ridurre notevolmente in un primo tempo, e poi del tutto, il suo lavoro di direttore della Compagnia e ad abbandonare per sempre l'interpretazione della maschera di Famiola.
Il sedicenne Carlo jr., maggiore dei figli maschi, si trovò improvvisamente a sostituire il padre negli impegni e nelle scadenze relative all'attività marionettistica. Necessariamente gli anni che seguirono furono dedicati a conseguire la praticaccia nel combinare affari, nel coordinare gli spostamenti della Compagnia con le esigenze di montaggio e smontaggio dell'attrezzatura scenica, nel trattare con gli impresari teatrali non sempre ben disposti verso un giovanissimo alle prime armi.
Il giovane Carlo, nell'intraprendere la sua carriera di teatrante, aveva seguito con profonda ammirazione i successi dello zio Antonio, notando la tecnica raffinata del maneggio, la preziosità e l'eleganza degli allestimenti scenici, elementi teatrali che gli avevano aperto la strada verso un pubblico raffinato ed esigente come quello del Teatro Gerolamo di Milano. In lui cominciò a farsi luce l'idea che esistesse la possibilità di realizzare spettacoli eccezionali attraverso un lavoro serio, prima in sede di studio e poi in fase di allestimento; soprattutto comprese che sarebbe nata una grande compagnia se egli fosse riuscito a infondere nei fratelli l'idea di una creazione che scaturisse da diverse competenze fra loro coordinate.
E la prima fu proprio il ballo Excelsior che nacque, durante un periodo di licenza dal servizio militare, a Caluso nel 1895 con il titolo di Civiltà e Progresso; naturalmente gli allestimenti dei grandi teatri, con attori in carne ed ossa, cioè, e dei complessi marionettistici che avevano agito nella capitale lombarda (ne va dimenticata l'ammirazione per lo zio Antonio) dovettero influenzare notevolmente l'inventiva del giovane capocomico ma, altrettanto naturalmente, il senso della scena, l'immediatezza del rapporto fra il teatro, specie quello delle marionette, ed il pubblico, trovarono il loro giusto rilievo non solamente in ciò che il libretto descrittivo del Cav. Manzotti esigeva ma nella rigorosa comprensione degli elementi storici che quella sfavillante allegoria, specchio di un'epoca e delle sue illusioni, richiedeva dalla magica ironia delle teste di legno. Le scenografie del Mens e del Bellio, gli effetti di luce, gli splendidi costumi, i numerosi giochi scenici e le graziose movenze dei 215 personaggi che vi agivano furono espressione di una abilità marionettistica che stava diventando sempre più evidente.
Carlo ritornò definitivamente alla direzione della Compagnia sul finire del 1896, riprese l'interpretazione della maschera e la direzione della Compagnia in cui era stato sostituito, per tutta la durata della ferma militare, dal fratello Giovanni.
Gli anni seguenti vedono l'allestimento e la messainscena di spettacoli ispirati ai grandi temi che permettevano a tutte le forme spettacolari di grande presa sul pubblico di trionfare.
Una impronta particolare fu data anche al modo di concepire la recitazione che tutti i marionettisti dell'epoca mantenevano generalmente su toni assai caricati, ampollosi e roboanti: Carlo preferì una tecnica più legata allo straniamento e mantenuta su tonalità particolari che potessero sostituire la mimica facciale di cui i piccoli personaggi di legno non potevano servirsi per esprimere sentimenti e moti dell'animo, e divenire realtà esteriore di un'anima che la caratterizzazione del volto della marionetta già presagiva nella sua immobilità. Il sodalizio fra i quattro fratelli divenne importante per il gusto con cui si dedicarono alle diverse interpretazioni dei personaggi e alla sorprendente abilità con cui riuscivano a variare il timbro delle voci passando dal registro baritonale a quello tenorile, al falsetto e alla caricatura.
Il successo fu immediato e gli spostamenti della Compagnia incominciarono a comprendere anche grosse città fra cui Parma, dove i Colla approdarono nel 1899 al Teatro San Giovanni con la nuova produzione Da Port Arthur a Tokio cui seguì, l'anno dopo, La Serenata di Pierrot. Qui gli spettacoli dovettero soddisfare un palato piuttosto difficile (basti pensare ad alcune calde serate al Regio!) dei Parmensi i quali accolsero per sei anni consecutivi i Colla, divenuti estremamente popolari, con stagioni teatrali della durata di circa otto mesi.
Nel 1906, proprio a Parma, accaddero due avvenimenti di notevole importanza nella storia dei Colla: la morte del vecchio Carlo, sopravvissuto per parecchi anni alla sua forzata rinuncia al capocomicato, e la realizzazione dello spettacolo Pietro Micca, che rappresentò l'occasione per raggiungere il Gerolamo di Milano.
E al Gerolamo la Compagnia ritornerà nella stagione teatrale seguente, e poi ancora e ancora sino al 1911, anno in cui i Colla diventeranno Teatro stabile delle marionette (l'unico in Milano, dopo il Teatro alla Scala!) assumendo anche la gestione della sala. Al personaggio di Famiola viene sostituito quello del più celebre Gerolamo a cui il teatro era intitolato da più di un secolo.
Dal 1911 sino al secondo conflitto mondiale al Gerolamo il sipario si alza alle 20,45 di tutti i giorni, escluso il venerdì, con doppio spettacolo al giovedì e alla domenica e nei giorni festivi. Ed è un rito per i milanesi accorrervi a Natale, a S. Stefano, a Capodanno, nel giorno dell'Epifania e a Carnevale.
Insieme al pubblico di sempre, negli anni, assistono agli spettacoli della Carlo Colla e Figli spettatori illustri del mondo dell'arte e della cultura come Gordon Craig, Stravinsky, Simone Weil, Luchino Visconti, Erminio Macario, Paolo Poli, Lila De Nobili, Filippo Crivelli, Giancarlo Menotti, a testimoniare con il loro interesse ed i loro scritti come il teatro delle marionette, con la sua popolarità, fosse momento indimenticabile per contenuti e per emozioni, ma soprattutto per la grande sapienza nel fare spettacolo.
Con la "crescita" della Compagnia anche il repertorio si misura con una città come Milano: le marionette interpretano melodrammi, fiabe, balletti, i classici della letteratura, riviste, operette, farse, poemi epici e cavallereschi; non vi è genere che resista alla fascinazione con cui gli attori di legno e gli attanti recitano sul palcoscenico.
Per esse mostrano un particolare interesse le grandi ed importanti ditte che chiedono il loro nome sul siparietto pubblicitario che cala ad ogni intervallo e sui programmi di sala. Negli anni Trenta viene addirittura allestito uno spettacolo a sfondo pubblicitario per una importante ditta farmaceutica e negli anni Cinquanta, durante gli intervalli dello spettacolo, sono rappresentati veri e propri spot pubblicitari con marionette, scene e costumi appositamente disegnati e costruiti.
Persino il cinema sceglie queste marionette e questi marionettisti in più occasioni: nel 1916 con Il sogno folle, nel 1935 con I quattro moschettieri di Nizza e Morbelli, tratto dalla rivista radiofonica che spopolava all'epoca, nel 1946 con Cristoforo Colombo, Il gatto dagli stivali, Cenerentola e L'orfanella delle stelle interpretato da Gandusio e dagli stessi Colla.
Un grande della musica, Manuel De Falla, per la prima mondiale del suo Retablo a Venezia, nel 1932, vuole i Colla di Milano per animare i personaggi creati da Otto Morach.
Nel 1952 Carlo II, causa il suo stato di salute, affida la direzione della Compagnia al nipote Giuseppe. Così gli spettacoli al Gerolamo continuano sino al 1957.
Ma i tempi sono mutati. L'avvento della televisione e il dilagare delle produzioni cinematografiche dei cartoni animati polarizzano l'attenzione del pubblico rendendo faticosa la gestione del Teatro Gerolamo, che è anche minacciato di demolizione da un nuovo piano regolatore. Carlo II Colla, unico sopravvissuto dei fratelli, con quella auctoritas che lo aveva sempre distinto, decide di sciogliere la Compagnia e di abbandonare la sala del Gerolamo. L'intervento della Amministrazione pubblica, sollecitata durante reiterati incontri per circa un anno, concede che il materiale teatrale sia ospitato nelle Depositerie Comunali di via Meda.
Dopo l'abbandono dei Colla il Gerolamo è dichiarato monumento nazionale ed affidato al Piccolo Teatro di Milano.
Nel 1965, dopo otto duri anni di silenzio e di indifferenza sul futuro di questo patrimonio artistico e culturale, Angela, Cesarina, Teresa, Carla, Carlo III ed Eugenio Monti, figlio di Carla, decidono di recuperare il materiale teatrale e di riprendere l'attività.
L'anno successivo si inaugura presso l'Università Cattolica del S. Cuore di Milano una esposizione dei materiali teatrali dei Colla voluta da Mario Apollonio e da Monsignor Guido Aceti.
La Scala offre ai Colla di riprendere per due stagioni consecutive il celebre ballo Excelsior nella incantevole sede della Piccola Scala. Nello stesso anno il regista Filippo Crivelli, affezionato spettatore del Teatro Gerolamo, allestisce sul palcoscenico del Maggio Musicale Fiorentino il ballo "Excelsior" con Carla Fracci, Ludmilla Tcherina ed altre étoiles della danza; chiede che nel foyer del Teatro siano ricostruiti alcuni piccoli palcoscenici con scene, costumi e personaggi dell'edizione marionettistico dei Colla.
Nel 1970 Giancarlo Menotti "Duca" di Spoleto, che già nel 1957, al momento di abbandonare il Gerolamo aveva offerto ai Colla di trasferirsi nella cittadina umbra per partecipare al nascituro Festival dei Due Mondi, invita la riunita Compagnia Carlo Colla e Figli a rappresentare Excelsior. La presenza dei marionettisti milanesi si ripeterà a Spoleto nel 1971 e dal 1990 ad ogni edizione del Festival con nuove e vecchie produzioni, sempre acclamate ed osannate dal pubblico italiano ed internazionale.
Per tutti gli anni Settanta, ormai direttore artistico Eugenio Monti, la Carlo Colla e Figli raffina la tendenza a compiere un lavoro di ricerca filologica, riscrittura e recupero su quanto di più valido il materiale della compagnia presenta.
Nel 1980 l'incontro con il CRT offre agli spettacoli della Carlo Colla e Figli l'occasione di essere conosciuti nei teatri di tutto il mondo: Francia, Spagna, Germania, Olanda, Gran Bretagna, Russia, Cecoslovacchia, Ungheria, Grecia, Stati Uniti, Messico, Venezuela, Argentina e Australia.
La Compagnia partecipa a festival di grandissima risonanza internazionale come il Festival di Edimburgo (1983), il Festival d'Automne a Parigi (1984, 1987), La Biennale Teatro a Venezia (1985), il Festival of Three Worlds a Charleston negli Stati Uniti (1987, 1989), il I Festival di Teatro Italiano a Mosca (1990), il Fundateneo Festival di Caracas (1991), Italiana a Buenos Aires (1992), Europa Festival Praga e Budapest (1993) e poi ancora piazze importantissime quali Berlino, Freiburg, Nancy, Canterbury, Amsterdam, Leuven, Colonia, Francoforte, Barcellona, Amiens, Città del Messico, e altre manifestazioni di gran pregio e cultura, dove si arriva ad avere il tutto esaurito di pubblico adulto in sale di 600 posti e 1000 posti.
Fra le più prestigiose realizzazioni di questi anni sono il Prometeo, Aida, La tempesta di Eduardo, la trilogia Omaggio a Goldoni.
Il sodalizio con il CRT si interrompe nel 1994, quando l'Associazione Grupporiani assume in proprio anche la distribuzione degli spettacoli della Compagnia Carlo Colla e Figli.
Con la ripresa del 1965 la Carlo Colla e Figli ha subito una trasformazione radicale nei confronti della tradizione della grandi compagnie marionettistiche del passato: lo staff dei marionettisti. L'uso infatti prevedeva l'impiego di soli componenti la famiglia che dava il nome alla compagnia, uso impossibile negli anni Sessanta non fosse altro per i costumi cambiati in fatto di numero medio di figli. La Compagnia Carlo Colla e Figli quindi unì gli ultimi eredi della raffinatissima abilità di destreggiarsi fra bilancini e fili, a marionettisti provenienti da altre formazioni ormai sciolte e a giovani che volevano intraprendere l'antico mestiere.
Oggi Carlo III ed Eugenio Monti Colla sono gli ultimi marionettisti che agirono al Teatro Gerolamo: la loro maestria ormai sembra incredibile e affascinante dote naturale più che risultato della lunga frequentazione con fili e bilancini. I nuovi marionettisti hanno invece dato vita all'Associazione Grupporiani (che prende nome dalla loro prima sede in Via Oriani a Milano, appunto).
L'Associazione Grupporiani (sotto la direzione artistica di Eugenio Monti Colla) ha messo a punto e perfezionato una serie di laboratori artigiani per la manutenzione dell'edificio marionettistico della Compagnia Carlo Colla e Figli e per la creazione di nuovi spettacoli.
Il pubblico, generalmente, non sa che i componenti del gruppo, si occupano anche di restaurare continuamente il materiale antico. Le marionette necessitano di cure particolari che vanno, per esempio, dalla ricucitura di un orlo alla risuolatura di una scarpa perché le marionette, camminando sul palcoscenico, consumano tacchi e suole, proprio come gli attori veri. Le parrucche, poi, vanno acconciate ogni volta e gli abiti vanno ripuliti, aggiustati e riposti.
Le scene, tutte in carta, vanno continuamente controllate e rinforzate là dove le piegature hanno indebolito la struttura e le macchine di scena vanno verificate ad ogni spettacolo.
Questa attività giornaliera ha fatto sì che i laboratori della Grupporiani siano diventati anche i più qualificati e competenti nel restauro di marionette provenienti da raccolte pubbliche e private. A questo proposito vale qui ricordare il restauro del materiale marionettistico del Museo di Novara, del fondo Rissone appartenente al Museo dell'Attore di Genova, della collezione Cenderelli del Museo della Marionetta di Campomorone (GE).
Grazie alla grande competenza e capacità di realizzazione e alla ricchezza dei materiali usati, la Grupporiani viene spesso richiesta di costruire marionette da collezione tratte dal repertorio classico oppure da quello delle avanguardie storiche, come Il cavaliere errante di Kokoschka eseguito per il Museo Guggenheim di New York.
Dai laboratori escono anche interi nuovi allestimenti ogni volta che il materiale antico non è sufficiente o la riproposta di un testo crea nuove necessità.
Si può comprendere quindi come mai parte dell'attività della Grupporiani sia rivolta anche all'organizzazione di seminari e stages sia per uso interno che aperti a partecipanti esterni.
I seminari si svolgono in sede o anche all'estero, come per esempio quelli organizzati a Berlino nel 1992 e nel 1993 per il Tanzwerkstatt.
L'abilità artigianale dei laboratori della Grupporiani hanno indotto molti operatori del settore teatrale a servirsi del loro apporto per creazioni artigianali come nel caso della realizzazione di marionette a grandezza d'uomo su disegno di Renato Guttuso per La foresta: radice, labirinto nel 1987, la scenografia per La finta semplice di Mozart al Teatro Scientifico di Mantova, scene e costumi per Orfeo all'inferno di Offenbach per l'A.S.L.I.C.O., i costumi de Il flauto magico di Mozart (regia di Arruga a Ravenna Festival), i costumi per Noblesse oblige di Santucci (regia di Shammah) e La maschera di Bertolazzi (regia di Crivelli) entrambi al teatro Franco Parenti di Milano.
La Grupporiani sperimenta anche altre tecniche tipiche del teatro d'animazione: nel 1983 ha realizzato sotto la guida di Cesi Barazzi una spettacolazione di espressione corporea e tecnica delle ombre, nel 1988 ha realizzato La famiglia dell'antiquario di Carlo Goldoni per burattini, e nel 1990 ha creato un teatrino su nero i cui personaggi sono stati protagonisti di serial televisivi per ragazzi.
Oggi la Compagnia Carlo Colla e Figli, oltre a continuare l'attività di compagnia di giro in Italia e all'estero, persegue una politica di presenza continua nella città di Milano all'Atelier Carlo Colla e Figli che l'Associazione Grupporiani ha trasformato, assumendone i costi, da laboratorio a spazio teatrale da duecento posti: qui l'attività si svolge con spettacoli mirati per le scuole e un repertorio dedicato a un pubblico colto e di amatori.
Sono di questi anni le nuove produzioni de La leggenda di Pocahontas, La lampada di Aladino, Il Pifferaio magico, Il principe Igor, Sheherazade/Petruschka fino ai recentissimi Il trovatore e La bella addormentata nel bosco.
La collaborazione con ricercatori nel campo musicale, quali i maestri Antonio Sinagra, Roberto Cacciapaglia, Alfredo Lacosegliaz, Paolo Vaglieri, Danilo Lorenzini, già sperimentata con successo in occasione delle manifestazioni goldoniane e colombiane, permette l'esplorazione e il recupero del repertorio musicale per marionette che ha visto, nel XVIII secolo soprattutto, l'apporto di grandi compositori.
Inoltre la Grupporiani prosegue le attività didattiche e di laboratorio che le sono proprie e si propone come punto di riferimento per compagnie e gruppi internazionali che praticano la tradizione o la ricerca ad alto livello nel campo del teatro di animazione.
Dal 1992 l'Associazione Grupporiani ha aperto una scuola di formazione per chi intende lavorare in questo specifico settore del Teatro di animazione, intitolandola a Giuseppe Fiando, il primo marionettista di Milano.
Dal 2000 è in atto una convenzione con il Piccolo Teatro di Milano, che prevede la realizzazione della stagione milanese della Compagnia Carlo Colla e Figli presso il Teatro Studio e il Teatro Grassi, storica sede del Piccolo.

