(82) 28/03/05

L'Italia sta perdendo i suoi poeti
L'editoriale di ateatro 82
di Redazione ateatro

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and83http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and1
 
Morte e resurrezione rock
Il debutto della Mano (Doninelli-Martinelli-Ceccarelli-Montanari)
di Mario Gamba

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and10
 
La lingua biforcuta della musica
Una intervista con Ermanna Montanari
di Mario Gamba

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and11
 
Le recensioni di ateatro: il mondo non verrà salvato dai ragazzini
Kinder-Traum Seminar di e con Enzo Moscato
di Concetta D'Angeli

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and15
 
Romeo e Giulietta in pizzeria
Il teatro di Oskaras Koršunovas
di Stefania Bevilacqua

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and17
 
Obbligati a dire, in teatro
Introduzione a César Brie-Teatro de los Andes, Dentro un sole giallo, cura e traduzione di Silvia Raccampo, Titivillus, 2005
di Silvia Raccampo e Fernando Marchiori

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and18
 
Lavorare nel fango
Introduzione all’e-book Per labbra recitanti nella febbre
di Nevio Gambula

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and19
 
Di corsa "Di giovedì": Il mio doping
La performance ciclistica di Luciano Nattino con Emanuele Arrigazzi
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and35
 
Tekno Cut Up
tnm per ateatro 82
di Anna Maria Monteverdi

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L'informazione da mangiare
ManUelBO artista attivista performer
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and43
 
Leo Bassi a Macerata si vendica
Il ritorno del filosofo buffone
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and46
 
Transmediale .05 Back To Basics?
Newsletter da Berlino
di Eleonora Calvelli

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and50
 
Che cosa è il fascismo? Giardini Pensili in scena a Berlino
Intervista a Roberto Paci Dalò sul suo progetto Italia anno zero
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and51
 
Le recensioni di ateatro: nella scatola magica del teatro
Renzo Boldrini Cenerentola remix
di Anna Maria Monteverdi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and59
 
La morte di Mario Luzi
Poeta e drammaturgo
di Oliviero Ponte di Pino

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and81
 
Il meeting annuale dello European Network of Art Organizations for Children and Young People
A Verona dall'11 al 14 maggio
di Ufficio Stampa AIDA

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and82
 
Festival delle Colline Torinesi: avant programme
La decima edizione dal 28 maggio al 30 giugno
di Festival delle Colline Torinesi

http://www.trax.it/olivieropdp/ateatro82.htm#82and83
 
La scomparsa di Lello Baldini
Poeta e drammaturgo
di Redazione ateatro

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L'Italia sta perdendo i suoi poeti
L'editoriale di ateatro 82
di Redazione ateatro

 

L’Italia sta perdendo i suoi poeti, e forse la sua coscienza.
In questi pochi mesi sono scomparsi Giovanni Raboni, Mario Luzi e Raffaello Baldini. Tre grandi poeti, tre voci che hanno declinato in maniere diverse la grande tradizione novecentesca della poesia italiana. Ma anche tre intellettuali che sapevano reagire alle sollecitazioni del loro tempo e al degrado della realtà politica, antropologica e teatrale del nostro paese. Insomma, tre figure di riferimento in un panorama sempre più appiattito in un conformismo isterico e vuoto. E, giorno dopo giorno, è facile accorgersi che personalità come queste non vengano sostituite – per lucidità, autorevolezza e ricchezza d’animo.
Ancora, sono scomparsi tre poeti che, soprattutto nell’ultima parte della loro parabola artistica, avevano voluto scrivere per il teatro, con risultati di grande interesse. Questa “svolta drammaturgica” poteva essere implicita nella logica della loro evoluzione poetica. Ma la scelta di un medium “comunitario” come la scena poteva in qualche modo riflettere – anche se in maniera mediata, mai ideologica – la loro tensione civile. Nel contempo, rispondeva al bisogno di affinare una lingua viva, autentica, pulsante, da sottoporre alla prova più difficile: farsi carne, corpo e respiro attraverso il lavoro degli attori. Va anche sottolineato che spesso per questi poeti gli interlocutori sono stati – prima dei grandi teatri – gruppi e artisti di quello che una volta si chiamava “nuovo teatro”, in un rapporto di reciproco scambio e arricchimento.
Insomma, c’è un vuoto. A confermarlo basta la grottesca discussione sul possibile successore di Mario Luzi come senatore a vita: Oriana Fallaci o Mike Bongiorno?
In parallelo, quasi a confermare l’attuale disorientamento, il pasticciaccio della Scala. Con il suo deficit milionario (in euro) e in inarrestabile crescita. Con le liti sotterranee tra il Direttore Artistico Muti e il Sovrintendente Fontana, dimissionato grottescamente dal cda a pochi mesi dalla scandenza del suo mandato. Con una nuova sede, costosa e nata già vecchia come il Teatro degli Arcimboldi, di cui l’ente lirico e la città non sanno che fare. Un vuoto di progettualità di cui tutti da anni sentono il peso, ma che è molto difficile denunciare. Con un consiglio di amministrazione dove spadroneggiano i Confalonieri e i Tronchetti Provera (ovvero il nuovo capitalismo corsaro all’italiana, somma di potere economico e di potere politico, di posizioni di rendita in settori protetti e di gestione privatistica della cosa pubblica), che poco prima della scadenza decide di imporre al successivo cda un nuovo Sovrintendente, il discusso Meli – che nel frattempo il corposo dossier di un ex magistrato di aver moltiplicato il debito del teatro lirico di Cagliari. Sullo sfondo, la crisi generale degli enti lirici e le strettoie imposte dalle pasticciate Fondazioni che li dovrebbero gestire. Il tutto condito dai vari veti sindacali, dall’incapacità del velleitario sindaco di Milano Albertini (che presiede il cda) di immaginare una qualche via d’uscita – a parte i suoi diktat tanto arroganti quanto inefficaci – e ancora dalle dimissioni dell’assessore alla Cultura Salvatore Carrubba, sostituito nell’annata pre-elettorale dall’estetista televisivo Stefano Zecchi… Così la crisi di una delle più prestigiose istituzioni culturali italiane ¬- uno dei rari biglietti da visita internazionali del paese - finisce sul tavolo del Prefetto, come se la Scala fosse un problema di ordine pubblico, e il buonsenso di un alto burocrate potesse almeno raffreddare gli animi…
Nel frattempo, nella bonaccia pre-elettorale, continuano a succedere mille e mille cose. In questo ateatro 82 proviamo a raccontarne alcune, in un numero ricchissimo di temi e suggestioni, tutto da scoprire. Molte altre iniziative, spesso molto interessanti, sono segnalate nella pagina nei forum (dove potete inserirle anche voi, con grande facilità) e nella pagina dei festival, che in vista dell’estate ricomincia ad affollarsi.
Insomma, i tempi sono duri, forse durissimi, proabilmente non miglioreranno, ma circolano molta energia e mille idee…


 


 

Morte e resurrezione rock
Il debutto della Mano (Doninelli-Martinelli-Ceccarelli-Montanari)
di Mario Gamba

 

Foto di Enrico Fedrigoli.

Guardate la croce dipinta sul pavimento. Guardatela e basta. Non importa che alluda al fatto che Isis si è fatta suora. A modo suo, in casa, senza monastero e badessa. Per disperazione e con molta dissacrazione. Dopo la morte tragica del fratello Jerry Geremia Olsen, genio della chitarra rock, che si è tagliato la mano sinistra. Fratello amatissimo, incesto compreso s’intende. La croce non racconta, non necessariamente. La croce non è un simbolo di chissà quale crisi mistica. È elemento di una segnaletica. Visiva, prima di tutto. Come le strisce disegnate sulle piste d’atterraggio negli aeroporti. Che servono sì a guidare, a capire dove si sta andando o ritornando, ma sono paesaggio, geometrica “land art”. Tutto questo per dire che il Teatro delle Albe in questo suo nuovo spettacolo, La mano, in prima assoluta al Théâtre des Arbalestriers di Mons, in Belgio, che ha coprodotto il lavoro con la compagnia ravennate, si rivela campione di azioni sceniche “da vedere”, fascinosamente “spettacolari” al di là di una ribadita predilezione per la parola, per la fluvialità della parola, in un quadro solo apparentemente statico.



Infatti Ermanna Montanari, l’attrice che interpreta Isis, la donna che sta in scena, la voce-corpo (definizione di Marco Martinelli, il regista) a cui tutta la scena è dedicata, mattatrice sventata e ossessiva, nel perimetro di quella croce così poco sacra comincia a ruotare su se stessa e sembra non dover smettere mai. E dà inizio al suo monologo straripante, tenero, aspro, plebeo, filosofico (mette sul piatto il senso della vita e della morte, la creatività e il perché del suo inaridirsi e la sua necessità per vivere o almeno per sopravvivere). Un diario in pubblico che gira intorno al ricordo del fratello, la rockstar trasgressiva e innovativa, intorno al ricordo del proprio adorante amore per lui, una passione da “groupie” privilegiata, intorno alla domanda: perché si è ucciso, che cosa lo ha convinto di «non avere più musica, di non avere mai avuto musica». Ma fin dalle prime battute lo spettacolo, che ha come sottotitolo De profundis rock, procede in stretta sintonia con la musica rock più speciale che si possa immaginare. Musica non-rock. Musica oltre il rock. Ma che nasce dal rock o, comunque, lo riguarda. Musica di Luigi Ceccarelli per un dramma con musica o opera di teatro musicale, chiamatelo come volete. Melodramma no, per favore.



Subito anche le luci di Vincent Longuemare sono costitutive dello spettacolo. Una parete in fondo al palcoscenico tutta occupata da batterie di fari che si accendono appena o sfolgorano o si spengono in parte o si spengono tutti. Invenzioni davvero portentose. Apparato luminoso da concerto rock, se vogliamo. Oppure qualcosa di gotico. Ma è meglio, ancora una volta, non pensare a queste implicazioni narrative. E godere la vera narrazione di un flusso unico di parole e suoni e luci.
E le scene in senso stretto? Efficacissime e suggestive quelle di Edoardo Sanchi. Dopo il “balletto insensato” iniziale sulla croce Isis si sposta su una piattaforma che è proprio fatta come un gigantesco long-playing. Siamo in tema, certo: il rock, magari quello di un tempo, quello di Jerry Olsen che non badava alla supertecnica di certi giovani leoni venuti dopo ma a quanto era possibile dire del pensiero sul mondo in un brano rock. Eppure anche qui la pedana per la prosecuzione del monologo estremista di Isis funziona benissimo come porzione della scena di cui godere per la sua attraente forma circolare. E in questo lavoro tutto è circolare, tutto è polisenso, tutto è aperto (nessun effetto claustrofobico nonostante la fissità della situazione). Il suono delle parole, anzitutto: resoconti ben scanditi e lenti poi vertiginose “melodie” dove tutte le parole si legano una all’altra. I modi dell’essere che quelle parole descrivono: l’odio vitalistico per le regole e la voluttà di morte, miti e realtà del rock ma non solo del rock, forse di tutta una “generazione bruciata”. Il suono dei suoni (su nastro), che variano continuamente da “respiri” vagamente ambient a laceranti spasimi di rock post-Robert Plant e post-Jimi Hendrix, da sapiente dispersione nello spazio di punteggiature rumoriste a elaborazioni in stile contemporaneo “colto” (e avant-garde) delle tante memorie rock e persino blues.



Sulla pedana-Lp Isis non è più sola: ha un interlocutore muto (l’attore Roberto Magnani) che indossa una grande testa di Topolino. Un assistente spirituale? Una proiezione delle infatuazioni “americane” di Isis? Un analista che la incoraggia a elaborare il lutto e a rivivere la sua passione d’amore diventando lei stessa rockstar davanti a un microfono? Ermanna Montanari è di nuovo chiamata, dopo L’isola di Alcina, a una prova di sublime ammaliante sconvolgente virtuosismo. Ha voce acre che non rifiuta la dolcezza, una voce come non educata (niente birignao, quindi), una voce (e una testa) ultracolta per un teatro dell’esserci, della presenza di anime e corpi esacerbati e generosi. Aderisce al ritmo musicale dell’opera e ne detta a sua volta il ritmo, riuscendo meravigliosamente a suonare rilassata anche nei toni di delirio.
Il compositore. Luigi Ceccarelli – vanno citati tra i suoi importanti lavori almeno Anihccam (1989), Macchine virtuose (1993), Birds (1995), De Zarb à Daf (1998) – ha inaugurato nel 2000 con L’isola di Alcina la sua collaborazione col Teatro delle Albe. Proseguita con Sogno di una notte di mezza estate (2002) e ora con La mano. Lui e il “gruppo anarchico” di Ravenna (ancora definizione di Marco Martinelli) si sono scambiati idee e stimoli e ora lavorano in una sintonia che corre solo il pericolo della simbiosi. Il deus ex machina, infine. Marco Martinelli ha ricavato dal romanzo omonimo di Luca Doninelli (Garzanti, 2001) il “libretto” per La mano. Attribuisce il testo a Doninelli per il fatto di aver conservato i frammenti del libro tali e quali. Ma il montaggio di questi frammenti è suo. E mirabile il gioco di incastri, di ripetizioni, di salti improvvisi, di ritorni ossessivi sugli stessi temi. La sua regia nasce dal rapporto più che ventennale (erotico e professionale: una miracolosa durata) con Ermanna Montanari. Poi accoglie le performances dei collaboratori esterni-ma-non-troppo (Ceccarelli, Longuemare, Sanchi), non assembla, non dirige, trova il punto comune. Grande regista del nostro tempo.

Dopo il debutto a Mons (Belgio), La mano debutterà in Italia a Ravenna Festival in giugno e sarà poi replicato in altre rassegne estive.


 


 

La lingua biforcuta della musica
Una intervista con Ermanna Montanari
di Mario Gamba

 

Foto di Alessia Contu.

Isis è una donna un po’ svampita. Così, senza volerlo, introduce il disincanto nelle sue ossessioni. Io questo spettacolo lo sento leggero. Ecco: mi vengono in mente parole come levità e leggerezza.



Ermanna Montanari bisogna conoscerla. Ragazza-scricciolo con la forza di una maratoneta. Se parla fuori scena, dopo gli olimpionici monologhi in scena a cui ci ha abituato, lo fa con un piacevolissimo fervore.
Voce-corpo, dice il suo partner e regista. Vuol dire che la sua corporeità, Montanari, in scena si esaurisce nella parola? Una corporeità più accentuata, più in movimento, non le manca?


La voce è la carne per me. Il tremolio del corpo. È una voce che danza. Il movimento è lì. Per me è la massima espressione, adoro la parola. La parola è proprio il corpo glorioso. In un altro lavoro del Teatro delle Albe, I polacchi, sono come una marionetta, frullo qua e là. Ma non mi sento più in movimento rispetto alla Mano o all’Isola di Alcina. Per questi lavori e per l’uso della mia voce mi vengono in mente metafore erotiche: ti fai penetrare, sei penetrata…

Questa volta lei è “dentro” la musica o “con” la musica? La sua è recitazione pura o una specie di sprechgesang?



C’è un combattimento con la musica e nello stesso tempo un’interazione. Questa musica ti abbraccia eroticamente, di continuo… È diversa da quella di Alcina: qui vengo scossa e riempita dalla musica, proprio nel corpo. Questa musica è come un serpente con la lingua biforcuta…

Il personaggio di Isis è ancora quello di un’ossessa, una donna al limite. Come Alcina. Lei ha ormai la strada segnata.

Ma L’isola di Alcina era dura, invece La mano è leggera. Quella donna là era un’assassina, questa, invece, è andata a letto col fratello e poi sogna Topolino, ha un immaginario americano. Alcina poteva uccidere, Isis è una donna indifesa, una stuprata, forse.



Senza il rock e i suoi miti, l’eccesso, la dannazione, questa pièce non esisterebbe. Come si è preparata alla parte: ascoltando rock ventiquattr’ore al giorno?

Anni fa avevo un fidanzato che prendeva a modello Robert Plant, lo imitava nel vestire e nelle movenze quando cantava. Ho preso molto da lui. Più ancora ho amato il punk. E qui, in questo nuovo lavoro, qualche richiamo al punk c’è. Anche se io ci trovo alcune tinte dark. Insomma, ho un forte background rock. Esistenziale, direi. Non ho avuto bisogno di ascolti a tempo pieno.



Una domanda personale. Lei è una diva, innegabilmente. In una compagnia che agisce come una comune, con compensi non alti uguali per tutti. Situazione esaltante o frustrante?

Se il Teatro delle Albe non fosse così io non esisterei nemmeno, non sarei quella che sono oggi. Sarei come Isis. Quando ho incontrato Marco ero in una fase di completa distruzione di me stessa. Questo modo di gestire l’impresa, a cui corrisponde poi un modo di lavorare in comune, costruendo gli spettacoli pezzo dopo pezzo, col confronto, con l’ascolto delle idee di tutti, è un dono, un vero dono per me. Mi dà la possibilità di stare al mondo.
 


 

Le recensioni di ateatro: il mondo non verrà salvato dai ragazzini
Kinder-Traum Seminar di e con Enzo Moscato
di Concetta D'Angeli

 

Avvenimento importante, l’ultimo spettacolo di Enzo Moscato e della sua Compagnia, quel Kinder-Traum Seminar. Studio scenico su un pensiero-parola dedicato alla Memoria Collettiva dell’Olocausto che debuttò nel luglio 2004 al Mittelfest di Cividale del Friuli e da allora non ha girato molto. Peccato.

Avvenimento importante in sé, per il suo valore artistico, e, più ancora, per i problemi che apre su numerosi piani. Moscato si confronta con la realtà e la storia a partire da un modo di intendere il teatro come sede del simbolico e dell’immaginario, non come specchio o rappresentazione documentaristica; avanza verso lo spettatore una pretesa alla Artaud, severa per impegno emotivo e intellettuale; apre, sul rapporto tra testo scritto e sua attuazione nello spettacolo, insoliti interrogativi.
Ciò che impropriamente si definisce Olocausto – come fece notare l’illustre vittima Bruno Bettelheim, termine che allude ad antichi riti religiosi, a sacrifici che trasfigurano e nobilitano – fu lo sterminio nazista di ebrei, zingari, omosessuali, malati di mente, oppositori, e Moscato lo raffigura attraverso il trauma e i meccanismi che subentrano, a cominciare dalla rimozione. Le cui forme sono varie: alcune consapevoli, altre strumentali, altre ancora involontarie, istintive, dettate dal bisogno di sopravvivere, di difendersi da quell’orrore incomprensibile, non riscattabile.
L’attuale tendenza al revisionismo storico minimizza la portata di quel fatto traumatico – Shoà o Olocausto o mattanza che si voglia definire – e mette l’accento su altri gravissimi e nefandi eccidi: il genocidio degli armeni, i Gulag, le foibe in Istria... La storia non è certo avara di carneficine. Se lo sterminio del Terzo Reich si è cristallizzato, nella memoria e nella coscienza collettivi, come segno d’orrore, è per un concorso di circostanze e di specificità che a esso solo appartengono: derivare, come legittima filiazione, da un pensiero tra i più nobili che la filosofia occidentale abbia prodotto; essere stato praticato con efficienza e sistematicità; essersi avvalso di una manovalanza pronta all’obbedienza, priva di ritegni morali, banale, e iniqua, nel commettere il male come nel praticare il bene; aver lasciato in eredità risultati scientifici e metodi di lavoro che, sperimentati durante quel massacro, utilizziamo tutt’oggi (l’energia nucleare; molte pratiche mediche, a cominciare dalla genetica; l’uso politico e commerciale di massa della propaganda e della pubblicità...).



Con la Shoà Moscato sceglie di confrontarsi non frontalmente, ma attraverso la prospettiva straniata e anomala del sogno.
Kinder-Traum Seminar, in modo esplicito, fin dal titolo (rubato a Jung) è coinvolto con la psicoanalisi, e si occupa dell’onirico, dei meccanismi involontari, degli stati profondi della psiche espressi per accenni oscuri e vie traverse, dei moti irrazionali, della memoria inconsapevole. Ambigua non a caso è, del titolo, l’interpretazione: Seminario sui sogni dei bambini oppure Seminario dei bambini in sogno...
Quello che vedono i bambini, dunque, nella prima traduzione, col loro sguardo ancora poco “normalizzato”, dove la percezione del reale si fonde con i bisogni primari, l’emotività, l’affettività, la fantasia, i desideri. E ciò che questi piccoli vedono è la Kapò: un archetipo della malvagità, una strega cattiva con i caratteri ariani esaltati da una maschera deformante. E apprendono una lezione. Una lezione di sopravvivenza che insegna a negare ogni generosità, a nascondere egoismo e conflitti edipici per opportunità e necessità («Ti do un consiglio: / non dare più la tua razione di pane e di zuppa al tuo vecchio padre. / Tu non puoi fare più nulla per lui e così, invece, ti stai ammazzando. / Dovresti, al contrario, sgraffignargli anche la sua, di razione, eh, eh!»). E aspettano. Disconoscendo la tragedia, aspettano un avveniment o miracoloso, un’impossibile festa, la comparsa dell’eroe delle fiabe («mia sorella ed io, tenennece pe mmano, / le teste capovolte verso l’alto, / domandaieme ‘e ce mannà cocche signale: / na cumeta, che saccio?, dirett’a Betlemme, / c’allumasse quei cupi nostri anni di follia/ [...] aspettavamo e aspettavamo, aspettavamo. / ‘E ccriature aspettano sempre / qualcosa d’importante, / e na Notte come quella, Chella Notte, / porta in sé, come una gemma, ‘a mala nova, la sciagura. / ‘E ccriature, però, ‘spettano ‘o stesso. Sempe»). E su tutto, la caparbia fede nei sogni, l’infantile capacità di vedere, pure nei reticolati di filo spinato, le lucine colorate di natali rimpianti: «Ma ‘e ccriature sunnavano. Cuntinuavano a sunnà [...] / ‘o ccuntrario ‘e nuie, ca, invece, a sunnà, / buone nun ereme cchiù, a tantu tiempo. / E perciò si è dovuto eliminarli. Tutti. / Si è dovuto affrontare un Grande Olocausto Piccerillo. / Nu Grande Maciello Piccerillo. / Nu Grande Sterminio Piccerillo. / Nu Grande Genocidio Piccerillo».
Kinder-Traum Seminar anche nel senso di Seminario sui bambini in sogno, sorta di ritorno del rimosso, per dirla stavolta in termini freudiani. Con la persistenza di un trauma che non si cancella, riaffiorano piccoli deportati, gasati, fucilati, strappati alla protezione materna, usati per esperimenti: «Ricordo d’aver letto proprio così: il bambino De Simone (napoletanissimo cognome, tra l’altro), quando finalmente parlarono di lui, più di cinquant’anni dopo, nei giornali, e ci dissero evasivi, era capitato tra le grinfie di Mengele. Seviziato [...] Badate bene: Kinder-Krippe vuol dire solo asilo-nido, pei Tedeschi. / Ma ‘o suono, ‘o suono, forse dice tutta n’ata cosa».
Moscato non adotta mai il tasto del patetismo, non si commuove sulla bellezza o l’inermità dell’infanzia, né sul compito che la speranza sociale le affida: rappresenta il futuro dell’umanità. Se i bimbi commuovono, è per ragioni proiettive, ben più autentiche e coinvolgenti. Quelle “ccriature” violentate siamo noi, i bambini ch’eravamo; e che, in parte, per l’immobilità della vita psichica, per sempre rimaniamo.

L’esperienza del campo di sterminio è filtrata dalle griglie oniriche, e si sa che i sogni non possono essere letti come libri di storia, né le immagini guardate come riflessi di uno specchio. I sogni, insegna Freud, vanno interpretati, decifrati, svelati attraverso percorsi pazienti e complessi; i sogni vanno attraversati nella loro oscurità.
E’ quanto Moscato chiede al suo pubblico.
Lo spettacolo è difficile. Rende difficili le identificazioni emotive con personaggi che si spostano per la scena riproducendo l’ossessiva circolarità del movimento e la coazione dei luoghi di segregazione (prigioni, manicomi, campi di lavoro o sterminio). Con personaggi che si aggirano in tondo pronunciando frasi, declamando poesie; che si interrogano testardi e cantano, sovrapponendosi o all’unisono, secondo il ritmo di una liturgia macabra e sacrilega.
L’impossibilità dell’identificazione respinge gli spettatori, impedisce o interrompe la commozione, ostacola il pianto, la catarsi, la consolazione di mettersi nei panni delle vittime. Costringe a sperimentare il disagio. A vivere la colpa di chi condanna l’eccidio ma, con la presunzione dell’innocenza, eredita frutti utili per la durata della vita; di chi prende le distanze da un simile misfatto attribuendo la responsabilità alla devianza, non alla normalità feroce della natura umana.
Lo spettacolo è difficile anche per il linguaggio poco decifrabile. Da una parte, riproduce la varietà di idiomi parlati nell’orrore dei campi, «come se la Torre di Babele fosse stata innalzata in mezzo a noi»; d’altra parte accentua un carattere che appartiene all’opera e agli spettacoli di Moscato... All’uso di un idioletto composito, formato dall’intersezione del napoletano (plebeo, aspro) con l’italiano colto, le lingue classiche, le straniere. Stavolta però il tradizionale mélange è praticato fino all’ermetismo, accentuato da una recitazione che pare abbia lo scopo di rendere oscure le battute.
Una simile comunicazione non coinvolge il piano razionale e concettuale del linguaggio; al pubblico viene così consegnato il mistero di suoni analoghi a quelli dei sogni, o della eco emotiva che gli avvenimento storici depositano su alcune lingue... Il tedesco, qui, sebbene la Kapò reciti Paul Čelan, contiene sempre la paura e la violenza; lo slavo, invece, ha la dolcezza della liriche di Marina Cvetaeva e Anna Achmatova nonostante la “prigioniera” sul proscenio sia avvolta di stracci e legga un quadernetto sdrucito, conserva il pianto dei deportati dagli Shtetl, evoca la musica lieve e dolente dei villaggi Askenaziti o dei gitani. Alla voce in play-back del fratello di Moscato, Salvio, in napoletano stretto, è affidato il “messaggio” dello spettacolo. L’invito a non usare parole qualunque per raccontare le tragedie della Storia: «Pirciò parlano e parlano, senza sapè chello ca dicene. / Pe se scurdà. / Pe nun ‘e ttené sempe annanz’all’uocchie. / Pe nun ‘e ssentì sempe dint’e rrecchie». E siccome la voce è cavernosa, è impastata, le frasi (incomprensibili) si rovesciano sul pubblico con l’oscurità del vaticinio.

Il testo non è stato editato. Potendolo però leggere, salta all’occhio quanto sia più ricco rispetto allo spettacolo, che non è sempre risolto.
Texture di citazioni disparate, l’autore stesso ne fornisce l’elenco: Janusz Korczak, Tadeusz Kantor, Etty Hillesum, Primo Levi, Elie Wiesel, Gitta Sereny, Tzvetan Todorov, Mary Berg, Bruno Bettelheim, Robert Antelme, Edith Stein, Paul Čelan, Marina Cvetaeva, Anna Achmatova. Letteratura ebraica, dunque; oppure, come quella della Cvetaeva, di chi ha sperimentato l’emarginazione, la disperazione del lavoro coatto, la fame, il freddo. Moscato l’ha in parte restituita in napoletano: un’operazione di amalgama, con le caratteristiche della sua consueta drammaturgia (plurilinguismo, multivocalità, contrasti stilistici).
Qui sarebbe interessante riprendere il discorso, di recente riacceso da più parti, sulla relazione fra la drammaturgia e la sua messinscena. Per quanto riguarda Kinder, l’impressione è che lo spettacolo si voglia porre come la tappa conclusiva, la più suggestiva e ricca, di un tormentato percorso di autocoscienza, di cui dà conto, nel testo scritto, la sezione intitolata Strano intermezzo personale. Vi si ricostruiscono gli stadi, anche culturali, che nel tempo hanno contribuito a formare, nell’immaginario e nell’arte di Moscato, una sorta di ossessione della Shoà, e le ragioni che lo hanno orientato a mettere in luce, dello smisurato eccidio, la strage dei bambini. Forse l’intensità emotiva di tale percorso, che la messinscena conserva, impedisce talvolta di sciogliere dei grumi, che invece non appartengono alla scrittura, più distesa e argomentativa – più convincente.
L’acquisizione di consapevolezza sull’eccidio nazista è punteggiata di libri. Dal Diario di Anna Frank letto da ragazzino («il mio primo impatto col binomio scrittura/mistero, scrittura/crimine o scrittura e male tout court») alla Storia di Elsa Morante, al testo (stavolta documentario) che finalmente getta un po’ di luce sulla sorte degli ebrei napoletani, Meglio non sapere di Titti Marrone. Opere e memorie collettive, narrazioni ascoltate da piccolo indirizzano quel percorso, come il terrore delle retate tedesche («al punto che qualsiasi individuo di sesso maschile – così mi raccontavano – veniva di furtivo annascunnùto da madri, sorelle, mogli, fidanzate, arint’ ‘e saittelle, abbascio ‘e fugnature, per sottrarli a chilli scunsacrate, a chelli belve albine c’alluccavano abbrucate»). Ma soprattutto lo guida il pungolo malagevole dei sensi di colpa: per anni, fin da ragazzino, fantasticò delle tragiche deportazioni dei “giurieie”, sebbene a Napoli – sembrava – non ce ne fosse traccia.
Adulto, Moscato interpreta quella tormentosa fantasticheria come «l’enigmatico segno, il ‘resto’ visivo e percettivo [...] di ciò che la storia anche da noi, anche a Napoli, aveva fatto di brutale e che poi era stato cancellato, o quantomeno occultato, dall’ipocrita restauro della sopravveniente ragion civile, dell’ordine e la bontà dell’uomo ripristinati: rimosso da quel ‘presente’, insomma, criminalmente del tutto avulso dai debiti e dalle nefandezze del passato». Fino a che le ricerche storiche illuminano le sventurate vicende di tre bambini napoletani, d’origine ebraica, trascinati nel nebbioso Nord; e uno di loro – appunto - sparì nei laboratori di Mengele.
Nello spettacolo, comprimario, c’è un interprete bambino, Giuseppe Affinito, che con singolare maturità artistica dà corpo all’infanzia violentata e uccisa, mantiene un’asciutta secchezza, una fugace ironia. Intorno gli altri attori (Cristina Donadio, Gino Grossi, Carlo Guitto, Pasquale Migliore, Vincenza Modica, Gianki Moscato), apparizioni di concentrata sofferenza o di repressa ribellione o di violenta sopraffazione. Al centro lui, Enzo Moscato, lui in un ruolo non certo di mattatore, ma, al solito, dotato d’intensità dolorosa, che funziona da forza centripeta. Tutto, infatti, ruota intorno alla sua figura, dimesso impiegato col grembiule grigio e le mezze maniche. Immagine di una quotidiana non-eroica normalità dello strazio.