 


 

Cattedrale di Cartapesta
Il Bread & Puppet a Firenze
di Alessandra Giuntoni

 
"Noi coltiviamo il grano, lo maciniamo, impastiamo con lievito naturale la cui origine risale a più di cent’anni fa e poi cuociamo il pane in forni a legna. Quando facciamo spettacoli in giro, costruisco il forno sul posto e poi il pane cotto viene distribuito alla gente per essere mangiato. Soprattutto in America Latina, negli slums, la gente capisce. Pane non è un contorno, è nutrimento. E’ lì che viene usato nel modo giusto. Quando costruiamo i forni, che nelle città in occidente è proibito fare, ci sono magari ragazzi turchi, o sloveni, o nordafricani che si fermano a guardare e dicono: ‘è così che faceva anche mio nonno’. Proibiscono i forni nelle città per obbligarci ad usare la corrente, che è più costosa, e la cui produzione inquina di più" .
 
Dal 1970 il Bread & Puppet ha sede nel Vermont, l’estremo nord-est degli Stati Uniti, dove conduce vita contadina e dove continua a coltivare la terra, a fare il pane, a fare il teatro. Durante l'inverno la compagnia è spesso in tournée per spettacoli, parate e laboratori in Europa, Centro e Sud America, Australia o Africa, mentre durante l’estate avviene la costruzione dei nuovi pupazzi con i volontari provenienti da tutto il mondo che partecipano alla produzione annuale del Circo della Resurrezione Domestica, il gran festival per la "celebrazione della bellezza e per il lamento per le pene dell’esistenza". Com’è nella cifra di B&P si tratta di una kermesse fatta di spettacoli contadini, allestiti utilizzando materiali naturali come il legno o la cartapesta o addirittura materiale riciclato:
 
"nel nostro lavoro cerchiamo di partire dalla spazzatura, l'arte non ha bisogno di grandi istituzioni, mostriamo alla gente che ci può essere una vita al di fuori del classico way of life" .
 
Spettacoli straordinariamente semplici che rifiutano un’astrazione simbolica sofisticata ma privilegiano un livello primario di ricezione. E’ il caso della Cattedrale di Cartapesta dei Sette Bisogni di Base, la mostra-allestimento ospite a Firenze al Teatro della Pergola, dal 10 ottobre al 2 novembre 2002. Evento d’eccezione all’interno della rassegna "Il debutto di Amleto", l’intero progetto è a cura di Andrea Mancini del Teatrino dei Fondi che ne ha firmato le scelte artistiche (ricordiamo inoltre la pubblicazione del volume Bread & Puppet. La cattedrale di cartapesta edito da Titivillus, di cui offriamo qui sotto una anticipazione) in collaborazione con la Regione Toscana, l’Ente Teatrale Italiano, il Teatro della Pergola di Firenze, la Biblioteca Teatrale Alfonso Spadoni.
La Cattedrale di cartapesta nasce originariamente per il padiglione dei "bisogni essenziali" all’Esposizione Universale di Hannover e contiene centinaia di sculture, pitture e incisioni su legno che vanno dalle figurine colorate alte 10 cm. ai grandi pupazzi tipici del Bread & Puppet.
Dal pieghevole di sala riportiamo i seguenti "bisogni essenziali" su cui si sofferma il percorso della performance, frutto di un laboratorio tenuto dagli attori della compagnia con allievi di gruppi italiani:

Bisogni essenziali
1) amicizia e bontà
2) confronto con i demoni
3) sussistenza senza essere schiavi dell’economia del denaro
4) estasi
5) tutte le cose buone
6) coraggio
7) insurrezione contro l’ordine stabilito

 
Lo spazio è scandito da una successione di cappelle coloratissime, ognuna delle quali ospita un bisogno essenziale. Anche il suono è studiato nei minimi particolari: una polifonia di carrucole, di corde che stridono, di voci di allievi che intonano canti e controcanti da madrigali, produce un effetto festoso e toccante da allegoria medievale. Le cappelle si animano durante la performance ed i loro fruscii accompagnano quella che ha sempre più l’aspetto di una celebrazione liturgica dal sapore agreste di riti officiati in favore di divinità boschive o ctonie. La grande marionetta volante appesa al soffitto sembra sempre in procinto di prendere il volo e di planare infine sulle nostre teste di spettatori incantati e commossi davanti a tanta magia evocativa. Comincia la "Messa dell’insurrezione con la marcia funebre per un’idea bacata" articolata in dieci movimenti:
 
1) la popolazione produce dei di cartapesta
2) introduzione degli dei
3) preghiera d’apertura
4) inno del giorno
5) oratorio dell’insurrezione
6) lettura delle sacre scritture del giorno
7) trasformazione delle sacre scritture del giorno in inferno
8) invio dell’idea bacata del giorno alla bocca de l’inferno
9) sermone del giorno
10) marcia funebre per l’idea bacata

 
L’idea bacata nel giorno della nostra visita è la dichiarazione del presidente americano George W.Bush: "E’ possibile estinguere l’idea del male". A commento di tanta boriosa certezza si leggano le parole dello stesso Schumann a proposito della real politik americana:
 
"A Philadelphia, alla convention repubblicana, i nostri compagni sono stati arrestati preventivamente, con violenza, il nostro materiale sequestrato, i pupazzi distrutti, gli attrezzi rubati. Abbiamo perso persino una trentina di bandiere storiche dei Bread & Puppet, cucite e dipinte a mano. Oggi negli Stati Uniti ci troviamo con un presidente non eletto democraticamente, ma nominato dalla corte federale. E’ un presidente di estrema destra, che ha portato persone nel suo governo inaccettabili per chi da anni si è battuto per i diritti delle donne, per l’ecologia, per i diritti delle persone di colore, per i gay, per il diritto all’aborto. Sono molti i diritti che sono stati violati da queste elezioni. Questa è la realtà americana attuale. L’altra realtà che ci tocca è la pubblicazione di "State of the World", l'indagine annuale pubblicata in collaborazione con altre istituzioni dal MIT (Massachusetts Institute for Technology) e che fa il punto della situazione del mondo dal punto di vista ecologico. Non l’ho letto ancora personalmente, ma l'edizione di quest'anno è la peggiore mai uscita. La terra, per come la stiamo usando adesso, non sopravviverà più a lungo.
Noi in quanto teatro di pupazzi siamo influenzati da queste due realtà. Troviamo impensabile accettare la situazione così com’è. Il nostro urlo è per l'insurrezione culturale. Insurrezione contro il modo di vita presente, contro le nostre abitudini, contro il gregge di pecore che siamo diventati, contro l'educazione organizzata che trasforma le persone in pecore. Chiamiamo le persone all'insurrezione contro l'ordine capitalistico" .