Kinder-Traum Seminar
di e con Enzo Moscato
Buti, Teatro "Francesco Di Bartolo", 22 febbraio 2005


 


 

Romeo e Giulietta in pizzeria
Il teatro di Oskaras Koršunovas
di Stefania Bevilacqua

 

"All’inizio Eurinome, Dea di Tutte le cose, emerse nuda dal Caos e non trovò nulla di solido per posarvi i piedi: divise allora il mare dal cielo e intreccio’, sola, una danza sulle onde. Sempre danzando si diresse verso sud e il vento che turbinava alle sue spalle le parve qualcosa di nuovo e di distinto; pensò dunque di iniziare con lui l’opera della creazione... subito essa, volando sul mare, prese la forma di una colomba e, a tempo debito, depose l’Uovo Universale da cui uscirono tutte le cose esistenti figlie di Eurinome: il sole, la luna, i pianeti, le stelle, la terra con i suoi alberi e con le erbe e le creature viventi“.
Quando ho visto per la prima volta lo spettacolo Įstabioji ir Graudžioji Romeo ir Džuljetos Istorija, durante il Festival del Teatro “Sirenos”, Vilnius 1 ottobre 2004, ho intuito la straordinaria capacità del regista di concepire la tecnica registica non come semplice rappresentazione di un testo sulla scena, ma come punto di partenza di qualsiasi creazione teatrale: è il creatore unico, cui spetta la responsabilità dello spettacolo e dell’azione. Per questo motivo ho citato il mito pelasgico della creazione, di cui scrive Robert Graves nel libro I miti greci, perché Oskaras Koršunovas ogni volta che crea uno spettacolo da un nome alle “ombre”, le guida, dà loro la vita.



Il suo teatro è essenziale perché è la rivelazione, la spinta verso l’esterno della dimensione più profonda dello spirito umano: in Įstabioji ir Graudžioji Romeo ir Džuljetos Istorija, servendosi di tutti i mezzi espressivi quali i gesti, i suoni, la musica, le parole, la luce, rappresenta l’Amore, la Discordia, la Pietà, l’Assassinio, l’Amicizia, l’Ira, la Nemesi, la Vendetta, la Collera, il Fato, la Morte, tutti i temi presenti nella tragedia di William Shakespeare, sentimenti di cui si nutre l’Umanità e che agiscono sulla scena come simbolo e archetipo: la farina, certezza del pane, metafora della vita e della sopravvivenza acquista una valenza simbolica negativa.



La scena è occupata da due pizzerie, immagine speculare delle famiglie Capuleti e Montecchi, portatrici entrambe di Odio, Vendetta, Potere. Le due strutture metalliche simmetriche compongono una croce, presagio funesto e al centro della scena un recipiente metallico, un impastatore che contiene la farina, un vaso di Pandora "che tutto dona“ nel quale si trovano tutte le Pene di cui si nutre l’Umanità. La farina è la Discordia, è la Passione, è la maschera tragica della morte; è l’Odio che si esprimono reciprocamente le due famiglie e che troverà la sua Pena nella morte, prima, di Mercuzio e Tebaldo e poi nei due giovani, innocenti, amanti, Romeo e Giulietta. Sul finale i loro corpi giacciono su quel “recipiente” che ha generato il Male sacrificando gli unici fiori di tanta stupidità.

Ritrovo negli spettacoli di Oskaras Koršunovas un linguaggio che appartiene ai sogni, che sonda gli strati più oscuri della coscienza. Ritrovo sulla scena la proiezione del pensiero, della verità non detta, non esternata: in Oidipas Karalius lo spettatore è intimamente coinvolto nella dimensione mentale infantile di Edipo. Il suo dramma contorto è subito annunciato nelle prime scene: i “figli” di Cadmo, tanti bambini con la testa smisuratamente grande, presagio inquietante, sono il tema della “figliolanza” di Edipo, figlio parricida, figlio innaturale, sposo della madre, fratello-padre di figli assurdi, figlio a cui e’ stata negata la naturale felicita’ di vivere con i genitori autentici, sacrificato a opera del padre Laio con il consenso della madre Giocasta, autori dell’attentato alla sua vita.
La Peste sconvolge Tebe, la peste e’ il momento del Male, trionfo delle forze oscure: appare Edipo, mitico paradigma di Cadmo, fondatore e capostipite di Tebe e, come scrive (4) Ezio Savino, l’eroe sagace, sterminatore di mostri, e nel quale Edipo, tebano inconscio, convinto ancora di essere corinzio, decifratore di enigmi e uccisore della Sfinge, superbamente si rispecchia. Vuole salvare la popolazione ma e’ egli che sara’ indicato come la perversa radice del male che tortura Tebe in quanto uccisore di Laio.
Sono presenti sulla scena la reggia di Edipo, gli altari, le effigi, il coro e il corifeo ma lo spettatore assiste ad una trasposizione di segno: la reggia è un parco giochi dove tanti topolini agiscono come il coro e il corifeo è un grande orso che nell’immaginario infantile è il fedele amico al quale ogni bambino ha confessato le più intime sensazioni e che via via che il dramma si svolge, porta i segni sul corpo dello sfogo agressivo della coscienza di Edipo.Il ruolo drammatico di profeta delle sue sciagure è Tiresia, qui, un burattino-pinocchio, “bugiardo”, come Edipo desidererebbe che fosse.
La morte naturale di Polibo, supposto padre, allevia Edipo dall’orrore del responso delfico portato dal messaggero il quale, dopo una luminosa schiarita, comunica a Edipo che egli non è il figlio di Polibo e il dramma ripiomba nella situazione più disperata: la mente del protagonista è travolta dalla girandola dei sensi, violata, disturbata, devastata dagli eventi tragici. Il suo corpo gira, gira su quello che sulla scena è un dondolo-altalena. Il coro che, partecipe della catastrofe, compone una danza luttuosa accompagnando in questo “vortice” il protagonista, non ha più il volto di tanti topolini, ma le mashere di volti umani.
Edipo si acceca e la mutilazione impedirà allo sciagurato di guardare in faccia i suoi quando calerà nell‘Ade e questo avviene nel momento in cui tutto e’ chiaro, in cui Edipo ha scoperto il suo essere. Anche l’enigma della Sfinge serbava, celata, la verità: il bambinosacrificato, l’uomo guerriero parricida, il vecchio espulso, in quanto parricida, dalla terra nativa.
E ancora sul finale, quando arrivano le figlie Antigone ed Ismene, lo spettatore assiste alla proiezione illusoria e quasi mostruosa delle due giovani, in quanto figlie sorelle, nella mente di Edipo.
Il grande paradosso della tragedia sofoclea si spiega anche con le idee freudiane sulla rimozione: (vedi George Groddeck nel Linguaggio dell’Es) non esiste percezione senza rimozione, cio’ che vediamo con l’occhio è in parte rimosso. Edipo vedeva e aveva rimosso la verità che si manifestava negli eventi, ora, cieco, vede tutto, non ha più la possibilità di fuggire a se stesso.

Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov è sì un romanzo satirico contro il regime stalinista, è la storia del diavolo celato sotto il nome di Woland che arriva con la sua corte nella Mosca degli anni Venti per affermare i valori del Male autentico e quindi del Bene autentico ed è la storia del Maestro, autore di un libro su Ponzio Pilato, aspramente criticato, e dell’amata Margherita la quale si farà strega e presiederà al gran Sabba, condizione necessaria per ottenere la liberazione dell’amato Maestro, ma è molto, molto di più.
Il regista Oskaras Koršunovas nella direzione del suo spettacolo, narrando con precisione gli eventi, ha colto l’essenza del capolavoro di Bulgakov: la fantasia, l’ironia, la satira sociale, la politica, le inquietudini metafisiche, i conflitti fra ragione e fede, gli spessori della psiche, i fantasmi onirici, la visionarietà: quasi una concezione unitaria dell’uomo contemporaneo.
Riuscire a rintracciare questa immagine vuol dire aprirsi a una più ampia comprensione dei rapporti simbolici tra uomo e mondo. Magistralmente ha rappresentato il Volo di Margherita e il Gran ballo di Satana. Servendosi di uno schermo ha mostrato questo momento del romanzo come una via nuova, una via che porta a concepire il tutto apparente come simbolo dell’universo: la prima immagine è quella di un secchio, idea di procreazione, nascita, cavità interna, gaster (ventre) e da esso, poi, paesaggi, alberi, fiumi, evasione dal mondo per raggiungere la meta, il superamento del proprio Io, meta di ogni aspirazione umana. Si percepisce l’emanazione di certe forze dove si evidenzia più nettamente l’elemento femminile ed è presente l’istinto all’unione; si potrebbe usare l’espressione greca meignysthai (mescolarsi).
Dopo questa esperienza, Margherita avrà il suo Maestro, il suo amore, il suo simbolo: noi amiamo ciò che è simbolo di noi stessi e ciò che noi stessi siamo.
Sarà presente, nel finale, ancora il nesso Amore-Morte. Ma la morte del Maestro e Margherita, che ha preservato il suo cuore gonfio nell’attesa di ricongiungersi con lui, vedrà la luce di Dio. Il loro morire non è la fine, bensì la condizione necessaria al divenire.

Bibliografia

Giuseppe Salvatori, Storia miti e canzoni degli antichi lituani, Roma, , 1932.

Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio, Torino, Giulio Einaudi Editore s.p.a, 1968.

Robert Graves, I miti Greci, Milano, Longanesi & C., 1985.

Sofocle, Edipo Re, Milano, Garzanti, 1999.

George Groddeck, Il Linguaggio dell’Es, Verona, Arnoldo Mondadori Editore, 1975.


 


 

Obbligati a dire, in teatro
Introduzione a César Brie-Teatro de los Andes, Dentro un sole giallo, cura e traduzione di Silvia Raccampo, Titivillus, 2005
di Silvia Raccampo e Fernando Marchiori

 



Capita anche a La Paz di intercettare il passaggio fugace di qualche comitiva di marziani bardati high-tec, appena approdati all’aeroporto di El Alto, diretti al loro hotel full-comfort, per acclimatarsi dovutamente prima di partire alla conquista della Cordillera Real. Ma la Bolivia non è (ancora) un paradiso turistico di massa. La sua bellezza aspra e imponente, già ferita da secoli di sfruttamento, resiste severa, almeno finché i sempre più spregiudicati mercanti di immaginari non decideranno di gettarla in pasto ai nostri sazi desideri di fuga verso un altrove anestetizzato. Per questo nemmeno una catastrofe cosiddetta “naturale” – la sola occasione ormai in cui il mondo di qua accende i suoi potenti riflettori sui mondi di là – ci fa volgere lo sguardo su quella terra. E forse è un bene, se puntualmente la breccia che squarcia la nostra globale indifferenza diventa il varco attraverso cui far sfilare la parata della solidarietà primomondista, la messa in scena del vergognoso spettacolo della mobilitazione umanitaria, avanguardia di una nuova, più sofisticata conquista. In gran fretta si richiude la crepa che si era aperta, si scacciano i dubbi che si erano insinuati, si addomestica il volto osceno della miseria. E mentre si crede di appianare il nostro secolare, inestinguibile debito con “loro”, nelle sue innumerevoli declinazioni (culturale, economico, ecologico, tanto per cominciare), si continua in realtà ad alimentarlo.
La Bolivia, però, nella sua ricca mescolanza di popoli e lingue millenarie, resta irriducibilmente altra e aperta, viva, uno straordinario laboratorio di biodiversità culturale. Forse il segreto di questa sua capacità di resistere e rinnovarsi è custodito in un’antica parola della lingua aymarà composta di 36 lettere: aruskipasipxañanakasakipunirakispawa, ovvero, in una traduzione approssimativa, siamo obbligati a comunicare (tra noi). Ci ricorda il poeta Jesús Urzagasti che questa parola, nonostante la sua aria misteriosa, ogni giorno compare sulle labbra del popolo che da tempo immemorabile abita gli altipiani andini.
E proprio per questo non stupisce che la Bolivia, il paese più povero del Sudamerica (dove il 75% dei suoi otto milioni di abitanti – in maggioranza indios – vive al di sotto della soglia di povertà, malgrado le riserve di gas boliviano siano le più grandi del continente), sia una terra capace anche di formulare risposte di grande fermezza e durezza di fronte ai tentativi dei potenti di ridurla al silenzio. È successo per ben tre volte negli ultimi anni: nel 2000, con la “guerra dell’acqua”, scoppiata a Cochabamba, quando la multinazionale californiana Bechtel tentò di imporre la privatizzazione di quella risorsa primaria, e per questo fu cacciata dal paese (quella stessa Bechtel, il cui fatturato è il doppio del Pil dell’intera Bolivia, che attualmente è capofila nella “ricostruzione” irachena); poi nel 2001 e 2002, quando le proteste del movimento contadino dei cocaleros, che difende una cultura millenaria, sconfissero le politiche antidroga imposte dal Fondo monetario internazionale; e infine nel 2003, nei giorni dell’“ottobre nero pazeño”, quando una gigantesca mobilitazione sociale, appoggiata anche dalla Chiesa, sventò il tentativo di rapinare i boliviani dell’ultima ricchezza ancora in loro possesso, il gas naturale. Le proteste della popolazione costrin-sero il presidente Sánchez de Lozada, responsabile della morte di 150 persone, uccise durante la repressione della rivolta, a fuggirsene via (a Washington, via Miami).



Bambini nel sisma
Due anni prima che scoppiasse la “guerra dell’acqua”, proprio la regione di Cochabamba, nel cuore dell’America Latina, fu devastata da un violento terremoto. Un terremoto annunciato. Sappiamo, lo abbiamo riscoperto in tempi di tsunami, che terremoti e calamità naturali, con le loro premesse e conseguenze, le loro vittime, non sono tutti uguali. Che una sciagura nello Sri Lanka o in Bolivia non è uguale alla stessa sciagura in Giappone o in Florida. Sappiamo anche, nello stesso tempo, che una catastrofe lontana può toccarci, commuoverci, scuoterci in virtù della sua ascrivibilità a un paradigma tragico universalmente condiviso, capace di traghettare in angoli lontani del Pianeta un identico, radicale smarrimento di fronte al male inspiegabile. E tuttavia in questa tragedia che ci arriva ora dalla terra dove “non si può non comunicare” – che ci arriva nelle figure che il Teatro de los Andes ha scelto per comunicare – resta qualcosa che il dolore non scioglie e la pietà non ricompone. Ed è la presenza ossessiva, fastidiosa, a tratti pervasiva dei bambini. Lo strazio delle piccole vittime che non hanno voce, che restano mute, confinate nel loro silenzio. Ma se appena le nomini, arrivano a frotte, si accalcano debordanti e testarde, e riempiono, fino alla saturazione, lo spazio, vuoto per noi, dell’infanzia. Sono i bambini uccisi nel sonno la notte del terremoto, quelli morti in grembo alle madri ancora prima di nascere, quelli che si ostinano a venire al mondo proprio quella notte, e poi dopo, incessantemente, per rinfoltire le schiere dei loro fratelli scomparsi. Nessuna “piccola Irma” tra i bambini boliviani (per chi non lo ricordasse, Irma era la bambina bosniaca portata in Italia per essere sottoposta a cure specialistiche la cui vicenda fu assurta dai media a simbolo dell’efficienza e del buon cuore della solidarietà internazionale; cfr. Luca Rastello, La guerra in casa, Einaudi, Torino 1998). Impossibile usare con loro i dispositivi di neutralizzazione dell’infanzia che il mondo di qua ha escogitato per non guardare, per non vedersi.
Onnipresenti nel testo di Brie, i bambini sono resi in scena con dei pupazzi che giocano un ruolo non secondario nella definizione dello spazio del dolore e della sua rappresentazione – della sua rappresentabilità. In scene delicatissime, ad essi si conformano gli attori, le loro posture, le cere dei volti, componendo gruppi e motivi, modellando una materia cromatica e iconografica coerente con il paesaggio naturale e simbolico del mondo andino.



Senza rinunciare al teatro
Prima di etichettare lo spettacolo – “civile”, “politico” – sarà bene soffermarsi su altri aspetti compositivi, per metterne in luce un carattere essenziale che lo distingue dalle produzioni correntemente aggettivate in quel modo. Il limite artistico del fenomeno del cosiddetto teatro civi-le, almeno per come si è andato delineando e imponendo in Italia quale genere a sé fin dai primi anni Novanta – ovvero come racconto di attori monologanti –, è il sacrificio, se non l’assenza tout court, di un linguaggio propriamente teatrale che superi il piano della più o meno elaborata narrazione e si confronti con la tradizione e la ricerca per esprimere potenzialità del corpo-voce in movimento in uno spazio scenico. Le motivazioni contingenti di questa “rinuncia al teatro”, della quale un narratore di solida formazione attorale come Marco Paolini ha rivelato una inquieta consapevolezza, vanno dalle urgenze e priorità spesso extrateatrali alla sfiducia nei confronti delle possibilità espressive di una messinscena “impegnata”, ai rischi di un naturalismo di ritorno. Il Sole giallo del Teatro de los Andes ci porta invece un esempio di teatro civile che non rinuncia a elaborare, insieme a una fitta partitura verbale, anche le differenti partiture del corpo, degli oggetti, del movimento, che lavora con le luci e le musiche, che si interroga sulla presenza dell’attore in scena. Che non rinuncia al teatro, insomma. Fin da quello squarcio iniziale, autentico sisma scenografico, che trasforma di colpo il quadro dei sopravvissuti, restii a lasciarsi ancora una volta intervistare, in una potente rete di equivalenti fenomenologici del terremoto: tutti gli elementi della scena (tavolo, sedia, porta, cornice, perfino i vestiti dell’attore che parla) vengono tirati via e volano in alto, dando luogo al doloroso flashback. Strappare invece che travolgere, denudare invece che coprire di macerie, appendere per aria invece che radere al suolo. Gli effetti del terremoto misurati su scala teatrale. E tuttavia, per chi conosca i precedenti lavori del gruppo andino – da Colón a Ubu in Bolivia, dai Sandali del tempo all’Iliade (cfr. F. Marchiori (a cura di), César Brie e il Teatro de los Andes, Ubulibri, Milano 2003) – risulterà evidente che, nonostante sia come quelli tanto radicato nella realtà in cui è nato quanto universale nelle forme in cui si è distillato, il nuovo spettacolo è più decisamente condizionato da una preoccupazione documentaria. Stretti da una duplice necessità, l’obbligo morale di dire (che è un altro senso del “non si può non comunicare”) e la fedeltà a un linguaggio artistico che crea la scena non come riflesso della vita, ma come un fatto reale, potente quanto la vita, César Brie e i suoi attori hanno scelto di intonare le loro voci alla disperazione – prima che raccontare i fatti con quelle voci; hanno scelto di informare i loro corpi alla sciagura – prima che fare informazione attraverso quei corpi.



Esistiamo solo nelle vostre testimonianze
Certo non era il solo modo possibile. Anche una catastrofe naturale e le sue cicatrici possono essere sublimate e divenire occasione e materia di invenzione, segnavia di un percorso nell’immaginario personale e collettivo, reagente per accostamenti e ribaltamenti, ellissi e traslati. Si pensi al Silenzio di Pippo Delbono, che parte proprio dalla memoria di un terremoto, quello che devastò Gibellina nel 1968, “non tanto per raccontare un fatto storico, ma per soffermarsi su quell’attimo – eterno – che racchiude il silenzio della morte e il silenzio della vita”. Se in quello spettacolo afferriamo la fragilità dell’essere umano, il suo stare in bilico tra la morte e la vita, il suo rinascere, è perché il silenzio del terremoto si fa presente nel silenzio di Bobò. Ma l’intento del Teatro de los Andes era diverso. Qui le parole servono perché quel che si vuole è proprio ricostruire un fatto storico, ristabilire una verità, e sono i racconti delle vittime – o i loro equivalenti verbali e non verbali – a venirci incontro da una realtà tra le più saccheggiate del Pianeta, dove le bugie dei politici e il cinismo dei giornalisti hanno lasciato un deserto doloroso quanto quello causato dal sisma. “Siamo stanchi di parlare”, dicono i terremotati agli attori che vanno a racco-gliere le loro storie, ma anche: “Noi esistiamo solo nelle vostre testimonianze. Non mentite anche voi. Dite la verità, non mentite”. Ne è uscito un lavoro che non nasconde il suo voler essere anche cronaca e denuncia, ma che mette l’aneddotico al servizio delle azioni sceniche e queste in tensione con la forma “dramma didattico”; che ancora una volta cerca la semplicità della trasparenza, quella del rigore e dell’immaginazione che suppliscono alla povertà, come ama ricordare Brie citando Brecht. Un “brechtianesimo” ben consapevole della particolare eredità delle ceneri di Brecht sparse per decenni sulle scene sudameri-cane e ben temperato da una declinazione personale della poetica del grottesco, che il regista argentino va sottoponendo a verifiche sempre nuove (si confrontino gli esiti del recente lavoro di Brie in Italia con il Teatro Setaccio, Il cielo degli altri; cfr. F. Marchiori (a cura di), Verso il cielo degli altri, Titivillus, Corazzano 2005). Alla fine dello spettacolo, la polvere che esce invece delle parole dalle bocche dei terremotati non lascia illusioni. Ai dannati della Terra ac-cade ciò che sempre è accaduto. E Lupe Cajías, membro di quella Delegazione presidenziale anticorruzione che ha trovato nello spettacolo un formidabile volano sociale, riconosce in questa spoliazione l’infuocata matrice, cinquecento anni dopo ancora bruciante, della violenza dei conquistadores. Eppure, non è per dire la rassegnata accettazione della banalità del male che il Teatro de los Andes ha girato il Sudamerica con il Sole giallo e ora attraversa l’oceano. Come quando ha affrontato il tema dei desaparecidos – in Argentina, in Bolivia – il senso che Brie dà al nuovo lavoro è semmai quello della testimonianza, del “meditate che questo è stato”, del pathos che scuota le coscienze e ricordi – al disilluso pubblico sudamericano come a quello più cinico delle platee europee – la necessità del teatro.


 


 

Lavorare nel fango
Introduzione all’e-book Per labbra recitanti nella febbre
di Nevio Gambula

 

“Im Schlamm arbeiten”
Lutero


L’attore è il punto di partenza necessario per la ridefinizione del ruolo del teatro nella società. È campo di lotta tra l’atrofia creativa cui lo costringe il mercato e la sua peculiarità qualitativa che lo rende prima essenza di ogni opera. L’attore è il teatro – diceva Leo De Berardinis. E altri – da Artaud a Brecht, da Grotowskij a Carmelo Bene – lo hanno confermato prima e più volte. Con l’oblio di queste esperienze la scissione si approfondisce nel corpo medesimo dell’attore: questo “atleta del cuore”, campo di libera invenzione, vede dissociarsi la propria funzione da se stesso, perde l’identità di attore per trasformarsi in macchina al servizio di un apparato ambiguo, all’interno del quale si sono rifugiati uomini d’affari, impiegati, poliziotti del pensiero. Il vascello è allora nelle mani di passeggeri clandestini. Più in generale, il paradosso del teatro contemporaneo è che al suo interno dominano soggetti che sono delle macchiette di dominatori ben più pericolosi. La grande rivincita dei paria si compie sul corpo putrefatto di quella che era la “ricerca” teatrale. Torna la psicosi della regia come interpretazione e dittatura dell’idea sul corpo; riemerge una drammaturgia lineare, senza punti di catastrofe, e che richiede all’attore l’adesione al testo; dal grembo materno del falso riappare lo spettro dell’attualità, che non è messa in crisi del presente, ma semplice adesione al suo peggiore senso comune; e tornano a circolare sul ponte del vascello i “gazzettieri” come garanzia di vendita: senza la recensione e il sostegno di critico importante (non uno qualsiasi, ma proprio quello) sfiori l’angoscia e le scene ti sono interdette. La deriva del valore (di scambio) produce ostracismo. Che rapporto intercorre tra la distribuzione e la critica? Quanti critici influenzano o regolano direttamente la circuitazione di spettacoli? Non è ravvisabile, anche qui, un conflitto di interessi?
Domande imbarazzanti. È come mettere del veleno nella coppa degli amici; e poi, a porle pubblicamente, si rischia un ulteriore isolamento: chi può permettersi, oggi, di parlare male della funzione di indirizzo mercantile svolta da Tizio o da Caio? Altro imbarazzo sopraggiunge quando si affronta la questione “economica”, ovvero quell’insieme di elementi che permettono ad alcuni di vivere al centro delle attenzioni (di pubblico, di critica, di organizzazione, di sostegno finanziario) e costringono altri a una vita ai margini. Ad abbozzare una mappa del sistema ci si rende conto non solo di come elementi tra loro disparati convivono tranquillamente, spesso nella stessa programmazione (Lavia accanto alla Societas Raffaello Sanzio, poniamo), come se ogni critica aperta ai linguaggi irrigiditi del teatro contemporaneo non fosse più possibile e le diverse proposte altro non siano che prodotti mercantili differenti; ma all’analisi si vede anche un territorio diviso tra piccole tribù saldamente strutturate, con degli affari finanziari e produttivi da risolvere e – come dire? – aperte ma con discrezione, sostanzialmente poco curiose, poco disponibili a mandare i propri emissari in remote province dell’impero per scovare ciò che cova sotto la cenere. A ben guardare, la loro esistenza e il loro comportamento non è che una parodia, anche elegante, del “paese reale”, di quel paese che ha ormai definitivamente sancito il trionfo del modello impresa su ogni condivisione o partecipazione diretta delle maestranze alla gestione della “cosa pubblica”. È la dittatura della funzione imprenditoriale. Un ruolo molto importante nella regolazione del “mercato” teatrale lo giocano figure professionali nate in seguito a questa trasformazione: gli agenti, gli organizzatori, i manager. Spirito di iniziativa, creatività, abilità, assunzione del rischio, capacità di attivare scambi politici, sono i criteri d’azione che queste figure di nuovo imprenditore teatrale mettono in gioco, spesso fortemente legati ad un territorio e ad ambiti specifici, come se la coltivazione della “nicchia” sia considerata la strada più remunerativa. Ora, dietro l’apparente novità di questa impostazione, se si torna all’analisi dei prodotti spettacolari fatti circuitare da questi “impresari” si nota una staticità di impostazione, come se la compatibilità ai processi distributivi risieda, esattamente come ieri, in una definizione della scena pacificata e ancora una volta interpretata secondo canoni pre-ricerca o, addirittura, contra la ricerca stessa. L’impresa ha razionalizzato il teatro: in un contesto di conformismo dilagante il teatro riesce a piazzarsi solo se lo assume al proprio interno, solo se accoglie come parte integrante e base del proprio essere i “modelli ripetuti” e la “cigolante tecnica scenica” che esalta e diffonde. Nel proprio riprodurre l’omologazione, il teatro ostenta se stesso come mero oggetto di divertimento, dove il gioco dei segni è strumentale alla propria riuscita in quanto merce. Esso deve essere riconosciuto, gradevole, moralmente e civilmente interessante. Così esso diviene prevedibile.
Di quale tipo di attore ha bisogno questa condizione del teatro? Un attore anch’esso omologato al patto sociale che lo ha intrappolato nei confini d’una piacevolezza espunta da ogni impurità e, soprattutto, da ogni produzione di senso altro da quello imposto dall’ideologia dell’impresa. Un attore che, vincolato ad un livello “medio” e “banale” (la vendibilità prevede la banalizzazione dei costrutti), limita fortemente i propri mezzi espressivi. Lo standard attoriale oggi in voga prevede che le situazioni fittizie del palcoscenico devono avvicinarsi il più possibile a situazioni reali; tant’è che la tipologia della recitazione teatrale, ormai, differisce in quasi nulla da quella cinematografica o televisiva, dove il “realismo” è il tratto caratteristico; l’estensione vocale, ad esempio, si fa tendenzialmente minima, nel privilegio dato alla cosiddetta “voce di maschera”, restringendo la tessitura vocale alle regole della pronuncia (alla “pertinenza” tra esecuzione vocale e testo). E l’attore è compreso soltanto se parla questo linguaggio.
L’omologazione del teatrale al colloquio quotidiano (alla “chiacchiera”) dipende, in prima istanza, dalla ormai avvenuta mercificazione del teatro stesso, sempre più condizionato dal successo del “botteghino” o dall’apporto in termini di consenso dato alle istituzioni; e quindi, di riflesso, vincolato ad una ideologia del facile ascolto. Del facile ascolto, proprio così. O ti fai capire o sei fuori. Se nelle pieghe della recitazione indugia un “significato secondo”, dovuto alla strutturazione “esagerata” del significante; se dunque la recitazione è una soglia da passare con impegno, profonda e fluida, in una parola: enigmatica; allora – o almeno così credono i manager dello spettacolo diffuso – c’è il rischio che il prodotto teatrale sia di complessa decifrazione, dunque difficilmente smerciabile. In seconda istanza, lo stato generale di crisi in atto (economica e di senso), chiede agli attori di ridurre al minimo i tempi di prova e di studio. È chiaro che un percorso di ricerca sul suono della parola, su una gestualità non naturale o sulla strutturazione metrico-ritmica della recitazione, non è funzionale, cioè rischia di porre l’attore in difficoltà rispetto ad altri attori che stanno, come lui, nel grande bailamme della concorrenza. In altre parole: l’attore scompare proprio in quanto attore teatrale. Se vuole ancora avere diritto di esistenza, l’attore di teatro contemporaneo deve fare propri gli stilemi di una recitazione “emotiva e naturalistica”, o costringersi ad essere prigioniero di un apparato iper-tecnologizzato che ne limita la centralità e la creatività, di fatto accettando come modello imprescindibile ciò che l’epoca gli mette davanti. Deve insomma farsi protesi di un “sistema della moda” che gli impone di essere divertente o narrativo, il più possibile lineare, senza troppo turbare l’ascolto, e sempre incanalando la sua creatività verso modalità che ne limitano fortemente il potenziale espressivo. Quando ci si muove in questo modo si è compresi. Bisogna adeguarsi ai tempi; snaturando se stessi si afferma la propria presenza nel mercato dei divertimenti serali.
Attore oggi vuole sostanzialmente dire: presenza piacevole, messa in scena ben rifinita, imitando caratteri umani banalizzati, tramite di pensieri superficiali, nei limiti di un senso comune tendente al ribasso; vuol dire: illusione di sentirsi liberi di esprimere, esprimendo in realtà nient’altro che l’ordine della merce. L’ordine della merce segna la fine dell’attore come essere teatrale. Non più attore come portatore di verità, com’è in Brecht. Non più attore in quanto “essere integrale di poesia”, com’è presso Artaud. È la fine di una concezione dell’attore come presenza insieme terrifica e gratuita; fine che coincide con l’affermazione di una giostra dei divertimenti che non distingue più tra umano e macchina, che rende l’attore aderente ad una esposizione tranquillizzante, da narcotico serale. Quando si muove, fa partire l’applauso, non apre crisi percettive. Mai niente di negativo. Nessun impulso ad aprire varchi al dubbio. Viene simulata – sulla scena omologata – una realtà pacificata che non esiste e che, nel tacere il crudele della condizione umana, o nel renderlo neutro, esalta il simulacro della macchina. Dunque l’attore è liquidato, e con esso il teatro.