Le frasi di Peter Schumann sono tratte dall’intervista di Maria Mesch comparsa su "A, rivista anarchica" n. 271, anno 2001.
 


 

Guida alla lettura
Appunti sul Bread & Puppet e su Peter Schumann
di Andrea Mancini

 
Il Bread and Puppet Theatre, o Circus come a volte hanno preferito chiamarsi, è un gruppo che dai primi anni sessanta usa il teatro come il pane: vede il teatro come necessario, vicino ai bisogni della gente.
 
"La cosa principale è fare il pane", ha detto Schumann, "cuocerlo e distribuirlo poi gratuitamente. Nella nostra fattoria, produciamo molto pane nel corso dell’anno e siamo noi che maciniamo il grano e che prepariamo la farina. Queste attività costituiscono una parte importante della nostra vita... non faremmo del teatro se non facessimo il pane. Fare pane è l’attività più importante per noi. Il teatro è soltanto un hobby. Noi siamo dei fornai. Il teatro è un aspetto collaterale di questa attività".
 
Il teatro di Schumann - di cui questa dichiarazione (a Lise Gauvin, pubblicata nel 1980 su "Quaderni di teatro") rappresenta forse un limite estremo - ha attraversato tutto il periodo della contestazione, della controcultura, dentro o alla testa delle grandi manifestazioni, negli Stati Uniti, in America Latina, in Europa e continua, ancora oggi, in una disegno teatrale quanto mai attuale, ad un’idea di pace e di sostegno tra i popoli e le culture.

Ogni estate nel Vermont, nella fattoria dove il Bread and Puppet ha la sua sede, nei grandi prati verdi che la circondano, arrivano migliaia di persone (fino a cinquanta sessantamila!), per un evento che è teatro, nel senso più classico e antico del termine, ma che evidentemente assomiglia anche a una grande festa, un concerto rock, una sorta di Woodstock, con la grande creatività di molti degli artisti che a Woodstock si esibirono, ma anche con la delicatezza, la poesia espressa da questi grandi personaggi di cartapesta, questi uomini travestiti da uccelli, bianchi come i gabbiani, bianchi come le bandiere, come la neve e i sogni.


Foto di Maurizio Buscarino.
 
Peter Schumann è uno dei protagonisti del teatro d’avanguardia americano, ma in realtà le sue origini sono tutte europee. In molti, ad esempio Stefan Brecht, parlano di lui e della sua voce come quella di un tedesco e leggono nel suo teatro quelle che sono effettivamente le sue origini: Schumann nasce infatti l’11 giugno 1934 a Wroclaw, allora Breslau, in Slesia.
Scrive ancora Brecht, a proposito delle Grigie Signore di Betlemme, presenti in uno spettacolo del 1969, La bella addormentata, che esse sono astrazioni dei visi di povere contadine della Slesia e della Turingia, di sangue sassone o comunque slavo. Fino al 1945 quella regione dell’Europa Centrale apparteneva alla Germania ed è proprio in quel momento che la famiglia Schumann fugge, davanti all’esercito russo, verso Hannover. Al liceo, Peter fa spettacoli sperimentali usando essenzialmente i movimenti del corpo. Dopo aver studiato scultura per un anno alla scuola d’arte di Hannover, si iscrive all’Accademia d’arte di Berlino, che praticamente non frequenterà. Viaggia per due anni, passa sei mesi in Grecia, torna in Germania.


Foto di di Niccolò Mancini.
 
A proposito del suo gruppo Schumann dirà, in una intervista ad una studiosa canadese, "la nostra cultura è giudeo-cristiana e i suoi punti di riferimento sono biblici", per smentirsi, o forse per rendere la frase più complessa, qualche rigo avanti, quando dice "siamo ebrei, arabi, cristiani, mussulmani o qualsiasi altra cosa...". Del resto Schumann è un sorta di apolide, per scelta, più che per necessità, un uomo senza più una vera patria, anche se con radici profonde, tutte da studiare, in particolare nei suoi rapporti con la scultura, con la grafica, con l’arte in genere. Schumann è un grande artista, in senso rinascimentale, un artista completo, basta guardare alla totalità del suo lavoro. La parte più ‘marginale’, quella più segreta, nascosta, in particolare nella grande quantità di disegni, xilografie, di grandi sculture in legno; si può del resto confrontarsi con la sua fattoria del Vermont, un’opera d’arte, un ‘monumento nazionale’, un grande atelier, per la gran parte a cielo aperto, da studiare in ogni suo angolo. Un solo esempio, quello del cimitero, una zona dove gli amici del Bread and Puppet trovano simbolicamente riposo. Scriviamo simbolicamente, perché in quei luoghi, nelle tombe realizzate come vere e proprie sculture, non ci sono i corpi dei poeti, degli artisti, dei musicisti, comunque degli amici, ma soltanto le loro anime, e già questo è moltissimo.
C’è poi un’altra parte, quella nota ai fortunati spettatori, ai critici, agli studiosi, quella cioè degli spettacoli, ‘spettacoli giganteschi’, come spesso viene scritto, pieni di una grande cultura visiva, anch’essa essenzialmente europea, per non dire italiana.
Ci sono le Ultime Cene di Schumann, nelle quali viene rivissuta tanta pittura rinascimentale, i grandi ritratti della Madonna, che ripropongono la lezione di Duccio o di Giotto, fino alle immagini più terrestri di un Masaccio, ma ci sono anche le rappresentazioni della morte e dell’inferno, più vicine ad un gusto mitteleuropeo, e poi le parate, i pageants che richiamano la ritualità delle processioni dei disciplinati del nostro medioevo, o i flagellanti ancora oggi presenti soprattutto nel sud d’Italia.


Foto di Niccolò Mancini.
 
In tutto questo è possibile trovare una serie straordinaria di parallelismi con l’attività di un altro grande del teatro del novecento, quel Tadeusz Kantor, di cui si è parlato molto in questi ultimi mesi. Come Schumann Kantor è un’artista a tutto tondo, scultore, pittore, scenografo e anche per lui ci sono origini simili che pescano a grandi mani in tutta una cultura mitteleuropea, un solo nome quello di Bruno Schulz, autore di uno straordinario Trattato dei manichini, teorico della marionetta, potrebbe rappresentare il legame ideale tra i due artisti, ma c’è anche un eccezionale interesse per l’opera grafica, per la scultura, che trasforma il teatro in una macchina poetica più simile all’happening - alla rappresentazione sacra - che al dramma borghese.

Nel 1956 Schumann conosce Elka Scott, nipote di Scott Nearing, studentessa americana, in Germania con una borsa di studio, e sua futura moglie. Vive con alcuni amici in una piccola capanna alla periferia di Monaco. Esplica la sua attività artistica in diversi campi: fa sculture di ogni tipo (tra cui maschere di argilla ricoperte di gesso), disegni a carboncino, pitture su tessuto, incisioni su linoleum. Due o tre anni più tardi comincia a costruire burattini: intelaiatura di fil di ferro ricoperta di carta di giornale impregnata di colla. Tutte tecniche che richiedono materiali semplici, facili da usare, e che allo stesso tempo si possono lavorare in fretta e permettono di semplificare, di concentrarsi sull’essenziale. Dipinge direttamente sui muri, fa delle tele che diventano tende o vestiti. Foggia dei vasi dalle forme molto libere ed ogni sorta di ‘oggetti d’arte utili’. Studia il violino, basando il suo modo di suonare sull’improvvisazione Con un amico clarinettista fa dei concerti in locali di occasione. Alla fine del 1957, dopo un viaggio a cavallo che l’ha portato fino in Turchia, cerca di creare una comunità in un villaggio abbandonato vicino a Sisteron, in Francia. Senza denaro, è costretto a tornare in Germania, e accetta l’invito di una galleria d’arte in Svezia che gli ordina una serie di ritratti scolpiti. Torna a Monaco nel 1959, affitta una cantina che trasforma in atelier e vi dà concerti due o tre volte alla settimana. Fonda il Gruppo della Nuova Danza, con cui ottiene il secondo premio a un concorso nazionale e che, dopo essersi esibito in diversi club a Monaco, parte per una tournée nella Germania settentrionale, toccando soprattutto le università dove non è difficile disporre di una sala. In questo periodo assiste ad un concerto di John Cage, nel cui lavoro trova affinità con la sua ricerca. Decide di recarsi negli USA per incontrare altri artisti che lavorino nella sua stessa direzione. "Andai negli Usa supponendo di trovare basi di una nuova danza, compagnie sperimentali, risultati, sui quali la danza sia nuovamente esaminata, i suoi fondamenti siano di nuovo controllati, le sue leggi siano nuovamente scritte".
Queste le dichiarazioni di Schumann a Sergio Secci (Il teatro dei sogni materializzati. Storia e mito del Bread and Puppet, La casa Usher, Firenze 1986, vedi adesso più avanti). "Trovare qualcosa del genere non mi è riuscito...", dice ancora Schumann, anche se ha evidentemente trovato qualcosa d’altro. La situazione americana non poteva non favorire un artista alla ricerca, che tentava di combinare scultura, danza e poi burattini (letti spesso come sculture in movimento). "Il teatro di burattini è una vera conseguenza della scultura. E la scultura è un oggetto di teatro da ogni punto di vista. Anche nel museo, la scultura è, in un certo senso, teatro..."
I burattini sono descritti da Schumann come danzatori, "il loro movimento è così importante che la scultura deriva i suoi tratti fondamentali da esso". "Danza e burattini", scrive Secci, "sono, per Schumann, momenti dell’espressione del movimento. Anzi sono i mezzi attraverso i quali il teatro, purificandosi, raggiunge una essenzialità che gli consente di uscire fuori dalle mode e dai vincoli dei mestieri specializzati per diventare poesia: poesia che è un fare, un sognare e un saper guardare con stupore la vita che si vive."
Nel 1961 Schumann arriva dunque negli Stati Uniti e poco dopo comincia a lavorare con Yvonne Rainer (allieva di Ann Halprin) allo studio di Merce Cunningham. Alla fine dell’anno mette in scena alla Judson Memorial Church, luogo frequentato dall’avanguardia artistica di New York, Totentanz con gli Uranian Alchemy Players, dopo aver tentato invano di coinvolgere nel progetto le persone che lavoravano allo studio di Cunningham.
"Quelli che recitavano non erano attori né danzatori, ma lo spettacolo era una danza e un brano musicale. Il tema veniva dal Medioevo: la Morte cammina in cerchio e chiama tutti. C’era un immenso sacco nero con degli attori dentro, dei quali era possibile vedere le mani uscire fuori ed era qualche cosa come la nascita di un mondo nuovo che arrivava attraverso questo sacco". Così ricorda lo stesso Schumann, che precisa ancora i motivi della sua distanza dagli happening e la sua insoddisfazione per la danza come mezzo espressivo.
"Io non mi sento legato a loro - gli happener. Il loro lavoro è un lavoro di intensità, e per me c’è una grande differenza tra un’opera di intensità che costantemente si rinforza in se stessa e per se stessa, ed un lavoro che deliberatamente sacrifica questa potenza interna nell’interesse del gesto comunitario di un’opera fatta con gli altri e per gli altri. Un’opera d’arte che non sia presa a carico da una comunità non mi interessa. Ammiro molto Merce Cunningham, ma non mi era proprio possibile continuare a lavorare con persone che rivolgevano tutto il loro interesse alla danza stessa. Chi può dire che un certo movimento muscolare abbia un senso? Perché abbia senso, non basta portarlo al suo più alto grado di intensità, bisogna usare dei paragoni con il luogo sociale in cui si vive, o con le storie che si sono lette la mattina sul giornale; o ancora con la propria vita, e non contare sulla tecnicità della sperimentazione, sul corpo fisico solamente".