***

Questo libro segna la persistenza di un atteggiamento di rifiuto, nella consapevolezza che si tratta di agire, entro ogni specifico, un altro senso, un senso contrario a quello oggi dominante. Si tratta, ancora una volta, di “rovesciare la dama”. In ciò sta il proposito di questa “prova aperta”, bene espresso nel motto luterano di lavorare nel fango. Una raccolta di testi teorici, di frammenti drammaturgici e di scritti d’occasione, pubblicati su riviste o su siti internet, che sono nati parallelamente ad un lavoro caparbio di palcoscenico, condotto a partire dalla prospettiva della riscoperta di un tipo di attore non pacificato, disponibile ad emanciparsi da ogni dogma col fine di riprendere a meditare sulla propria arte e sull’essere il centro di ogni opera. Siamo tutti “nel fango”; lo è il teatro e lo è ancor di più la società, diventata in maniera evidente un “sistema di morte”. Rimettere in questione tutto, per costruire la possibilità di “una nuova ascesa”. Non siamo costretti ad accettare come “naturale” o “normale” ciò che tutti fanno. Se le modalità recitative sono quelle, non è detto che non ce ne possano essere altre. E non si tratta di offrire ricette poetiche od estetiche. È invece opportuno ripartire dai punti di crisi, dalle incrinature, per verificare se la fase negativa in corso possa trasformarsi in opportunità creativa e se le prassi dominanti siano o meno adatte a riscrivere, dalla prospettiva dell’attore, il teatro. D’altra parte, alle nostre spalle gli esempi non mancano, ed è anzi storicamente verificabile come le migliori esperienze siano sorte proprio come reazione ad una situazione vissuta come costrittiva e bloccata. Da queste bisognerebbe ripartire, per lo meno dal loro atteggiamento di messa in crisi delle forme consolidate. Per affrontare la crisi del teatro bisogna prima di tutto mettere in crisi la lingua teatrale: bisogna – come scriveva Artaud – “spezzare il linguaggio per raggiungere la vita”; e fare ciò significa disfare il teatro. Anche Peter Brook, di fronte al teatro costituito, che definiva “mortale”, esaltava l’atteggiamento spietato di chi lo pratica come “arte distruttiva”, dunque vitale; anzi, non mancava di sottolineare come la causa prima della crisi risieda nell’accettazione, da parte dei teatranti, del marciume: “la recitazione mortale diventa la ragione della crisi”. In questi due esempi si può cogliere un orizzonte di ricerca – se si vuole, un’idea di teatro – che ha la sua reale basis nell’infrazione dei modelli, ritenuti inadeguati e chiusi al “nuovo”. In tale orizzonte, diventa prioritario rivedere l’attore e la sua funzione, sia in termini di azione culturale che di connotazione particolare del suo specifico: il superamento delle convenzioni come proposta di un nuovo contatto con il pubblico e con il mondo. Perché un attore ruvido, aspro, irregolare, che non ha paura di sbagliare, sincopato, informe, essenziale come un tumulto, imbarazzante, coerente, che è al tempo stesso forma e idea, canto grottesco e verità gridata, che è graffiante ed anche osceno, che è rhythmus in corpore vili e dunque poesia scolpita nello spazio; perché un attore così concepito apre la possibilità di un teatro “del dubbio, del disagio, del turbamento, un teatro che lancia segnali allarmanti”, che è l’unico teatro oggi veramente urgente e necessario.

Questa è l’introduzione all’e-book Per labbra recitanti nella febbre, liberamente scaricabile dal sito www.neviogambula.it.
 


 

Di corsa "Di giovedì": Il mio doping
La performance ciclistica di Luciano Nattino con Emanuele Arrigazzi
di Anna Maria Monteverdi

 

"Mi sento veramente bene, sia in salita che in volata, di più non posso dire. Vincere così tanto e subito ti dà sicurezza e quindi il momento non può essere che magico."
Alessandro Petacchi




Vittorio Corona (Palermo, 1901-Roma 1966), Ciclisti (1928), Collezione Privata, Roma.

Castelnuovo Magra è un piccolo paese in provincia della Spezia che ha dato i natali al ciclista velocista Alessandro Petacchi, l’eroe del giorno a detta della “Gazza”: 9 tappe vinte nel Giro d’Italia 2004, 85 vittorie da professionista e ora anche la Milano Sanremo. Petacchi all’indomani dell’ultima vittoria si è scagliato contro i controlli a senso unico anti-doping nel ciclismo: “Siamo noi sotto i riflettori, noi siamo accusati noi siamo controllati. E il calcio?”.
Nel Centro Sociale di Castelnuovo ha sede il Petacchi Fan Club, e in questa location perfetta, tra ritagli di giornali sportivi, magliette firmate dalla gloria locale, scarpette, cappellini e striscioni appesi, il gruppo teatrale spezzino Reatto, che cura una interessante rassegna teatrale per il Comune dal nome inequivocabile “Di giovedì”, ha pensato bene di portare lo spettacolo Il mio doping di Luciano Nattino-Casa degli Alfieri, con Emanuele Arrigazzi, monologo per attore in bici da corsa già presentato con successo al Festival Asti Teatro.
Il protagonista è un dopato, dalla vita soprattutto. Il doping, che lo sport e i media – malgrado lo scandalsimo di facciata – ci hanno aiutato a immaginare una pratica “normale”, per atleti sempre più bionici, cyborg quasi. Alla ricerca del risultato, ogni tipo di sperimentazione è consentito: per ingrossare muscoli, per aumentare la forza o la potenza, per non sentire il dolore.
Il guerriero-corridore è in scena a pedalare eroicamente senza sosta, con la bici sopra i rulli da allenamento che i ciclisti conoscono bene. L’attore è stato ciclista. E’ lì per testimoniare: ne ha conosciuti parecchi disposti a tutto e che hanno accettato alle soglie del professionismo.
E’ davvero strano vedere un attore, un “atleta del cuore” che fatica realmente, che suda sempre di più, attento a non perdere l’equilibrio precario, a non forzare i ritmi, a pareggiare i respiri da ciclista con quelli da attore. Una bella impresa teatrale e ciclistica....
La vicenda ricorda inevitabilmente quella tragica di Pantani, eclatante per la parabola finita male e su cui si è voluto calare i riflettori troppo in fretta. Il ragazzino che inizia a correre con una passione vera, i sacrifici, le prime vittorie, le soddisfazioni come professionista, il pubblico che lo incita durante le gare, il successo che cambia la vita, i soldi soprattutto che cambiano la vita, la difficoltà a continuare a fare allenamenti sempre più duri e a continuare a vincere, la proposta e poi l’imposizione di sostanze “additive”, che caricano... Si prova di tutto, si ingerisce ogni derivato chimico o animale per ossigenare il sangue, si nasconde l’urina “pulita”nelle mutande per confondere i controlli. Una vita infernale, dosata e cadenzata da pillole che hanno controindicazioni mortali, ma i cui pericoli vengono tenuti nascosti da federazione, allenatore e medico. Tutti colpevoli. Per un risultato.
A Castelnuovo alcuni ragazzini che hanno messo in piedi una filodrammatica vengono a vedere lo spettacolo. Alla fine si complimentano con l’attore: quasi tutti, come è tradizione di queste parti hanno fatto gare ciclistiche, gare provinciali. Hanno smesso per fare teatro. I meno giovani del Circolo si scandalizzano un po’ dello spettacolo e della sua conclusione amara, loro no. Sono realisti. Sanno che è vero.
La storia manca forse di un climax, di un finale che “stacchi” in volata, ma senz’altro quello che colpisce è quell’implicito atto di accusa contro una società che ha corrotto anche lo spirito più genuinamente sportivo; e colpiscono anche l’interpretazione e la messinscena efficaci ed essenziali: semplici e pulite come forse Nattino vorrebbe che fosse il ciclismo (o il teatro?).


 



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Tekno Cut Up
tnm per ateatro 82
di Anna Maria Monteverdi

 

Nell’ambito della manifestazione TEKNO CUT UP, organizzata alla Spezia presso la sala Dialma Ruggiero dal 25 febbraio al 18 marzo da Cut Up (rivista e associazione culturale), sono stati presentati (dall'hacker-anchorman Giacomo Verde, con l'abituale passione e competenza) artisti internazionali e opere emblematiche della nuova scena artistica digitale.
Marce.lì Antunez Roca della Fura dels Baus, ManuelBo di Candida Tv, Tilt-Spazio danza e Jaromil hanno proposto approfondimenti sui loro lavori che intrecciano arte e robotica e che si esprimono attraverso hacker art, video-danza, street tv e web tv.
Gianni Bolongaro, collezionista d’arte contemporanea e presidente dell’Associazione Amici del Centro Arte Moderna e Contemporanea della Spezia, nonché fondatore del Parco di arte contemporanea La Marrana di Montemarcello (Sp), ha presentato l’opera di videodanza Codice aperto prodotto proprio dalla Marrana, un elaborato video d’arte di Luca Scarzella e post-produzione Stalker con performer il gruppo di danza contemporanea TILT diretto da Enzo Procopio. Le coreografie si estendevano lungo gli spazi all’aperto del Parco La Marrana tra le opere in forma di installazione create quale site specific works da Jannis Kounellis, vedovamazzei, Mario Airò, Hossein Golba, Lorenzo Mangili, Philip Rantzer, Kengiro Azuma. Entità, corpi-ombre che emergono tra i pieni e i vuoti delle sculture in un codice di segni che si anima nell’arte visiva. Il video è stato presentato al Festival Invideo e al Lincoln Center di New York.


 



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L'informazione da mangiare
ManUelBO artista attivista performer
di Anna Maria Monteverdi

 

ManUelBO è il nome d’arte di Emanuele Bozzo, giovane artista visivo eclettico dell’area “tubista” con la doppia cittadinanza spezzino-romana e berlinese, nomade per vocazione, nel mondo e tra le arti; è stato realizzatore di installazioni politiche che nei primi anni Novanta univano arte e solidarietà sociale (La cella, sul caso Baraldini), street performance o street parade a metà tra l’espressione artistica, il disturbo e la protesta (l’azione in strada per la beatificazione di Artaud che ricorda una eguale manifestazione con tanto di lumini del Critical Art Ensemble), pseudo teatro di provocazione; mediattivista legato al Centro Sociale romano Forte Prenestino, videomaker indipendente vicino a Indymedia e ai vari Social Forum ha realizzato Supervideo, graffiante documentazione del G 8 e Realityt Hacking contente anche l’intervista a Ricardo Dominguez ex membro del C.A.E fondatore del Teatro del disturbo elettronico. I materiali sono disponibili come file sharing on line sul sito di ngvision.org
BelzeBush, Tubo catodico, La crocifissione dello spettatore, alcuni degli inequivocabili titoli di oper’azioni o trans’azioni artistiche; Homo mediaticus e Media food sono le ultime realizzazioni in forma di personal exibition realizzate per la Galleria Azul di Berlino e per Transmediale 05.
Tra i suoi interventi, un tentativo di rianimare l’informazione, che vede i mezzi di comunicazione (televisore, radio, computer) trasportati in una barella, con tanto di infermieri e medici, intorno al ministero delle Telecomunicazioni; l’assaggio pubblico di giornali come pietanze; l’esposizione di un televisore che versa lacrime di sangue, in una specie di “miracolo” laico lo stesso giorno dell’inizio delle trasmissioni di Tele Padre Pio, alla presenza del ministro Gasparri. Performance, quelle di ManuelBo, che giocano sulla letteralizzazione di slogan e metafore ormai logore (l’informazione “malata”, l”indigestione” di notizie, “siamo ciò che mangiamo”) per rilanciare la possibilità di una comunicazione dal basso, spregiudicata e libera, alla portata di tutti.
Una prima esperienza di televisione in diretta dai quartieri spagnoli come collettivo Canale 99; l’attività autoprodotta e indipendente si sposta poi sulla proposta di un video monocanale che guardando a Ballard racconta della raccolta di memoria sulla preistoria della televisione fatta da un alieno che proveniva dalla televisione del futuro. Video che fece guadagnare al gruppo un vero e proprio successo all’interno del circuito underground. Ma il suo nome insieme a quello di Manolo Luppichini, di Agnese Trocchi e di Antonio Veronese, si lega a Candida TV, la prima sperimentale e folgorante Telestreet romana che nel 1999 trasmetteva sulle frequenze di Teleambiente e che decretò l’innegabile successo mediatico delle televisioni homemade. I palinsesti erano divertenti e lanciavano l’idea di Tv elettrodomestico con le interviste folli tra i passanti e le inchieste assurde (Jubileon, sul “dietro le quinte del Giubileo”) che poi abbiamo ritrovato ben più confezionate a Mediaset con Le Iene. Candida Tv con il suo motto “Prendila prima di uscire!” ha vissuto tra il consenso dei teleutenti 9 settimane; successivamente il gruppo-cooperativa ha realizzato Torre Maura Tv, primo esperimento di Tv di quartiere via web che si guadagnò un servizio sul Tg 1 nazionale.



ManUel Bo è stato anche l’esilarante Supereroe Supervideo che doveva liberare la comunicazione a Genova durante il G8: con mantello arancione, tuta in lycra da personaggio Marvel e con in testa una sorta di scatola-Tv con tanto di antenna. Doveva captare la “santa verità” abbandonata dai media ufficiali in un cassonetto e catturarla dentro una videocassetta. Infilava la scatola-Tv dell'intervista al guidatore di autobus, alle tute bianche, ai manifestanti, saltava sul camion della Rai, si infiltrava tra i black bloc. Il video includeva anche materiali di Indymedia e di altri registi indipendenti. Una modalità diversa ma ugualmente efficace di testimoniare sia il clima festoso e colorato della manifestazione pacifista sia l’assurda escalation delle tensioni e delle violenze terminate con l’uccisione di Carlo Giuliani e con il pestaggio a sangue dei manifestanti da parte delle forze dell’ordine.



Il carattere a metà tra il demenziale, il provocatorio, tra il surreale e l’azione diretta è tipico sia dei suoi video che delle sue più recenti performance: Erba di casa mia, refrain dell’immemorabile Massimo Ranieri che fa da colonna sonora all’omonimo video sulla liberalizzazione della cannabis; Media food realizzato a Berlino il cui video documentativo è stato presentato all’interno di Hack.it.art ideato da Tatiana Bazzichelli per Transmediale 05. La performance, della durata di una giornata partiva dall’evidenza che la stampa italiana è malata e che questo cibo è ciò che gli italiani sono costretti a mangiarsi tutti i giorni. Vestito come un cameriere di una pizzeria per turisti sotto la Torre di Pisa, con cravattino tricolore, andava in giro offrendo ai tedeschi da un vassoio, quotidiani a forma di stivale, impanati e fritti, insomma, il cibo degli italiani. Contemporaneamente chiedeva ai passanti quale riteneva il migliore e il peggiore quotidiano tedesco, facendo un sondaggio davvero casalingo e esilarante e mettendo i risultati con un pennarello sopra un cartone. La performance dalla strada si trasferiva all’interno di alcune tra le più importanti testate giornalistiche tedesche, dove gli veniva naturalmente impedito l'accesso agli uffici della direzione.
La performance realizzata per la Galleria Azul di Berlino consisteva invece in un “Dress to eat”, un vestito fatto di cibo: verdure, pane e lattine, dove il vestito commestibile diventa simbolo di tutto ciò che cannibalizziamo dalla società dei consumi e dai media stessi. Ma il progetto in corso – di cui il collettivo di Candida Tv ha già realizzato un numero zero – è una soap televisiva atipica realizzata secondo lo spirito del collettivo, in strada. Gli attori vengono scelti e coinvolti in diretta ai semafori, nelle piazze; con un cartello al collo come segno di riconoscimento del loro personaggio danno vita a una storia che come nelle soap, assomiglia a una già vista, colorata però dell’assurdo, dell’imprevisto, del dialetto, delle esclamazioni fuori luogo e dei rumori della vita reale.



www.candida.thing.net


 



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Leo Bassi a Macerata si vendica
Il ritorno del filosofo buffone
di Anna Maria Monteverdi

 

Leo Bassi, “filosofo-buffone” come ama definirsi, è approdato a Macerata invitato dal gruppo teatrale i Benandanti del Centro sociale Sisma per un workshop sulla provocazione, ovvero sulla comunicazione-provocazione a teatro; un workshop che verteva soprattutto su una particolare qualità dell’improvvisazione teatrale il cui scopo è imparare a conquistare l’attenzione dello spettatore con qualsiasi mezzo o meglio, come dice lo stesso Bassi: “Come liberare le nostre attitudini naturali per far ridere la gente”.



L’obiettivo è rompere con le proprie paure e timori, avvicinarsi con disincanto al teatro, senza enfasi e soprattutto lontano dalle convenzioni. Dopo il workshop Leo Bassi ha realizzato il 28 febbraio al Teatro Lauro Rossi Vendetta, uno spettacolo davvero anomalo per il panorama del teatro italiano: gesti e azioni per dimostrare la nostra ingenuità e credulità oltre che la nostra compiacenza all’invasione delle multinazionali, delle religioni, dei media.
Leo Bassi è un nome assai noto per chi ha seguito il teatro degli anni Ottanta in Italia, per lungo tempo suo luogo d’adozione: sono rimaste famose le sue azioni in strada, nelle discoteche dove trattava qualsiasi tema con forza iconoclasta, con una trasgressione vera, quella che ti fa arrabbiare, o ti fa schifo, che passa attraverso istinti o comportamenti primitivi e primordiali. Da sempre nei suoi spettacoli la clownerie, si mescola a giocolerie ed esercizi da antipodista mentre farneticazioni di vario genere sono condite insieme a discorsi politici molto seri o attacchi alla classe politica. Realizzava una performance rompendo le angurie che il pubblico gli tirava, tagliandole con la sega a motore e sporcando tutto e tutti. In un’altra occasione con una rudimentale macchina caricata a elastico sfondava una parete di cartone facendosi aiutare dagli spettatori. Aveva poi preparato un “razzo astronave” e la performance prevedeva cerimonia, discorso, lancio e alla fine naturalmente il razzo non partiva, l’astronave cascava... Ancora una performance sull’11 settembre dal titolo 12 settembre mentre altre azioni politiche in Spagna dove si è stabilmente trasferito, sono quelle contro l’icona franchista (finti tentativi di distruzione delle statue di Franco per ridurle come quelle di Saddam Hussein in Iraq; anti-pellegrinaggi alla tomba del dittatore spagnolo) o il Bassibus, un folle pullman che propone tour intorno a Madrid per visitare gli effetti della degenerazione ambientale, economica, architettonica, politica.



“In Spagna, prima delle elezioni, ho organizzato questi che chiamo i «viaggi al peggio di Madrid». L’idea era di portare la gente a vedere scandali invece che monumenti. Quanto vengono pagati i politici? In quali case vivono? Siamo andati nei campi da golf e nei ristoranti di lusso, dove un pranzo costa 200 euro. Siamo andati a bussare alla porta del primo ministro a chiedere quanto costa la sua abitazione. Così la gente si rende conto in concreto cosa significa il potere, che tipo di atteggiamento hanno queste persone e se vale la pena votarle. Alla fine, i socialisti hanno vinto, ma non certo per il mio lavoro. La gente si è incazzata per le bombe dell’11 marzo e ha messo l’accento sulla partecipazione della Spagna nel conflitto iracheno. Sono stato contento di questo risultato, perché la gente è riuscita a cambiare le cose” (Intervista di Graziano Graziani a Leo Bassi per “Carta”).



Bassi gioca da sempre sulla provocazione-agitazione, sul non sense, sugli eccessi, rompendo generi e collocandosi in una zona franca tra il comico, l’arte circense (Bassi appartiene a una famiglia di artisti di circo) e il teatro di strada. In Spagna ha avuto un incredibile successo a seguito di alcune sue apparizioni sulle reti nazionali in cui proponeva azioni davvero disgustose che gli hanno garantito una popolarità straordinaria. Vendetta è uno spettacolo fortemente politico. Il titolo è spiegato sin dalle prime battute: viene proiettato un gigantesco bandierone stelle-e-strisce e Bassi si cimenta in sproloqui contro l’America e la cultura americana. Ecco definito l’obiettivo del suo attacco. Quando era piccolo per lui l’America era un paese bellissimo ma ora si vergogna di essere americano e si vuole vendicare.
Il primo attacco è contro uno dei simboli degli USA, la Coca Cola, che a suo avviso ha assorbito ogni bevanda tipica, ogni specificità di luogo: “Anche la lattina di Coca Cola che ho in mano adesso è incazzata e 25.000 millibar di Coca stanno premendo per uscire”. Fa capire che è sua intenzione farli sfogare: parte musica hard rock, rompe la prima lattina con una forbice e escono spruzzi contro il pubblico. “Ma non mi basta”. Poi indossa un gilet con le lattine infilate nelle tasche, si muove danzando per agitare il contenuto e le buca. “Ma non mi basta”. Prende un bidone di petrolio con lattine di coca appese e con un numero da antipodista le spacca. “Ma non mi basta”. Entra con un carrello per portare pacchi e trasporta in scena scatole piene di coca cola e le rompe. E’ un vero delirio: la coca cola cola ovunque in platea: “Sono sicuro che non berrete Coca Cola per un po’.”
Il nuovo attacco è contro le religioni: “Io dico questo contro l’America ma ce l’ho anche con i musulmani con l’Islam con tutte le religioni monoteiste: sono ateo da 7 generazioni e stiamo tutti benissimo”. Poi si esibisce in un'azione contro le multinazionali della moda: la premessa è che la gente si fa abbindolare dai media ed è spinto a comprare abbigliamento esclusivamente firmato. Così prende un paio di forbici scende in platea e comincia a seminare il terrore. Trova una maglia Adidas. Il ragazzo che l'indossa è ora oggetto della sua vendetta. Cerca di convincerlo a farsi tagliare il marchio. In questa maniera non sarà più uno tra milioni di persone che vanno in giro a ostendere idolatricamente il marchio, ma l’eroe che si contraddistingue per levarselo. Ha convinto il ragazzo, ma lui incalza: “Siete tutti manipolabili. Ora sei solo uno con una maglietta bucata!”

L’interrogativo è se questi attacchi siano veri o solo scherzosi. Ma è lo stesso Bassi a rispondere proprio nel corso dello spettacolo: “Sono un buffone, non un cabarettista. I cabarettisti vanno in tv e parlano. Noi buffoni facciamo, e facciamo cose disdicevoli e non abbiamo rispetto di niente e di nessuno. Né del potere e neanche di noi stessi”. A dimostrazione di quest'ultima affermazione termina lo spettacolo cospargendosi il corpo di miele e piume, avvicinandosi pericolosamente al pubblico!



www.leobassi.com


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Transmediale .05 Back To Basics?
Newsletter da Berlino
di Eleonora Calvelli

 

Le questioni principali, affrontate nell’edizione di Transmediale.05 e inerenti alla cultura contemporanea, riguardano essenzialmente la biotecnologia, la politica, e la Media Art, ossia l’arte digitale legata ai media.
Tra le conferenze più rilevanti vale la pena ricordare “BASICS of Media Art”, moderata da Mercedes Bunz, con Gunalan Nadarajan, Sally Jane Norman, Christiane Paul. Indubbiamente la Media Art è stata a lungo definita tale in relazione all’utilizzo nelle opere d’arte di alcune nuove tecnologie apparse in rapida successione dagli anni Novanta in poi e che hanno offerto al pubblico la possibilità dell’interazione con le opere stesse, oltre che un inedito punto di vista nel campo della comunicazione. Attualmente tali nuove tecnologie sono divenute per la maggior parte “pervasive” e inserite nei circuiti artistici mainstream, e anche l’arte digitale, che non può più essere descritta solo sulla base appunto dell’utilizzo delle nuove tecnologie, è giunta a riflettere e a influenzare i processi sociali e i significati culturali. Pertanto, la ormai superata opposizione tra arte tradizionale e arte digitale si è risolta nel dialogo e nel ritrovamento di eredità e obiettivi comuni. Difatti, nell’appena trascorsa edizione di Transmediale.05, attraverso un approccio interdisciplinare nella ricerca estetica, il dibattito sull’arte digitale ha trovato un orizzonte più ampio e un inedito e concreto sbocco creativo nell’abolizione delle classiche categorie in cui si divideva la competizione per i premi (ossia Image, Interaction, Software).

+ BASEMENT\The workspace at Transmediale.05 +
Al piano terra della Haus Der Kulturen Der Welt si svolge la terza edizione del “Workspace”, uno spazio espositivo a metà tra la mostra e il laboratorio aperto al pubblico, in cui i partecipanti sviluppano workshop e fanno presentazioni del loro metodo di lavoro. Il tema rappresentato è quello dei “Basic Needs”, ossia bisogni primari dell’esistenza: abitazione, salute, cibo, sicurezza, trasporti e comunicazione. Di quanta tecnologia abbiamo bisogno per soddisfare i nostri bisogni principali?