Foto di Maurizio Buscarino.
 
Nel due anni successivi Schumann lavora per una serie di spettacoli alla Putney School nel Vermont; realizza tournée a Bennington, Harvard, Marlboro e altri college e rappresentazioni al Living Theatre e alla Judson Gallery di New York. I titoli sono Christmas Story, King’s Story (prima versione), Fire (nella prima versione per soli burattini), The Story of the World.
All’inizio dell’estate 1963 Schumann va in giro a fare spettacoli per il New England, su di una specie di roulotte, con i suoi puppets coperti da pezzi di tela stampata di sua produzione. E’ in questo periodo il suo incontro con Bob Ernstahl, con il quale darà vita al Bread and Puppet Museum, al 148 di Delancey Street, New York City, una soffitta dov’è stata ricavata una sala di circa 40 posti.
Nascono spettacoli improvvisati, teatro di strada, parate, spettacoli politici ed antimilitaristi. spettacoli di burattini, maschere e pantomima. Schumann comincia a costruire burattini alti dai 3 ai 4 metri ed inventa il cranky, una specie di film su carta che scorre fra due rulli, che caratterizzerà molti dei suoi spettacoli successivi, insieme all’uso dei trampoli e ai pageants, una forma di spettacolo simile alla parata, che si riallaccia direttamente alle sacre rappresentazioni medievali, con il loro procedere a stazioni, ma anche con la loro ritualità: quello di Schumann è un teatro sostanzialmente religioso che usa la Bibbia, e tutto l’immaginario che intorno ad essa si è realizzato, come sua principale fonte di ispirazione, e che usa la fede come fonte di sovvertimento sociale o comunque di rivendicazione. Non a caso sono stati numerosi i rapporti tra il Bread and Puppet e i movimenti rivoluzionari del Centro America: Monsignor Romero sarà più tardi uno degli eroi negli spettacoli di Schumann.

Il successo e il lavoro del gruppo cresce, si consolida negli anni successivi, i suoi spettacoli procedono elaborando una tecnica specifica che fa proseliti, in un periodo nel quale c’è un grande spazio concesso all’impegno e al teatro politico. Nel 1968 fa una prima tournée europea, a partire dal festival di Nancy. Tournée che verrà ripetuta anche l’anno successivo, con risultati entusiasmanti, anche se al suo ritorno a New York il Bread and Puppet si troverà sfrattato dalla sua sede presso la Courthouse e maturerà nell’anno successivo la decisione di trasferirsi nel Vermont, come ‘theatre in residence’ presso il Goddard College. Sarà solo quattro anni dopo, nel 1974, che Schumann, dopo un primo scioglimento del gruppo, si trasferirà definitivamente a Glover, in una fattoria di proprietà della famiglia della moglie Elka Scott,
Il gruppo si scioglie anche perché è forse finita l’epoca dell’impegno militante, la guerra del Vietnam sta definitivamente concludendosi, non ci sono grandi alternative, il ‘Nuovo teatro americano’ già non esiste più. Schumann forse non è mai stato dentro quel teatro, fatto sta che la sua idea di teatro può proseguire secondo linee di formidabile capacità aggregativa. Il gruppo si formerà di nuovo, tornerà ad esibirsi in ogni parte del mondo, in particolare in Europa e in Italia, insieme all’Odin Teatret, insieme ai Comediants, ma insieme soprattutto a moltissimi compagni di viaggio, coinvolti nella costruzione di semplici ma allo stesso tempo splendide macchine poetiche, dove la forza delle immagini riusciva a comunicare immediatamente una sua eccezionale capacità espressiva.

"Quando le sue scelte coincidevano con quelle degli altri", scrive ancora Secci, "il Bread and Puppet è sempre stato disposto a confrontarsi, ma allo stesso tempo ha mantenuto una sua personalità, una sua forza propria. Altri gruppi che sono stati suoi compagni, di strada, si sono sciolti; il Bread and Puppet è rimasto, proprio per la forza delle sue scelte di fondo. ...Quello che per gli altri è una scelta ideologica nell’ambito del loro fare teatro e della loro vita, per il Bread and Puppet è il motivo di fondo per cui esiste; dando per scontata l’ideologia, per non ripetere se stesso, deve cercare di metterla in pratica, di agire e non di parlare, di fare politicamente teatro e non di chiacchierare di politica..."

Il senso degli ultimi venticinque anni di lavoro può essere letto in queste ultime parole, il Bread and Puppet ha sempre rifiutato di parlare di ideologia e di accettare etichette, insomma, quello che nota ancora Secci, è "il forte accento pratico di tutto il suo lavoro". La scelta di trasferirsi in campagna, mettendosi a coltivare la terra, ha accomunato molti artisti degli anni della contestazione, molti di loro si sono ‘arresi’ all’insorgere del sistema, o comunque hanno incrociato le braccia. Non il Bread and Puppet, non Schumann, da parte loro l’idea del cambiamento era sempre stata poetica, la contestazione, l’impegno di sovvertimento dell’ordine costituito avevano un origine che potremmo dire evangelica, ispirata ad ideali comunitari, che almeno in teoria possono trovare tutti d’accordo. Questi ideali il Bread and Puppet avrebbe trasferito nelle campagne di Glover, dando vita ad una serie di grandi eventi che spostano, già per il loro esistere, il punto di vista, come se la storia, almeno quella del teatro, non si consumasse a Broadway, e neanche a Off Broadway, o a Off off Broadway, ma da altre parti, fuori dal centro, alle periferie del mondo e delle cose. Così una fattoria del Vermont, a Glover, può diventare sede di una serie di spettacoli straordinari, un teatro di massa, un teatro di festa, sul quale fino ad oggi non sono usciti che pochi articoli sparsi soprattutto su riviste.

Anche per questo ci sembra di notevole importanza l’uscita di questo libro, un libro che ha la piccola ambizione di offrire al pubblico e agli studiosi una serie di materiali di prima mano, materiali grafici, fotografici e saggistici, con una serie di articoli inediti scritti appositamente per questo volume, con numerose traduzioni dall’inglese e con la ripubblicazione di prodotti ormai introvabili, ma ancora di grande interesse.

Cominciamo dai materiali grafici, soprattutto da Hallelujah, il bellissimo libro, pubblicato dalla Bread and Puppet Press nel 1983, a partire da una serie di incisioni dello stesso Schumann. Si trattava in realtà di grandi lenzuoli dipinti, che il gruppo ha usato per anni, a partire dal 1971-72, quando il Bread and Puppet si era trasferito presso il Goddard College di Plainfield, nel Vermont. Hallelujah iniziò ad essere rappresentato durante le performance settimanali realizzate intorno al College e più tardi ripreso, dopo il trasferimento a Glover, durante gli annuali Domestic Resurrection Circus, ma anche durante le tournée realizzate in tutto il mondo.
Altri materiali grafici, ancora dovuti a Schumann, servono ad ‘illustrare’ (ma il termine è evidentemente inadeguato), gli articoli dovuti al fondatore e leader del gruppo, un gruppo che è in realtà frutto del lavoro di moltissime persone, tra le quali bisogna citare almeno Elka Scott, la moglie di Peter, anima del Bread and Puppet, ma anche di uno straordinario lavoro editoriale e soprattutto del bellissimo Museo che il gruppo ha dedicato a oltre quarant’anni di lavoro.
A questo Museo sono dedicate le foto di Niccolò Mancini, realizzate durante un viaggio nel Vermont effettuato durante l’estate 2002. Quelle foto tentano di raccontare anche la vita nella fattoria del Bread and Puppet, dalle canzoni del mattino alle visite effettuate dalle molte scolaresche della zona, dal taglio dell’erba alla produzione di pane, dalla visita al Museo alle prove degli spettacoli. Di tutti questi aspetti si parla soprattutto nell’articolo di Damiano Giambelli, ma anche in quello di Massimo Schuster, che è tornato a Glover 27 dopo anni (tra i narratori dei primi Hallelujah c’era ad esempio anche lui).
Ci sono poi altre foto, che illustrano gli ultimi anni del Bread and Puppet e una parte più organica dedicata agli splendidi scatti di Maurizio Buscarino, che documentano il suo incontro con il gruppo alla fine degli anni Settanta. A quell’incontro Buscarino ha voluto dedicare alcune pagine, che sono anche forti riflessioni sul suo essere fotografo e viaggiatore, spettatore apparentemente distratto.
Di altri incontri si parla poi nel libro, quello con Schuster lo abbiamo già detto, quello con Giuliano Scabia, testimone nel tempo, a partire dal progetto Masaccio del 1976-77, quello con Lia Lapini che incontrò Schumann proprio in quell’occasione, dedicandogli due articoli su Paese Sera e un’intervista allora pubblicata su Bread & Puppet/Masaccio, il libro catalogo dedicato all’iniziativa, uscito nell’aprile 1977, a cura del Centro studi teatrali Ouroboros, con introduzione di Giuliano Scabia.
Poi la parte storica, con la riproposta di gran parte del libro ormai introvabile scritto da Sergio Secci, con il titolo Il teatro dei sogni materializzati, La casa Usher, Firenze 1986 (al quale si accompagna l’introduzione di Fabrizio Cruciani e di Franco Ruffini, che raccontano la storia e la tragica morte di questo giovanissimo studioso, ucciso nella strage della stazione di Bologna), e con le traduzioni di tre saggi di un professore americano, che ha saputo mischiarsi, da protagonista, dentro al lavoro del Circus. Si tratta di tre saggi storici (l’ultimo dei quali in forma di intervista a Peter e ad Elka), che raccontano, dal di dentro, e anche dal di fuori, una esperienza di vita comunitaria che ci pare abbia pochi eguali. Questo a partire da una conoscenza di prima mano del lavoro di Schumann, ma anche da alcune notazioni storiche che finalmente cominciano a contestualizzarne prodotti e procedimenti.
Alla fine ci sono le parole di Peter Schumann, il Bread e il suo Puppet, un articolo sul pane ed uno sui pupazzi, a chiudere un libro che speriamo importante, ma soprattutto utile.
 


 

27 anni dopo
Incontro con Peter Schumann
di Massimo Schuster

 
Massimo Schuster ha fondato e dirige il Théâtre de l'Arc-en-Terre con sede a Marsiglia.
 