# Per la sezione Shelter citiamo Prisoners’ Invenctions di Temporary Sevices & Angelo (us). Nel 2001 Temporary Services (Brett Bloom, Marc Fischer e Salem Collo-Julin) ha chiesto a Angelo, un artista in carcere, di descrivere e illustrare alcuni oggetti inventati dai carcerati. Ne sono venute fuori più di 100 pagine tra disegni e testo e 78 differenti invenzioni. Pubblicato come libro nel 2003, offre un punto di vista essenziale per comprendere la necessità da parte dei carcerati di personalizzare lo spazio in cui sono reclusi e ricreare le condizioni di vita tipiche della vita in libertà. Disegni e descrizione delle invenzioni a cura di Angelo, testi della brochure e riproduzione delle invenzioni a cura di Temporary Services.
Informazioni sul libro Prisoners’ Invenctions by Angelo (ISBN 0-945323-02-6) sono reperibili attraverso l’e-mail aeelms@aol.com

# paraSITE di Michael Rakovitz (us).



Progetto concepito fin dal 1998 consta di un ricovero di plastica semi-trasparente per senzatetto, che può essere climatizzato attaccandolo ai condotti di ventilazione degli edifici. Trasportabile a mano o tipo zaino sulle spalle, può essere anche un simbolo del dissenso sociale.

# Per la sezione knowledge si segnala Corporate Fallout Detector di James Pattern (us).



Partendo dal presupposto che il consumo rappresenta una parte fondamentale della nostra esistenza, James Pattern ha concepito una macchina che, sulla scorta della scansione dei codici a barre di alcuni prodotti inseriti in un database e giudicati in base alla condotta etica nella produzione, ci fornisce dei parametri secondo i quali possiamo decidere di consumare consapevolmente e criticamente.

+ EXHIBITION + # Gravicelles – Gravity and Resistance di Mikami e Ichikawa.


 


Al centro dello spazio espositivo c'è un pavimento di 6x6 metri, composto da 225 griglie dotati di sensori. Nel momento in cui un visitatore staziona o si muove sul pavimento, a seconda della variazione della posizione, dello spostamento del peso e della velocità è continuamente e automaticamente misurato, analizzato e rappresentato attraverso il suono, dei LED luminosi e immagini geometriche. Inoltre, la posizione nello spazio espositivo è misurata da un sistema GPS, che mette in relazione l'installazione con la forza di gravità.

# Untitled 5 di Camille Utterbach. Parte della serie "External Measures", iniziata nel 2001, Untitled 5 è la quinta installazione interattiva di C. Utterbach. L'obiettivo di quest'opera è di ricreare un sistema di pittura e disegno che risponda con fluidità alla presenza fisica nello spazio espositivo; pertanto, la permanenza, la posizione e la variazione delle forme proiettate sullo schermo dipendono esclusivamente dalla presenza e dal movimento dei visitatori.

# 88 from 14.000 di Alice Miceli. La video-installazione mostra ritratti fotografici in bianco e nero delle vittime del regime di Pol Pot, riprese al momento della reclusione nei campi di prigionia. Le foto sono proiettate su uno schermo abbastanza insolito, costituito da sabbia che scorre. Il tempo di proiezione sulla sabbia che cade corrisponde al tempo trascorso tra l'arresto del prigioniero e la sua esecuzione.

# Pongemechanich. Riproduzione meccanica dell'originale video game Pong, opera che attua un percorso inverso rispetto agli odierni produttori di giochi digitali volti a ricreare delle ambientazioni virtuali più realistiche possibili. In questo caso gli strumenti interni di funzionamento sono esposti e mostrati al pubblico.

<>+ PERFORMANCE +

# Fluux:/Terminal di skoltz_kolgen. Definita dallo stesso autore "Diptyque Rétinal", la performance cerca di stabilire un punto di contatto tra suono e immagine.

Eleonora eo_call@ecn.org
Editor -- [aHa]
http://www.xs4all.nl/~hanb/documents/quotingguide.html
http://www.flickr.com/photos/eo/


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Che cosa è il fascismo? Giardini Pensili in scena a Berlino
Intervista a Roberto Paci Dalò sul suo progetto Italia anno zero
di Anna Maria Monteverdi

 

Prendiamo a prestito il titolo di una delle opere “storiche” di Fabio Mauri che negli anni Settanta riproduceva performativamente una cerimonia di ludi juvenilia del Ventennio a sottolineare l’ipocrisia trionfalistica ed esaltativa della retorica fascista per parlare dell’ultimo lavoro video-musicale scenico di Paci Roberto Dalò Italia anno zero in programma al Berliner Festspiele l’8 marzo.
Ha debuttato a Budapest (Festival d’Autunno) e in seguito è stato a Vienna al prestigioso Festival Wien Modern il concerto scenico Italia anno zero, realizzato in collaborazione con la compositrice austriaca Olga Neuwirth. Il fascio littorio, le tazzine con Mussolini a Predappio, l’atmosfera retrò, il neorealismo cinematografico insieme alla poesia italiana, da Leopardi a Pasolini.
Avevamo incontrato Paci Dalò a Roma nell’ottobre 2004 poco prima del debutto di questo spettacolo che unisce letteratura, musica e film e in cui si parla di fascismi vecchi e nuovi. Con lui avevamo guardato il film interamente in bianco e nero di 55 minuti con la voce narrante di Sandro Lombardi, concepito per essere proiettato su uno schermo invisibile e dietro il quale suonano in diretta i musicisti; alle loro spalle un fondale con immagini in diretta che offrono un ulteriore contrappunto visivo al film. Gli interpreti stanno dentro il film, dentro lo spazio della proiezione, incastrati tra gli schermi in scena con i vari strumenti (strumentazioni elettroniche, clarinetti) mentre la voce ha un proprio spazio di riconoscibilità. Sono ingabbiati dentro questa scatola visiva il cui punto di partenza – precisa Paci Dalò - è il testo, o meglio i testi: Pasolini, Gramsci, Leopardi.


Il testo-guida è la colonna che serve da cue; su ogni testo c’è un intervento sonoro diverso. La voce del testo non è elaborata perché voleva essere un gioco di “purezza” del testo, il resto della musica è potente. una sorta di “noise band” . Prendiamo materiali sonori e li immettiamo in un flusso che ha a che fare, è vero, col noise con il mondo del rumore, violento, giochiamo sulla psicoacustica, sulla percezione, sulle frequenze subliminali, sugli ultrasuoni, sulle subfrequenze. Il suono permette di creare queste fasce estreme, queste frequenze gravi che permettono di lavorare con grande potenza sull’architettura del luogo. Il progetto è partito dal testo: le lettere di Gramsci, frammenti poetici di Pasolini e di Leopardi. L’infinito e Poesia in forma di rosa... Mi piace la logorrea di Pasolini, scriveva di continuo, c’è poi questa psicogeografia, questa doppia vita diurna e notturna. Come un cane senza padrone è on the road con le sue “derive”... E alcune riflessioni su quella che è proprio una combinazione devastante questa sua particolarità, questo essere comunista cattolico e omosessuale che creava problema all’epoca, ora forse ancora di più. Un’opera di riferimento è per me Salò. Un punto limite, se vuoi, era il 1975. Diceva: “Quando c’è libertà si può fare qualcosa, quando non c’è libertà si può fare tutto”. Il lavoro è una riflessione non solo sulla permanenza del fascismo in Italia a tutti i livelli della società, ma sulla constatazione - quello che mi interessa in modo più sottile - di tutto ciò che ruota intorno all’idea del pre-fascismo. L’Italia è un paese fascista dentro. Bastard inside. Tutte le reazioni, politiche, sociali, a tutti i livelli, sono dei tasselli che hanno a che fare con un approccio, un atteggiamento fascista. Questo si capisce perfettamente con Leopardi che non può essere accusato di fascismo! Leopardi, lui sì che è il più… il vero rivoltoso, quello che ha scritto le cose più violente, rispetto agli altri..

A quale testo ti riferisci in particolare? E cosa unisce il fascismo e Leopardi?

Il testo principale utilizzato è il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. Leopardi dice: “Gli italiani non sono capaci nella cosiddetta intimità della casa, non sono capaci di parlare tra loro, non comunicano... è un problema linguistico, è un’incapacità”...è vero, se penso alle amicizie, incontri dove non ne esce nulla, devi saper dire cose vere, un problema! Riscontrare tristemente questo disprezzo per la vita altrui, della normalità della quotidianità. Luoghi comuni sulla bontà dell’italiano sono rimasti, se penso a quanto la Germania ha riflettuto sul periodo del nazionalsocialismo, e a quanto non ha fatto l’Italia!

Quali sono stati i tuoi riferimenti storiografici oltre che letterari?

La mia figura drammaturgica di riferimento è Heiner Müller. Poi mi interessa un certo tipo di drammaturgia italiana che ha a che fare con la storia, con i documenti, con l’oralità. Tra altri testi che ho utilizzato ci sono Psicologia di massa del fascismo di Wilhelm Reich e gli scritti di Giorgio Baratta su Gramsci. Lavoro ormai da molto tempo con/su autori come Giorgio Agamben, Müller o Benjamin che fanno da filo conduttore spesso non esplicitato al tutto il mio lavoro. Lavorare sugli scarti percettivi è un tipo di intervento politico. Tutto il lavoro è poi un’indagine sull’iconografia fascista, con filmati degli anni Trenta e Quaranta presi e rallentati, usati “chimicamente”, diventati altro rispetto all’uso documentario. Una pratica non lontana da maestri come Yervant Gianikian-Angela Ricci Lucci, Peter Forgasc, Aleksandr Sokurov, che sono per me un punto di riferimento. Dal punto di vista del lavoro sulla memoria e sulle immagini, mi colloco in questa tradizione.

Nel film compaiono immagini di Mussolini, delle adunate fasciste...

In tutto il lavoro Mussolini non ne esce come il luogo comune vorrebbe... Questo non è uno spettacolo antifascista, casomai contro i luoghi comuni... E’ il far parlare le cose, come dire: “Sentiamo cosa c’è dentro”. Il nostro lavoro vuole andare al di là della retorica antifascista di comodo. Vorrebbe lavorare in maniera più trasversale, non basta dire: “C’era una volta il fascismo”... Vorrei parlare del fascismo dentro di noi tutti in quanto italiani. Si guarda diversamente a Mussolini tramite la post-produzione, attraverso le immagini rallentate ed esasperate; sono immagini tipiche dell’oratoria fascista. Un lavoro importante è stato fatto sulla voce di Mussolini, ho selezionato una serie di frase e parole, ho lavorato con la sintesi granulare, sulla forma d’onda, per far sì che non si riconoscano le parole. Una polaroid acustica della lugubre oratoria fascista. Come lavorare con una lente di ingrandimento, con la luce evidenzi un aspetto, con il suono entri nello spettro di una particolare parola, un lavoro di “laboratorio” sulla grana sonora. Il senso della parola è una cosa, l’altra è la sua fisicità. Fino a un certo punto stai a pensare proprio alla composizione interna chimica di questo materiale, fisica e psichica, “la grana della voce”, direbbe Barthes. E’ il desiderio di creare, crearla usando dei materiali suoi, non suppletivi che si sovrappongono.

Quali altri materiali hai utilizzato come iconografia?

Quasi tutto il girato è stato fatto a Roma alla ricerca delle tracce dell’iconografia che tuttora permangono. Fasci littori, aquile, l’Eur in particolare, dove avevo già lavorato con Anna Bonaiuto allo spettacolo Metamorfosi creato al “Palazzo della civiltà italiana” (il “Colosseo quadrato”). Ci sono immagini e architetture legate a un periodo storico artistico ben definito insieme a immagini dei giorni nostri, girate per strade, all’Esquilino, molta polizia... L’Italia è di fatto uno stato di polizia e le immagini evocano la “normalità” di questo quotidiano. Immagini di carabinieri, di piccole manifestazioni; niente di particolarmente violento ma sufficiente per intuire qualcosa di più preoccupante e sottile…

E il cinema nel cinema

Ho inserito immagini di interni con un’attrice girati in un’ambiente non caratterizzato storicamente ma che evoca attraverso gli abiti un periodo indefinito tra anni trenta e quaranta. Lei è nella finzione una spettatrice di un film proiettato in un cinema invisibile e siamo noi il film che lei sta guardando. In bianco e nero per dare l’idea dell’ambiguità temporale, e talvolta sfuocato. Il film è lo spazio, non è importante distinguere chiaramente.

Hai inserito anche parti di animazione..

Ho usato l’animazione con riprese Super8 a passo uno. L’opera di Francis Bacon è evocata da uomini di plastilina, video e pellicola. Durante la preparazione ho guardato diversi lavori di autori come Jan Svankmajer e i Quay Brothers. In futuro non mi dispiacerebbe creare un intero film in animazione.

Con Olga come avete lavorato sul piano musicale?

Il testo era la cosa più importante, abbiamo fatto le traduzioni e costruito il “libretto” multilingue dell’opera. Abbiamo lavorato sulla struttura più che sulla partitura di ogni singolo strumento. Ci sono tante cose improvvisate e controllate in diretta durante la performance. Io e Olga siamo entrambi in scena insieme a un piccolo gruppo di musicisti e lavoriamo con elettronica, strumenti acustici, campionatore. C’è da dire che il film costituisce la vera partitura dell’intero progetto. E’ il film che guida l’azione complessiva.

C’è un progetto on-line per Italia anno zero?

Abbiamo deciso di mettere diversi file audio nel sito del progetto. File che si possono liberamente scaricare e che permettono di ricomporre una propria versione del lavoro. E per il pubblico in sala c’è la possibilità di portare a casa una scatola di CD (completa di inlay card e copertina) pronta per alloggiare la propria versione dell’opera.

http://www.italiaannozero.org


 



a cura di a m m (anna maria monteverdi)
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Le recensioni di ateatro: nella scatola magica del teatro
Renzo Boldrini Cenerentola remix
di Anna Maria Monteverdi

 

Il nuovo progetto di Giallo Mare Minimal Teatro, storica compagnia toscana di teatro-ragazzi, è l'allestimento dell'opera in musica Cenerentola Buff'opera da Gioacchino Rossini (con musica e arie in parte eseguite dal vivo e in parte registrate; scene e costumi di Beatrice Meoni; immagini video Lucia Paolini-Ines Cattabriga), sostenuto dal Progetto “Musica da vedere, Teatro da ascoltare”- Cultura 2000 per un pubblico misto di adulti e piccoli e che ha avuto un' ottima accoglienza alla sua "prima" al Teatro Verdi di Pisa.