E' la prima volta da ventisette anni che torno nel Vermont. Appena ho lasciato New York in autobus, e ancor più una volta passata la fermata di White River Junction, fermata lunga, dove c'è tempo per mandar giù un sandwich alla plastica e per bere un caffé alla spremuta di calzino, ho avuto la netta impressione d'aver fatto un salto indietro nel tempo. Questa è un'altra America, di quelle che non si vedono normalmente al cinema, e che anche quando si vedono è solo di sfuggita, perché non c'è niente da vedere per l'occhio della cinepresa, solo alberi, colline e cielo. New York è lontanissima.
Ho preso l'autobus per viaggiare come viaggiavo allora. Non è nostalgia (odio la sensazione molle e appiccicaticcia della nostalgia), è voglia di vedere, come si vede a poker. Vedere da dove vengo, vedere quanto la memoria mi ha tradito nel corso degli anni, vedere come quelli coi quali vivevo allora vivono oggi, che dischi ascoltano, che libri leggono, cosa pensano dell'Irak e del buco nell'ozono, che spettacoli fanno, se vanno a teatro, se preferiscono Harrison Ford o Bruce Willis, o magari Spike Lee, tutto, insomma.

* * *

L'autobus mi lascia a Barton. Qualche decina di case di legno, un general store che vende di tutto (ma soprattutto birra e articoli agricoli), un diner che ha ragione a non chiamarsi ristorante anche se ci si mangia, visto che è una specie di reperto archeologico scappato da un film degli anni trenta, un benzinaio. Viene a prendermi una giovane occhialuta che non conosco, con una vecchia Ford che tiene su col fil di ferro. Nei pochi chilometri di tragitto mi spiega che fa parte della ventina di stagisti che sono venuti a passare un mese con il Bread and Puppet. Tutto attorno a me è campagna verde. Natura bugiarda, che vuol farmi dimenticare l'interminabile inverno, che da queste parti sembra durare secoli. Come dicono i vecchi del posto, qui ci sono solo due stagioni, l'inverno e luglio, ha ha ha.
Me li ricordo i 35° sotto zero, il silenzio ovattato dei campi notturni sui quali camminavo con le racchette ai piedi per andare a passare la serata con una bella Jennifer, o Judy, o Johanna, dopo una giornata di prove spossanti, con addosso quattro maglioni, tre paia di calze, due berretti di lana uno sopra l'altro, a muovere marionette di cinque metri dentro il granaio che ci serviva da sala-prove invernale (d'estate s'andava nei prati), con le mani dentro certi guantoni imbottiti da contadino che solo l'America aveva potuto inventarli così grossi e così brutti.
Poi mi ricordo anche l'invasione delle acque, verso aprile/maggio. Un mese da Polesine anni cinquanta, ad andare di canoa per attraversare il prato, oppure a infilarsi quegli stivaloni da pesca che ti arrivano su fino alle cosce, per passare sul ponte completamente sommerso, aldilà del quale si era saggiamente parcheggiato l'autobus con su le marionette e i costumi per la tournée.
E mi ricordo anche delle faticate del mese prima, quando gli aceri si mettevano a pisciare linfa come ubriachi e che bisognava andare dall'uno all'altro, sempre con quelle stramaledette racchette, tirando la slitta con su la botte che poco a poco si riempiva, e poi via, fradici di sudore, a portare tutto quel liquido bendidio alla sugar house, a metterlo dentro certi pentoloni che mi ricordavano quelli dove mia madre faceva scaldare l'acqua per il bagno della domenica mattina, e a far bollire per ore e per giorni, fino a ridurre il volume della linfa di quaranta volte e ad ottenere quella suprema delizia che è lo sciroppo d'acero.

* * *

Mi dirai : – Ma come ? Ti ho chiesto di parlarmi del Bread and Puppet, che conosci bene, visto che ci hai lavorato per diversi anni all'epoca d'oro dei primi anni settanta, e tu mi parli di racchette e di sciroppo d'acero ?
Sì, ti parlo di racchette e di sciroppo d'acero, e potrei parlarti di zucchini e di pomodori colti nell'orto dietro casa, o dei primi tentativi di farci la nostra birra casereccia (uno schifo), o delle galline nel pollaio, che sarebbe lo stesso. Perché c'è una cosa da capire prima di tutto, che il Bread and Puppet è una compagnia contadina. E i contadini vivono al ritmo delle stagioni e vanno a letto presto. E' gente che appena arriva la primavera già pensa a tagliar legna per l'inverno dopo; gente che va in città il meno possibile e quando ci va ha sguardi sospettosi; gente che si lava quando c'è da lavarsi, ma che non sta lì a perdere delle mezze ore davanti allo specchio per coprirsi la faccia di creme svizzere; gente che non può permettersi il lusso dei cittadini, che alle 8 vanno a lavorare e alla sera tornano a casa, o che lavorano undici mesi e il dodicesimo lo passano al mare; perché in campagna, almeno in quella vecchia e povera come qui, nel nord del Vermont, dove le facce sono quelle dei pionieri del Mayflower e le unghie nere, il lavoro e la casa, e le vacanze, e le domeniche, e tutto il resto, fanno una sola cosa.
Non è sempre stato contadino, il Bread and Puppet, anzi è nato proprio a New York e non avrebbe potuto nascere altrove. Ma Peter Schumann, lui sì che è sempre stato contadino, almeno nell'anima. Bastava sentirlo raccontare della sua Silesia natale, e di sua madre, che cuoceva il pane settimanale nel forno comune del paese, disegnandogli sopra col coltello un sole, per poterlo distinguere, al momento di sfornare, da quello delle altre madri di famiglia che lo cuocevano insieme a lei, quel pane duro e nero, pesante e nutriente, quel pane così intransigente che quando, anni più tardi, ne offrivamo dei pezzetti al pubblico, dopo averlo fatto cuocere in qualche panetteria di Parigi o di Berlino, col panettiere che ci guardava come fossimo matti, e certe volte anche nel forno di casa del direttore del teatro dove eravamo, vedevamo gli spettatori, uno dopo l'altro, metterselo in bocca e poi, dal primo boccone, dividersi in gruppi diversi, quelli che ritrovavano un gusto antico, quelli che "Ma che divertenti questi Americani che ci offrono il pane nero", quelli che lo spettacolo sarà anche bellissimo però il pane fa proprio schifo, ecc. ecc.
Ed è proprio fuggendo da New York con moglie, cinque figli e qualche migliaio di marionette, all'inizio degli anni settanta, che Peter è diventato ancora più contadino, perché la città l'aveva conosciuta e adesso se ne andava via di sua spontanea volontà, voltando le spalle al successo e alla carriera, all'istituzionalizzazione e alla beatificazione.
Sì, lo so che queste son cose che si dicono dopo, e che sul momento non ci si rende mai conto fino in fondo delle decisioni che si prendono. Ma quell'andarsene via dalla città (e che città!) nel primo trimestre millenovecentosettanta, quando si era invitati nei più prestigiosi teatri e festival del mondo, quando si era considerati, insieme a Grotowski e al Living, come le più grandi star internazionali, quelli che stavano rivoluzionando la storia del teatro, andarsene a finire nel nord del Vermont, che è come dire al di là da Eboli, per viverci, mica come quelli che andavano un mese in Sardegna, due in India e tre nel Mato Grosso per studiare le culture popolari, farci su uno spettacolo e organizzarci un bel convegno sotto la direzione di un professore dell'università di Malmö, per viverci, per piantar patate come si fanno spettacoli e per far spettacoli come si colgono cavolfiori, beh, ci voleva una bella dose di coraggio, o di follia, o di intransigenza, o magari di paura, ma comunque una bella dose di qualcosa.

* * *

Gli spettacoli di Peter Schumann non sono fatti per durare. Come il pane, o gli zucchini dell'orto, sono fatti per essere mangiati. Ma, intendiamoci, non buttati giù come uno schifoso hamburger che ci si affretta poi ad annegare dentro megasorsate di Coca-Cola, no. Gli spettacoli di Peter Schumann sono fatti per essere mangiati lentamente, come il suo pane, con calma. E soprattutto con compassione, perché quel pane lì non è mai lo stesso, capita che venga fuori un po' troppo acido, o con troppa crosta, ma non importa, lo si mangia lo stesso perché, si sa, il pane non si butta via, e poi quello di domani verrà meglio. Allora, sì, è capitato anche a me come a tanti altri di vedere e magari anche d'essere dentro uno spettacolo di Peter che, diciamolo pure, faceva anche un momentino schifo. Ma non importa, perché anche quello è necessario, quella traccia di marcio sulla melanzana, quel buco nella ciliegia, quell'odore di merda che sarà anche ecologico però odore di merda resta. Tutto è necessario, per il Bread and Puppet, perché tutto fa parte di tutto e che non c'è nessuna separazione tra la vita di tutti i giorni e il teatro, nessuna differenza tra segare alberi nel bosco e fare uno spettacolo, ché se non seghi gli alberi con cosa te lo costruisci il teatro per farci gli spettacoli se non sei supersponsorizzato?

* * *

Il teatro che Peter si è costruito sembra più un granaio. E' tutto di legno. Qualche hanno fa quelli del Bread sono andati nel bosco lì di fianco a selezionare gli alberi destinati a diventare teatro. Li hanno segati, han tirato via rami e foglie, hanno pulito per bene i tronchi, e poi li hanno messi ad asciugare per un anno. L'estate dopo si sono costruiti un teatro.
Stasera, venerdì, c'è spettacolo. S'intitola Oratorio per il G8. La sala è piena. C'è posto per duecento persone sulle panche. Sono quasi tutti del posto, contadini, artigiani, insegnanti. Vengono qui da anni. Ce n'é che fanno parte del coro che si riunisce tutti i giovedì sera sotto la direzione di Elka, la moglie di Peter. Praticamente tutti si sono trovati almeno una volta dentro una marionetta gigante, in occasione di una parata, o di uno spettacolo all'aperto, o di una manifestazione no-global. Non c'è pavimento, è terra battuta. Non ci sono proiettori, né quinte, né sipario, né fondale. Non ci sono americane, non c'è arlecchino. Non c'è proprio niente. Mi viene piuttosto da pensare a qualche vecchio film di John Ford, magari con Henry Fonda, con tutta la gente del paese che si riunisce in chiesa per decidere qualcosa. La community, parola sacra negli Stati Uniti.
Inizia lo spettacolo. In scena ci sono una quarantina di persone che muovono dei grandi bassorilievi in cartapesta grossolanamente dipinti a tozze pennellate nere. Peter suona il violino, o almeno ne estrae dei suoni, lancinanti. I bassorilievi oscillano. Una lampada fissata su una pertica di quattro metri che un manipolatore muove vigorosamente dall'alto in basso e da destra a sinistra "illumina" vagamente la scena. D'un tratto mi rendo conto di dove sono. Sono dentro un quadro di Goya, una delle pinturas negras, o una delle incisioni dei Disastri della guerra, dentro un mondo di premonizioni apocalittiche e d'implacabile denuncia della stupidità della violenza, sono circondato da mostri mangiatori di bambini e distruttori di città, da streghe che ballano sarabande infernali, da asini in calore col cazzo ritto e da caproni squartati, da poveri soldati da niente fatti a pezzi come manzi. E quando un minimo di testo viene a sovrapporsi a quelle immagini potenti, capisco che sono a Genova, un anno prima, e che quei mostri si chiamano Bush e Blair e Chirac e Berlusconi, e che la loro mostruosità non nasce da una visione semplicista della politica o da un manicheismo infantile che vuole che da una parte ci sono i buoni e dall'altra i cattivi, ma dai trenta milioni d'Africani che hanno l'AIDS e non si possono curare perché i laboratori farmaceutici vogliono fare sempre più soldi, dai milioni d'Irakeni che muoiono di fame per via d'un embargo tanto stupido quanto assassino, dai milioni di contadini rovinati dalle culture transgeniche, dalle centinaia di migliaia di schiavi cinesi, filippini e haitiani che fabbricano scarpe Nike e magliette Calvin Klein, dai Palestinesi chiusi come topi dentro città fatte di sabbia, dai motoscafi sovraccarichi di Kurdi e di Pakistani che attraversano l'Adriatico, dalle folle di orfani che sniffano colla sotto i ponti autostradali di São Paulo, dalle ville in Costa Smeralda, dai panfili a Saint Tropez e dai ranch in Texas, dalle volgarità del sabato sera su Canale 5, dagli stipendi di Michael Jordan e dai cachet di Schwartzenegger, dai morti dei telefilm, dai morenti dei tubi di scappamento, e soprattutto, soprattutto! dagli anestetizzati degli stadi, delle code sull'autostrada e dei treni pendolari. E Peter Schumann me li mette tutti lì sotto gli occhi, come liberati dalle astrazioni statistiche, riumanizzati, ridiventati uno più uno più uno, una vita più una vita più una vita, con quella sua straodinaria capacità di fermare il tempo, di arrestare per un attimo la corsa folle nella quale siamo tutti intrappolati da mattina a sera, la corsa che solleva quel polverone di pseudo-progresso che finisce coll'impedirci di guardare e di vedere. Ma tutto questo non è un comizio, è teatro, théâtre brut, teatro fatto di rifiuti urbani e di foglie, di rami, di pezzi di corteccia, d'acqua e di sabbia.
Quando si tratta di evocare la morte di Carlo Giuliani, il no-global ucciso mentre si accingeva a scagliare un estintore su una jeep della celere, Peter mette un estintore in scena. Lo appoggia per terra, sulla terra battuta. Alla maniglia è fissata una cordina d'un metro o poco più, che un ragazzo tiene in mano. Peter si abbassa, raccoglie due sassolini, li batte tre volte l'uno contro l'altro, tic tic tic. Al terzo tic il ragazzo dà un colpo secco sulla cordina e l'estintore cade, morto. I due allora si allontanano, poi tornano, ognuno con un badile, e sotterrano l'estintore. Nessuna emozione in quei gesti da operai, solo il ripetersi di un rituale antico. E Carlo Giuliani è sepolto per davvero sotto i nostri occhi di spettatori allibiti.
Ho raramente visto un'immagine così forte in teatro, una sintesi così lucida, così intrisa di pietas e al tempo stesso di combattività. E non me ne importa niente di sapere se questo è teatro o agit-prop o Dio sa cosa, non me ne importa niente di valutare il professionalismo o l'approssimazione della regia o dell'interpretazione (non c'è niente da interpretare, solo un estintore da coprire di terra). Quel che vedo è qualcosa di talmente quintessenziale e virulento, sotto quella sua forma balorda e primitiva, che non posso non portarmelo via come un'interrogazione sul mio essere uomo e cittadino, e anche come una forza insperata, un incitamento a vivere meglio, con più coraggio, più vicino alla realtà viva e vera, più insensibile alle virtualità della televisione e dei dotti colloqui dei professionisti della professione.
Ventisette anni dopo, ritrovo il Bread and Puppet che avevo conosciuto e del quale avevo fatto parte, con la stessa esigenza estetica tutta tesa a rendere concrete le astrazioni giornalistiche che trasformano le nostre vite in curve statistiche. E in questo sovrapporsi di bellezza estetica e di contenuti tragicamente quotidiani ritrovo il Teatro, l'unico che valga la pena, quello che parla di me come in altri tempi ha parlato di Polinice, di Giocasta, o di Rosencrantz e Guildenstern, con la stessa voce, con lo stesso silenzio, con la stessa compassione.

* * *

Un mese dopo, vanno giù le torri e l'America s'accorge che non è sola al mondo. Io sono già di ritorno a casa, a Marsiglia. Un amico di Nuova Delhi mi manda per e.mail l'articolo di Arundhati Roy. Ancora qualche mese e José Bové va a trovare Arafat assediato dai carri armati di Sharon. I famigerati 8 si riuniscono di nuovo, in una sperduta cittadina turistica canadese. Io giro per l'Europa raccontando la battaglia di Roncisvalle e la morte del prode Orlando.
Resistere, resistere, resistere.
 


 

Colui che mi fa giocare
Pentole, padelle, colabrodo, mestoli, telefoni, fiocchi, frange, pulsanti e quant’altro: le mie marionette per Massimo Schuster
di Enrico Baj

 
Nel 1983 il flusso delle cose e i ghirigori ininterrotti dell’immaginario mi spinsero verso nuove frontiere.
Dopo sporadiche esperienze teatrali alla Piccola Scala di Milano, con l’operina Il Passaggio di Berio-Sanguineti nel 1963 e le scene e i costumi per Re Nicolò di Wedekind al Teatro di Genova nel 1981, ecco, appunto a partire dal 1983, il ripetuto incontro con teatranti d’animazione, di pupi e marionette.
 

Ubu Roi. Foto di Angelo Baj.

Dapprima arrivò M(assimo) J. Monaco a propormi un Pinocchio che fu sveltamente realizzato con l’aiuto di Andrea Rauch. Poi, sul finire di quell’anno, appare il Schuster, alle cui rocambolesche avventure di spettacolo della società (Debord docet) sono ormai legato da quasi vent’anni, sollecitatovi anche dalla mia compagna Roberta. Sicché, se anche preso da digressioni e sviamenti vari dell’arte del dipingere e dello scrivere, e, lì per lì, privo di particolari pulsioni marionettistiche, vi è pur sempre colei che ha cura dell’archivio e delle misurazioni che mi rimette in riga, richiamandomi a un nuovo spettacolo da inventare.
Passano gli anni e cambiano gli uomini, mutano le politiche e aumenta la marea di decreti, leggi e regolamenti e soprattutto aumentano per ogni dove i cartelli di divieti; ormai è quasi tutto vietato, tranne che inquinare. Si vieta il fumo delle sigarette per aumentare quello delle automobili e il nostro Impero del Sole Cadente arriva al punto di opporsi a qualsiasi trattato limitativo.
Intanto Massimo Schuster è sempre lì, sulla linea dell’orizzonte.
 

Ubu Roi. Foto di Angelo Baj.

Cominciò appunto alla fine del 1983 quando venne a trovarmi a Vergiate e mi propose un Ubu, personaggio per il quale è ben nota (anche a me) la mia propensione. Potevo mai dire di no, anche se l’idea propostami, che era di fare dei fondali di tele a macchie nere per dei pupi tutti bianchi che figurassero quali attori della commedia di Jarry non mi sconfiferava più di tanto? Sicché feci quei teli pieni di colature di vernice nera, ma dicevo a Massimo: "Lascia stare i tuoi pupi siciliani; per l’Ubu, essendo anch’io dottore in Patafisica, bisogna che li faccia io i personaggi, ovvero le marionette".
Quanto mai! Quella mia istigazione mi legò definitivamente al summenzionato ex-puparo Schuster. E subito nel 1984 si progettò e si realizzò un Ubu fatto di pezzi di Meccano, l’antico e glorioso gioco, e comprendente una settantina di marionette e alcuni elementi scenici.
Il Massimo con quegli oggetti macchinaci si inventò un Ubu che era la fine del mondo e che del mondo fece il girotondo, presentato un po’ dappertutto.
 

La tragédie de Richard III. Foto di Brigitte Pougeoise.

Non poteva finire lì, e di fatto si continua ancor oggi, di spettacolo in spettacolo.
Nel 1984 vi fu una svolta. Dal tono grottesco, volgare, rabelaisiano e donchisciottesco di Ubu passammo improvvisamente alla classicità di Omero. Massimo voleva mettere in scena l’Iliade e lo fece con una trentina di marionette di legno e oggetti fatte da me e da mio figlio Andrea.
Queste marionette dovevano anticipare tutta una mia lunga stagione, quale si verificò dal 1993 in poi con le Maschere tribali, i Totem, le Impressioni d’Africa care a Raymond Roussel, a Rousseau il Doganiere e al Bal Nègre di Picabia.
L’Iliade fu uno spettacolo bellissimo, per un audience colta e raffinata, quindi limitata. Ai bambini non piacque granché.
 

Un chapeau de paille d'Italie. Foto di Brigitte Pougeoise.

Nel 1989, per celebrare il bicentenario della rivoluzione francese, mettemmo in scena Le bleu-blanc-rouge et le noir su testo di Anthony Burgess e musica di Lorenzo Ferrero. Feci, sempre in collaborazione con Andrea, delle marionette fatte di oggetti, fili di ferro, cordoni, colori e gambe a molla. Quelle dotate di molle facevano dei balzi incredibili che esaltavano ulteriormente tutta quella movimentazione e quella instancabile vivacità che vengono profuse a piene mani da Massimo Schuster.
Il quale poi fu preso dalla guerra in Jugoslavia, a Sarajevo; e poi, ulteriormente venne attratto anche dall’Africa. Sicché girovagò, recitò, se la vide brutta tra bombe e fucilate, portando quasi il suo teatro in trincea. Io me ne stavo calmo in campagna, tutto assorto nel mio futurismo statico. Ahimè! La pittura è immobile e per fortuna, anche silenziosa. In tutto il periodo che seguì a Le blanc-bleu-rouge et le noir e che precedette la sua ultima creazione, cioè Roncisvalle!, in tutto quel periodo di oltre dieci anni io feci per lui, a sua richiesta, solo qualche disegno per un Ubu di carta, che fu rappresentato, credo, a Sarajevo e in altre sue peregrinazioni in terre straniere. Certo, l’Ubu di carta pesava e ingombrava poco: e così, senza mezzi, senza niente, potevi improvvisare un teatrino.
 

Roncevaux! Foto di Brigitte Pougeoise.

Ma le ragioni di quel peregrinare vanno anche ricercate, oltre che in motivazioni politiche e libertarie, nel fatto che il predetto Massimo cominciò a tradirmi con altro pittore, tal Hervé Di Rosa, che peraltro proprio io gli avevo consigliato per la messa in scena di Un cappello di paglia di Firenze, commedia buffa di Labiche.
Detto fatto, dopo Sarajevo, il predetto Di Rosa lo associò alle sue tremende avventure sul continente nero, dove scorrazzano armigeri, bande e armi di ogni tipo, da Addis Abeba a Cape Town.
A Addis Abeba, di cui tanto mi aveva riempito la testa durante la mia giovinezza il Duce fondatore dell’Impero, proprio là, il Schuster Massimo si trovò circondato da bande di trafficanti di banane, al soldo dei più turpi negrieri internazionali, tra spari, bombe fumogene e altro, ma restò, per un miracolo senza dubbio attribuibile alla Vergine Nera del santuario d’Oropa, sopra Biella (Piemonte), miracolosamente illeso e come protetto da una campana di vetro.
Abbandonata l’Africa, dopo una mostra che facemmo assieme e con noi Marcel Duchamp, alla Università di Johannesburg, nell’agosto 1997, il mio amico capocomico di marionette, evitata giusto in tempo Timisoara, percorse la Bulgaria e qui, per la pulsione tutta guittesca che spinge a rifiutare gli altri personaggi all’infuori del proprio Io, si mise a recitare monologhi nel paese delle rose.
 

Roncevaux! Foto di Brigitte Pougeoise.

Ma già il sentimento, la nostalgia di antichi fasti, il senso della storia leggendaria dei Paladini di Francia, diventati poi grazie a Alfred Jarry Palotini di Ubu, e il ricordo dell’amato teatro siciliano, lo sospinsero nuovamente a Vergiate, da dove s’era partiti assieme nel 1983 con un primo Ubu, si è detto, fatto alla maniera dei pupi.
Quale figliuol prodigo, approdò nuovamente nel mio studio nell’estate dell’anno 2000 e qui fu un frenetico lavorare per una decina di giorni, coadiuvati da Pierre, impareggiabile assistente del Nostro, a fabbricare eroi e traditori della battaglia di Roncisvalle, battaglia ingaggiata dal perfido Gano di Magonza e da Marsilio re dei Saraceni contro un drappello dell’esercito di Carlo Magno comandato da Orlando, conte della Marca di Bretagna, che invano il Vescovo Turpino cercherà di salvare.
Mentre Angelica è là, presso la fonte dell’amore e si appresta, visto quel casino crescente, a tornarsene da suo padre, il re del Katai, accompagnata dal fido Medoro, la battaglia infuria con un Schuster che si fa in quattro, in otto e poi in ventiquattro per muovere quasi contemporaneamente tutti quei guerrieri da me fatti con cassette di legno per vini e liquori, con pentole, padelle, colabrodo, mestoli, telefoni, fiocchi, frange, pulsanti e quant’altro. Tutto va a pezzi e mi piange un po’ il cuore alla vista di quel desolato campo di battaglia sul quale la foga e il trasporto lirico di Massimo hanno disintegrato ogni cosa: storia, pezzi di legno, forchettoni e pentolame.
Dopo lo spettacolo di morte e resurrezione lui è là, l’attore, a dominare gli eventi. Pierre ricostruirà le marionette, io cercherò pezzi di ricambio.

Agosto 2001
 


 

Qu'est ce que l'UNIMA ?
Una scheda sull'UNIMA (in francese)
di UNIMA

 
L'UNIMA (UNion Internationale de la Marionnette) est une Organisation Internationale Non Gouvernementale, bénéficiant d'un statut consultatif auprès de l'UNESCO, réunissant des personnes du monde entier, lesquelles contribuent au développement de l'art de la marionnette afin de servir par cet art les valeurs humaines, dont la paix et la compréhension mutuelle entre les peuples, quelles que soient leur race, leurs convictions politiques ou religieuses, la diversité de leurs cultures, en conformité avec le respect des droits fondamentaux de l'être humain, tels qu'ils sont définis dans la Déclaration Universelle des Droits de l'Homme des Nations Unies du 10 décembre 1948.


Le but de l'UNIMA est de promouvoir l'art de la marionnette. Cette tâche peut se remplir notamment de la manière suivante:

1) en provoquant, à travers toutes les formes possibles de communication, des contacts et des échanges entre les marionnettistes de toutes nations et continents;
2) en organisant des congrès, des conférences, des festivals, des expositions et des concours ou en donnant son soutien officiel;
3) en venant en aide à ses membres pour garantir leurs intérêts démocratiques, syndicaux, financiers et juridiques dans le cadre de leurs activités professionnelles, notamment faisant des recommandations ou soumettant des propositions aux instances compétentes;
4) en encourageant la formation professionnelle;
5) en approfondissant la recherche historique, théorique et scientifique;
6) en maintenant vivantes les traditions aussi bien qu'en encourageant le renouveau de l'art de la marionnette;
7) en proposant la marionnette comme moyen d'éducation éthique et esthétique;
8) en participant aux travaux d'organisations internationales ayant des buts similaires.


Secrétariat Général de l'UNIMA
10, Cours Aristide BRIAND - B.P. 402
08000 Charleville-Mézières - France
Tel : +33 (0)3 24 32 85 63
Fax : +33 (0)3 24 32 76 92
http://www.unima.org
Email : sgi@unima.org

 


 

Il robot romantico
Progetto Euclide
di Stefano Roveda-Studio Azzurro

 
L'idea del "robot romantico" è nata tantissimo tempo fa in una trasmissione televisiva (Tandem nel 1984) dove una scultura, che simulava un robot, ripresa in video lanciava indovinelli al pubblico che poteva rispondere in diretta con il telefono. L'idea era quella di contrapporre all'intelligenza artificiale un robot che, invece, fosse umano. Nel 1993 è nato Euclide, software dedicato all'animazione di personaggi sintetici tridimensionali. Questo progetto includeva una famiglia di otto personaggi astratti (un cubo, una sfera, una molla, da cui la scelta del nome, un rimando alla geometria euclidea) a cui successivamente si sono aggiunti Virgilio, un personaggio disegnato da Giacomo Verde che parlava in lingua antica recitando la Divina Commedia; in stile più cartoon e disegnati da Massimo Giacon, i personaggi Info per la Telecom Italia, Blobby per la Rai e Bit per la fondazione Idis a Napoli.
L'intento del progetto Euclide è quello di dare vita ad una sorta di "robot romantico", un robot che non si relazionasse al pubblico attraverso i sistemi classici di mouse e tastiera, quanto piuttosto con un'interfaccia più immediata e meno filtrata, naturale.



Le interfacce naturali utilizzano i normali gesti del corpo con la loro capacità di continua trasformazione, abolendo ogni tipo di procedura mediata dalla logica.
Il linguaggio usato dall'animatore per comunicare con il sistema, ovvero il suo gesticolare con la mano, appartiene ad una categoria che non prevede l'uso di codici (come il linguaggio scritto) né di simboli (gesti e icone) ma vive di una gestualità autoregolata dall'effetto che produce. La mano assume determinate posizioni solo in funzione delle espressioni ottenute dal personaggio. Attraverso Euclide ci proponiamo di scardinare alcuni assunti dell'arte in genere e della pratica teatrale nello specifico. Riportare l'arte tra le persone con un meccanismo di interazione che induce alla partecipazione. Le performance di Euclide si basano sull'improvvisazione, non esistono canovacci o sceneggiature predefinite, la bravura dell'animatore consiste nel saper far interagire il pubblico con il personaggio e nel facilitare l'interazione-socializzazione delle persone tra di loro. Euclide sposta l'attenzione anche su un altro tema che a nostro avviso è cruciale per l'arte contemporanea: quello di un nuovo punto di vista sulle potenzialità e implicazioni di comunicazione sociale che i nuovi mezzi elettronici e computerizzati mettono in gioco. Siamo circondati da oggetti e sistemi che funzionano attraverso interfacce che sembrano diventare sempre più umane.



E' importante capire quali nuove relazioni vengono ad insturarsi tra utenti e prodotti e come questi ultimi possano effettivamente influenzare il nostro modo di relazionarci ad essi e di riflesso anche alle persone che quotidianamente frequentiamo. Basti pensare ad Internet, alle chat line, che personificano questa forte tendenza ad un nuovo tipo di relazioni attraverso schermi e tastiere, dove l'esperienza fisica è accantonata a favore di un incontro virtuale, fatto di bit e onde luminose. E' necessario riflettere su alcuni interrogativi che l'era digitale ci porge, capire dove ci stiamo dirigendo e come tutto ciò che possa influenzare il nostro modo di comunicare e di relazionarci. La ricerca nell'ambito della sensoristica e delle applicazioni integrate tra performance, video e informatica è ancora agli albori e ciò è confermato dal fatto che a tutt'oggi non ci sono scuole o corsi in cui apprendere e sperimentare questi nuovi territori, Noi ci stiamo provando, da artisti, e abbiamo lò'impressione di essere approdati sulla punta di un iceberg all'interno di un mare con confini tutti da esplorare.




 


 

Salve, sono il primo schiavo di Bit
Come si dà l'anima a un personaggio virtuale
di Giacomo Verde

 
Bit, e prima di lui gli altri personaggi virtuali della famiglia Euclide, sono stati creati dall'incontro con il pubblico. Ricordo che a volte provavo delle battute, prima di incontrare le persone, ma spesso poi, non funzionavano come immaginavo perché il rapporto che si stabiliva con la gente era diverso da come mi aspettavo. Specialmente i primi tempi. Adesso infatti quando "prendo in mano" un nuovo personaggio mi limito a inventare e provare le gag visive (le entrate, le uscite, le trasformazioni, le smorfie possibili) ma quasi mai le battute perché in effetti le battute me le suggerisce il personaggio nel momento dell'incontro con il pubblico. Anche per questo dico che sono il suo "schiavo". In effetti quando animo Bit mi trovo a dire cose che altrimenti non direi, a fare battute o a sollecitare confidenze che con qualsiasi altra "maschera" (perché in effetti di una maschera elettronica si tratta, piuttosto che di un burattino) non potrei fare. Con Euclide-Bit ho potuto sperimentare il gioco della „comunicazione teatrale" fuori dai tempi e dalle tecniche imposte dal palcoscenico. Ho capito fin dall'inizio che non si trattava di fare uno spettacolo o di fare scherzi tipo "specchio segreto" (anche per questo abbiamo scelto io e Stefano, di tenere l'animatore sempre visibile) perché la possibilità offerta da questa "maschera elettronica" è quella di far "recitare" anche gli spettatori: è una maschera doppia che trasforma anche il pubblico da passivo ad attivo. Infatti i momenti più interessanti e divertenti, sono quando le persone dialogano con il personaggio dicendo di essere altro da quello che sono, o quando inventano spiegazioni fantastiche per rispondere alle risposte di Bit.


Giacomo Verde anima Bit.

Sarebbe stato facile inventare delle gag tipo cabaret, ma siccome penso che una delle caratteristiche delle nuove tecnologie sia la possibilità di creare interattività, ho cercato di sviluppare il più possibile un altro aspetto della performance: per me la bravura di un animatore-schiavo di Bit, infatti, sta nella capacità di far giocare la gente, di farla parlare, di riuscire ad attivare la comunicazione e il dialogo anche tra le persone che si trovano di fronte allo schermo, nel riuscire cioè a mettere a proprio agio chiunque. L'animatore di Bit deve saper ascoltare prima di saper parlare e animare.


La consolle di regia di Bit.

E' incredibile quanto si possa rimanere in silenzio animando Bit; proprio come quando si parla con un amico: il silenzio è una pausa per far nascere nuovi pensieri e non un vuoto da riempire. Inotre mi sono accorto che, per animare Bit, bisogna anche avere dimestichezza con il mondo informatico, per due motivi: primo perché non si rimane intimoriti di fronte al computer che genera il personaggio; secondo, perché la gente pretende da un personaggio simile, di avere anche informazioni sui computer. Un'ultima caratteristica, ma fondamentale, è non dimenticare mai che il personaggio e l'animatore sono due cose diverse. Una volta mi è capitato di salutare un bambino che si era fermato molto tempo a parlare con il personaggio. L'avevo fatto così, d'istinto, perché mi pareva ormai di conoscerlo e avevo l'impressione che anche lui mi riconoscesse. Ma mentre lo salutavo mi rendevo conto del suo imbarazzo nel rivolgermi la parola "fuori dal gioco". In effetti lui aveva parlato con Euclide-Bit e non con me. Un altro esempio. A volte accade che qualche bambino non sia contento delle risposte o del comportamento del personaggio, allora viene al tavolo da dove lo muovo e mi chiede con un tono di voce e atteggiamento diverso da quello che usa con Bit, di far cambiare le reazioni del personaggio. Dopodiché torna di fronte allo schermo e continua a dialogare con Bit, quasi con la consapevolezza di parlare con un personaggio che usa un umano e non viceversa. Infatti l'umano è per così dire, lo "schiavo" di Bit.
Peccato che certi adulti non si rendano conto della bellezza di questo gioco.
 



...arrivederci al prossimo ateatro di figura!
 

Le Baccanti in nero
Wole Soyinka, Le Baccanti di Euripide. Un rito di comunione
di Anna Maria Monteverdi

 
Wole Soyinka, Le Baccanti di Euripide. Un rito di comunione
Cura e traduzione di Francesca Lamioni
Edizioni Zona


Con la traduzione dell'opera di Soyinka Le Baccanti di Euripide. Un rito di comunione, si inaugura la collana "testi teatrali" per la casa editrice Zona.
Nella riscrittura del mito greco da parte del nigeriano Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986, Le Baccanti diventano "tragedia della negritudine", una metamorfosi che contamina la letteratura greca e il teatro occidentale con gli elementi propri della cultura africana e della tradizione (e della lingua) dell'etnia yoruba. Lunga è la lista di drammaturghi e registi contemporanei che si sono variamente ispirati alla classicità, innestando problematiche moderne all'interno di miti e storie tratte dalla tragedia attica antica. Tra gli altri: Tony Harrison (The Trackers; Medea: a sex war opera), Heiner Müller (Filottete), Thomas Murphy (The sanctuary lamp, ispirato all'Orestea di Eschilo), Theodoros Terzopoulos (Le Baccanti; Medeamaterial) e Peter Sellars (The Persians, Aiax). E' stato lo stesso Soyinka, esule, condannato a morte nel suo Paese, in carcere per due anni senza processo per la critica alla guerra civile (Nigeria/Biafra), e che considera Le baccanti una tragedia politica, glorificazione della liberazione dello schiavo dal colonizzatore, ad incoraggiare la giovane ricercatrice alla pubblicazione della non facile traduzione in italiano della sua opera. Francesca Lamioni ha dedicato buona parte dei suoi studi al teatro africano contemporaneo (da Soyinka a Ola Rotimi; anche Rotimi ha riscritto in chiave africana una tragedia greca -l'Edipo re- in The gods are not to blame di cui la stessa Francesca Lamioni parla nel saggio Gli dèi non vanno offesi, inserito nell'antologia La maschera volubile, Titivillus, 2000). La Lamioni aveva già pubblicato nel 1996 una monografia critica su Le Baccanti di Soyinka (La Spezia, Multiart,1996) in cui esaminava in maniera approfondita i "tradimenti" del drammaturgo nigeriano rispetto alla tragedia (tra cui l'inserimento del Coro degli Schiavi) e forniva un interessante quadro della poetica di Soyinka e un excursus storico sul teatro nigeriano contemporaneo.
La passione per la tematica politica esposta nell'opera di Soyinka e per l'"africanità" traspare dalla bella introduzione della Lamioni, che ci trasporta con un dubbio, in una "tempesta spazio-temporale": l'Africa ha preso in prestito il mito greco o l'ha generato?
"Non sappiamo bene se è Soyinka che riscrive il mito di Dioniso o Euripide che -forse- ha chiamato Dioniso quella che in realtà era la divinità yoruba del ferro, della guerra, della strada, del metallo; dio artigiano, scultore e maneggiatore di serpenti, terribile guardiano dei giuramenti sacri, protettore degli orfani, cacciatore, sanguinario guerriero, artista: OGUN, incarnazione della forza di volontà:

Riccamente adornata è la sua casa
Eppure coperta di fronde di palma
Da essa si muove, il rifugio degli oppressi.
Per liberare gli schiavi.

Ogun col suo aspetto selvatico e feroce, che sopraggiunge dal bosco per regalare all'uomo l'arte e la sapienza, Dioniso con la sua chiassosa sarabanda di satiri e baccanti ebbre (l'estasi avvenuta): siamo già immersi nel teatro e intrisi di tragico."

La curatrice ha voluto dedicare il libro allo scrittore nigeriano Ken Saro Wiwa, condannato a morte dal regime militare del generale Abacha e ucciso il 10 novembre 1995 per la lotta da lui intrapresa contro il disastro ecologico che la compagnia petrolifera Shell stava infliggendo alla sua terra Ogoni, nella parte nord occidentale della Nigeria.
A Soyinka George Landow, il teorico dell'hypertext, aveva dedicato il "Soyinka web" iniziato nel 1990, e successivamente il più elaborato "Context34", esperimento di "scrittura in collaborazione" su Intermedia per la creazione di testi e grafici sul poeta e scrittore nigeriano da parte di alcuni studenti della Brown University. Il lavoro, contenente oltre 500 documenti, è confluito in un ricco corpus ipertestuale consultabile in rete http://www.scholars.nus.edu.sg/landow/post/soyinka/soyinkaov.html
 


 

O ti integri o ti disintegri?
Un mail sul Diario delle prove al Teatro di Roma di Giacomo Verde
di Andrea Liberovici

 
Nello scorso numero "ateatro" ha pubblicato il diario delle prove del Concerto per Roma con Albertazzi-Proclemer-Ughi firmato da Giacomo Verde. Il regista dello spettacolo Andrea Liberovici non ha apprezzato e ci ha mandato un mail, che volentieri pubblichiamo.

caro oliviero ponte di pino,
mi farebbe piacere che questa mia mail fosse allegata sotto, sopra a fianco, insomma dove ti pare ma nelle vicinanze della articolata "recensione" in diretta del Concerto per Roma fatta da Giacomo Verde. Credo sia corretto che venga reso pubblico il mio punto di vista essendone stato il regista (tanto criticato!!!).
Desidero rispondere a queste critiche scritte con piglio adolescenziale perché ritengo giusto farlo se non altro per difendermi e difenderci dalla retoricuccia da finto giovane "alternativo al sistema" e soprattutto per cercare d'oggettivizzare il mio lavoro e quello della mia équipe..; dunque, partiamo da un presupposto: se si è realmente intenzionati a non "mischiarsi" ad attori come Albertazzi perché di destra o perché non si amano, la coerenza umana (che non credo sia prerogativa della destra o della sinistra ma solamente delle persone con un qualche residuo di dignità) presupporrebbe il non accettare di lavorarci insieme. L'aver accettato e poi sputarci sopra cadendo dalle nuvole sul senso dell'operazione presuppone invece altre cose.
Tutto è criticabile, migliorabile eccetera, ma se uno decide di partecipare ad un progetto con protagonisti Albertazzi, Proclemer e Uto Ughi e si lamenta poi perché fanno Dante, Garcia Lorca o Vivaldi o perché recitano in modo classico bhè le ipotesi che intravedo sono veramente poche: o è in malafede sin dall'inizio o è di un ignoranza mostruosa rispetto agli interlocutori che si è scelto. E dico si è scelto, perché non c'è stato nessun atto coercitivo, nessuno ha obbligato Giacomo Verde a partecipare allo spettacolo. Non credo nemmeno che sia stato un fattore economico a spingerlo visto che tutti abbiamo preso molto poco rispetto al nostro lavoro ed alla nostra esperienza. I "clandestini" come lui si definisce, generalmente non fanno contratti con i capitani della nave, i clandestini lo sono e basta. Ma questo tipo d'atteggiamento, al di là degli umori e dei giudizi di cui di fatto m'importa poco senza bisogno di mettermi magliette di gruppi rock per dichiararlo al mondo , credo che in realtà sia estremamente vecchio, faccia proprio parte di un antico modo di pensare. Il moralizzante ed ipocrita molto doroteo che prende le distanze da una cosa in cui in realtà è dentro fino al collo, giusto per "salvare la faccia" rispetto ad un supposto "pubblico-elettore" speravo fosse personaggio antico e credevo fosse sparito con i bellissimi film di Alberto Sordi . Ed invece eccoci qui di fronte ad un atteggiamento vecchio e a mio avviso profondamente reazionario. Non ho ricette su cosa sia giusto o > sbagliato, fatico moltissimo a fare questo lavoro in Italia come credo moltissimi miei colleghi che rispetto per la tenacia e per la ricerca. Ho scelto di fronte all'alternativa sociale dell'"o ti integri o ti disintegri" di fare politica dall'interno , non con "manifesti" da tradire ma attraverso la mia arte, le mie regie (che mi risulta fossero molto piaciute a Giacomo e Alessandra Giuntoni in passato o abbiamo tutti capito male?) la mia musica e soprattutto con la mia coerenza intellettuale. Se ho lavorato e continuo a lavorare con artisti ed intellettuali come Edoardo Sanguineti, Judith Malina , Giorgio Albertazzi giusto per nominare tre persone e tre artisti molto diversi fra loro, è perché ho sempre privilegiato la fantasia, il sogno, la creatività e i diversi punti di vista rispetto alla scena piuttosto che strategie di altro genere. Sto cercando d'imparare il mio lavoro attraverso l'ascolto e proprio perché so quanto sia difficile ascoltare e smettere d'ascoltarsi non sono disposto ad accettare l'arroganza travestita da vittimismo, da ideologia e soprattutto la malafede. Riconosco il talento di Giacomo, non a caso l'ho fatto scritturare per tre miei spettacoli, mi dispiace che se la sia presa perché il giornalista di "Repubblica" non l'ha nominato (ma "Repubblica" non è forse un giornale di regime? perché tanta acredine?) , come mi dispiace che invece di cercare un dialogo diretto, come altre volte ha e abbiamo fatto, abbia scelto di criticarci alle nostre spalle, dico nostre perché siamo tutti allibiti (il gruppo di giovani che ha lavorato a questo e agli altri progetti) per questo atteggiamento così piccolo ed ingiusto ...
credo che il teatro di ricerca debba partire da una ricerca interiore e quindi da una messa in discussione personale e costante se no è di fatto vuota retorica né più e né meno che il teatro di routine. In questo spettacolo ci siamo sfidati cercando di trovare un contatto artistico ed umano, fra culture, età e mondi diversi. Non so giudicare il risultato artistico non ho la presunzione di farlo in un tempo così ravvicinato. Forse ci siamo riusciti, forse no, forse soltanto in parte. So per certo che Albertazzi, la Proclemer , Uto Ughi seppur distantissimi dal mio immaginario, si sono fidati, si sono incazzati, non sono stati facili ma hanno però partecipato totalmente con l'umiltà dei grandi artisti allo spettacolo, e questo è stato il più grande risultato che desideravo: continuare a crescere attraverso il mio lavoro e il lavoro degli altri.
Per il resto, con un poco di tristezza a proposito di questo atteggiamento sgradevole ed ingiusto di Giacomo Verde con cui avremmo potuto continuare un rapporto creativo, l'unica cosa che mi viene in mente è una frase di Flaiano: "Ci ha lasciato un vuoto colmabile".
Grazie per l'attenzione Andrea Liberovici

Quello di Giacomo Verde è, a parere della redazione di "ateatro", un documento divertente ma anche interessante. Perché racconta (con ironia e un po' di rabbia) le relazioni che si creano quando due realtà (e persone) per molti aspetti diverse provano a collaborare: da un lato un teatro tradizionale - per la verità un po' cialtrone com'è quello mattatoriale in ritardo e culturalmente ingenuo (ambiguo?) di Albertazzi, dall'altro chi invece arriva da esperienze di sperimentazione, di egualitarismo (spesso falso) e di autentica attenzione al fatto artistico.
Quello del rapporto tra le istituzioni e le nuove forme di creatività e produzione è un problema enorme, sul quale il teatro italiano si è scontrato e continua a scontrarsi senza riuscire a crescere. Riguarda modalità produttive, rapporto con il pubblico, rapporto con il proprio lavoro, filoni culturali eccetera. Riguarda la separatezza tra il teatro "ufficiale" e il "nuovo teatro" (e la nuova danza e la performance), e le difficoltà del nuovo di uscire dal ghetto.
Ci sembra che, concentrandosi soprattutto sugli aspetti personali (e tirando in ballo anche qualcuno che non c’entra), la mail di Andrea Liberovici non affronti la questione. Peccato.
PS Cari Andrea e Giacomo, la prossima volta fatevi pagare di più, almeno.

 


Appuntamento al prossimo numero.
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