In compagnia di due abili manovratrici, una di bambole, fantocci e maschere (Rossella Parrucci), l'altra di macchine digitali (Ines Cattabriga) e di un pianista-a-vista (Claudio Proietti) che cuce arie e atmosfere musicali diverse, Renzo Boldrini è in scena nell'insolita veste di narratore-cantante che racconta la storia (un mix di vari spunti letterari, oltre che dal libretto originale dell'opera rossiniana) di Angelina, bimba dalla vita felice e fortunata che si ritrova (si sa) a sfacchinare per matrigna e sorellastre e Don Magnifico. La bambola dal volto di porcellana, oggetto impreziosito da vesti ricamate e cuffiette fin de siècle, è la povera Cenerentola accudita nei suoi movimenti dall'abile mano di una "serva di scena", che la fa destreggiare agile tra gli oggetti (virtuali) della casa, tra gli strofinacci (disegnati in computer graphics) e la fa danzare dentro una fiaba variopinta di luce e musica.
Lo sfondo animato è un contenitore di ambienti: la povera casa dove Cenerentola si dedica a lavori forzati tipo catena di montaggio o il salone ricco di ornamenti della reggia del Re. Lo schermo è la tavolozza o la scatola magica del prestigiatore: è il luogo delle apparizioni inaspettate (l'ombra inquietante della matrigna, il figlio del Re, la carrozza!), della feroce battaglia (i frenetici cambi d'abito delle sorellastre), dei colori cangianti (le tappezzerie della casa, le stoffe dei divani), dello scherzo (l'imprendibile scarpetta, la danza delle note); le immagini diventano frammenti che si ricongiungono con il corpo dell'attore oppure ombre, vere o digitali animate: Don Magnifico ha perso la testa e la manda in aria come un giocoliere!



Marionette e corpi fuoriescono poi da uno strappo del fondale-schermo.Le sorellastre si provano l'abito della festa ma i cappellini con piume, ombrellini e ricami proiettati sulla loro testa si muovono a cercare di adattarsi ai loro corpi: si gioca sulla continuità figura-sfondo con un gesto che ricorda certi divertimenti di bambini, con le sagome di vestiti da ritagliare e incollare alle figurine di cartone. Lo spettacolo è ora un vortice di danze e di colori, ora un teatrino d'ombre, ora uno scherzo di musica e di luci ma che diventa una vera festa collettiva quando il lieto fine immancabilmente giunge. E allora cuore, corona e mantello sono il segno del gran finale con sipario!
Ora tocca al pubblico che in un collettivo karaoke scatenato fa da controcanto a un'arietta-morale (sempre quella!): ognuno trovi la scarpetta per il suo piede!
L'orchestratore-prestigiatore è Renzo Boldrini, che dirige i grappoli di note che accompagnano le sue parole, le quali a un suo tocco generano ombre o disegni elettronici che a loro volta inseguono corpi o dialogano con fantocci. Tutto questo è contenuto dentro la scatola magica di questo amabile teatro musicale per ragazzi.
Renzo Boldrini ci ha abituato a felici operazioni come questa "Cenerentola remix" che aggiornano le favole con l'immediatezza dei media digitali sperimentando originali relazioni tra scena e scrittura e tra pubblico e narratore, facendo dell'immaginario tecnologico contemporaneo e strumentazione annessa, la vera essenza del suo teatro: dalla favola di Dg-Hamelin, rivisitazione in chiave hacker della favola del pifferaio di Hamelin ai Tre Porcellini la cui home(page) è naturalmente in via www.treporcellini.com!


 


 

La morte di Mario Luzi
Poeta e drammaturgo
di Oliviero Ponte di Pino

 

E’ scomparso la mattina del 28 febbraio Mario Luzi, poeta e intellettuale di forte tempra morale e grande lucidità politica. Il presidente Ciampi l’aveva nominato senatore a vita nello scorso novembre, pochi giorni prima del suo novantesimo compleanno.
In una lunghissima carriera poetica, iniziata nel 1935 con la raccolta La Barca e proseguita fino al 2004 con Dottrina dell’estremo principiante, Luzi ha segnato la poesia italiana di un intero secolo. Accanto all’attività poetica, Luzi ha spesso scritto per il teatro. Di più, la fascinazione per la scena e la pratica di scrttura teatrale hanno avuto anche qualche riverbero nella sua lirica. Per esempio, Viaggio celeste e terrestre di Simone Martini, un viaggio in forma poetica dei pittore da Avignone verso la natia Siena, ha dentro di sé diverse suggestioni drammaturgiche, a cominciare dall’intreccio dele diverse dramatis personae e dalla struttura narrativa per stazioni.



Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, uno spettacolo di Federico Tiezzi e Sandro Lombardi.

Per misurare il rapporto di Luzi con il teatro può essere interessante ripercorrere il rapporto tra il poeta e la Compagnia Lombardi-Tiezzi (o se preferite i Magazzini). C’è nel 1990 una commissione da Dramaturg, ovvero l’adattamento teatrale del Purgatorio per la trilogia dantesca che il gruppo toscano ha realizzato avvalendosi anche della collaborazione di Eduardo Sanguineti per l’Inferno e Giovanni Giudici per il Paradiso (va sottolineato che nel 1993 lo stesso Luzi volle inserire questa sua libera riscrittura nel volume che raccoglie il suo Teatro). Cinque anni dopo, Federico Tiezzi firma la messinscena di uno dei testi teatrali scritti dal poeta, Felicità turbate (1995), dedicato alla figura del Pontormo. Più di recente, nel 2003, la teatralizzazione - sempre da parte di Federico Tiezzi - di un testo poetico come, appunto, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini.
Accanto alle messinscene firmate da Orazio Costa Giovangigli (Rosales nel 1983), Salvo Bitonti (Hystrio, 1987, con Paola Borboni, alla quale dedicherà nel 1992 Io, Paola, la commediante), Giancarlo Sammartano (Corale della città di Palermo per Santa Rosalia, 1989), Lamberto Puggelli (Il libro di Ipazia, 1995, ma il testo era stato trasmeso dalla Rai nel 1971), questa frequentazione con una compagnia emersa dalle fila della ricerca ¬è già un indizio della libertà con la quale Luzi (che fa risalire il suo apprendistato teatrale alle traduzioni dell’Andromaca di Racine nel 1960 e del Riccardo III di Shakespeare nel 1966) si accostava alla forma teatrale – e della libertà che accordava ai registi dei suoi testi.
Per certi aspetti, il teatro è anche per Luzi l’occasione per staccarsi dall’io lirico e moltiplicarsi in diverse voci. E’ anche una sorta di specchio obliquo, in cui tracciare una serie di “autobiografie alternative”; questi personaggi sono spesso liberamente reinventati a partire dalla realtà storica: dai filosofi alessandrini Ipazia e Sinesio a Trotzkij (che occhieggia dietro la figura di Markoff, contrapposto a un Don Giovanni-Rosales), dal pittore Pontormo al politico e filosofo francese Benjamin Constant di Ceneri e ardori (1997).
Un secondo Leitmotiv del teatro di Luzi è il rapporto con il sacro (che spesso assume il tono della riflessione filosofica, come del resto spesso accade nella sua poesia), culminato con la Passione realizzata per la Via Crucis papale del 1990, ma che risuona anche in altri testi.
Aldilà delle singole notazioni critiche, resta in ogni caso sintomatica la costante pratica drammaturgia di Luzi, accanto alle due forme privilegiate della poesia e del saggio critico. In questo, il percorso di Luzi è parallelo a quello di altri scrittori che hanno praticato la scrittura teatrale, da Pasolini a Testori, allo stesso Raboni (che qualche tempo fa aveva sollevato il problema). E ugualmente sintomatica è la difficoltà del sistema teatrale italiano di metabolizzare questo tipo di scrittura per inserirla stabilmente nel repertorio: in questa prospettiva il lavoro di Federico Tiezzi su Testori ma anche su Luzi e Pasolini, resta ancora una eccezione.


 


 

Il meeting annuale dello European Network of Art Organizations for Children and Young People
A Verona dall'11 al 14 maggio
di Ufficio Stampa AIDA

 

Verona ospiterà dall’11 al 14 maggio l’annuale meeting di Eunetart uno dei maggiori network internazionali che riunisce 100 organizzazioni teatrali professionali in 28 Paesi europei ed extraeuropei che promuovono la cultura per bambini e ragazzi nelle diverse discipline artistiche e culturali.
Il Network fondato nel ’91 si occupa di favorire le collaborazioni tra gli esperti del settore per creare nuovi strumenti di educazione alla crescita creativa e educativa dei ragazzi.
Tra i membri sono soci organizzazioni a livello internazionale e del board fanno parte il Royal National Theatre di Londra, il Carrousel Theater di Berlino, Teatro Guirigai di Madrid, Boomerang Theatre Company di Dublino, Rassitej di Mosca, Kulturhuset Barbacka dalla Svezia e Het Muztheater dall’Olanda.

Il recente ingresso nel board di Eunetart anche della Fondazione Aida di Verona ha fatto in modo che il meeting annuale si svolgesse nella città scaligera. Qui in maggio si incontreranno quindi un centinaio di esperti del settore per condividere, riflettere scambiare informazioni e competenze su progetti e idee comuni.
Verona sarà al centro di una tempesta di dibattiti, incontri e spettacoli dell’Associazione Produttori Professionisti Teatrali Veneti (PPTV) tra cui il Viva Opera Circus, il Teatro del Lemming, gli Alcuni, il Teatro Scientifico e naturalmente la Fondazione Aida. Sarà una festa del teatro con intere giornate di proiezioni, pièce, scambio di visioni e punti di vista per addetti ai lavori ma anche aperti agli appassionati.
Così grazie alla Fondazione Aida l’intera città vivrà l’importante evento internazionale in cui saranno coinvolte in una sinergia di intenti e progettualità sia le istituzioni politiche locali che quelle teatrali.

Info: http://www.fondazioneaida.it

Eunetart Annual Meeting: Verona, 11-14 maggio 2005
PROGRAMMA


Mercoledì 11-5-2005
ORA LUOGO EVENTO
14:00 - 17:00 Ingresso
Arrivo e registrazione al meeting
16:00 -17:00 Sala Totola SPETT.: "Odissey of the children" del Teatro del Lemming
17:00 - 18:00 Foyer Benvenuto ai nuovi soci
18:00 -19:00 Sala Totola SPETT.: "Odissey of the children" del Teatro del Lemming
18:00 - 19:30 Foyer Benvenuto informale
19:45 -21:15 ESU Cena
21:15-22:30 Teatro Camploy SPETT.: "Peace" di Fondazione Aida
21:15-22:30 Sala Totola SPETT.: "Odissey of the children" del Teatro del Lemming


Giovedì 12-5-2005
ORA LUOGO EVENTO
10:00 - 11:00 Teatro Camploy
Benvenuto ufficiale: Saluto dei rappresentanti di: Comune di Verona, Provincia di Verona, Regione del Veneto, Fondazione Aida e Eunetart
11:00 - 11:15 Foyer Coffee break / registrazione
11:15 – 13:00 Sala prove Introduzione ai lavori e presentazione della segreteria (Tanja Nlaker); Riassunto sui risultati del questionario sui bisogni di Eunetart; Discussione sul futuro del network
“Members in picture”: presentazione dei soci /progetti
11:30 - 17:30 Teatro Camploy Montaggio
13:00 - 14:20 Foyer Pranzo
14:30 - 15:00 Foyer Vetrina dei membri
15:00 - 15:30 Sala prove Avvio della sessione di progettazione (project session # 1)
15:30 - 17:30 Sala Prove Project Session – gruppo 1
Sala Totola Project Session – gruppo 2
Foyer Project Session – gruppo 3
Piano interrato Project Session – gruppo 4
15:00 - 17:30 Esterno: Verona Giro turistico
18:00 - 18:30 Teatro Camploy Presentazione della Associazione produttori professionisti teatrali veneti (Francesco Manfio)
18:30 - 20:00 Teatro Camploy, Theatre VIDEO Alcuni + SPETT. "Peter and the wolf" del TIB Teatro
20:00 - 21:00 Foyer Cena
21:15 - 22:30 Teatro Camploy SPETT.: "Puss in boots" di Viva Opera Circus

Venerdì 13-5-2005
ORA LUOGO EVENTO
10:00 -11:30 Sala Prove
Assemblea Generale:
seguita / proceduta da lavori in gruppo
11:30 -11:45 Foyer Coffee break
11:45 - 12:45 Sala Prove Relazione dei lavori di gruppo
Presentazione del documento finale
report backs and prospects of the network
12:45 – 13:15 Trasferimento
13:15 - 14:45 ESU Pranzo
14:45 -5:00 Trasferimento
15:00 - 15:45 Sala Prove L’impegno sociale delle arti
Presentazione di alcune buone prassi
16:00 - 18:00 Lavori di gruppo: approfondimento sulle buone prassi
18:30 - 19:30 Teatro Camploy SPETT.: "Other Stories: Commedia dell'Arte" di Teatro Scientifico
19:30 - 19:45 Trasferimento
19:45 - 21:00 ESU Cena
21:15 - 22:30 Teatro Camploy VIDEO Pantakin + SPETT.: "Auggie's Story" di Fondazione Aida


Sabato 14-5-2005
ORA LUOGO EVENTO
10:00 - 13:00 Teatro Camploy
Conferenza – Tavola rotonda
Politiche europee a sostegno della cultura per ragazzi e giovani
11:15 - 11:30 Foyer Coffee break
13:00 - 14:20 Foyer Pranzo
14:30 - 16:00 Sala Prove Ripresa della sessione di progettazione (project session # 2)
Sala Prove Seguto da momento di riassunto sulla sessione di progettazione
16:00 - 17:00 Camploy, Sala Prove Sessione conclusiva
17:30 - 18:30 Teatro Camploy SPETT.: "Peter and the wolf" di Fondazione Aida
17:00 - 20:30 Tempo libero (in parallelo allo SPETT.) per giro turistico, shopping…
18:30 – 22:30 Teatro Camploy Smontaggio
20:30 - 24:00 Cantinone Bolla Serata conclusiva con festa


 


 

Festival delle Colline Torinesi: avant programme
La decima edizione dal 28 maggio al 30 giugno
di Festival delle Colline Torinesi

 

Festival delle Colline Torinesi

Decima Edizione 28 maggio-30 giugno 2005





La decima edizione del Festival delle Colline Torinesi rende omaggio in primo luogo ad alcune grandi compagnie e ad alcuni grandi artisti italiani la cui originale vocazione al confronto con la contemporaneità è riconosciuta a livello internazionale. Societas Raffaello Sanzio, Pippo Delbono, Teatrino Clandestino, Emma Dante, Teatro delle Albe, Motus, Fanny e Alexander, Egumteatro, Marcido Marcidorjs ribadiscono l’affascinante complessità della loro cifra formale e confermano, nell’occasione, la loro fedeltà ai palcoscenici del Festival. Spettacoli nevrotici o visionari, criptici o beffardamente semplificatori, che irridono il bello, i loro, in bisticcio, a volte, con la drammaturgia, che sanno esprimere il disagio e il dolore dell’oggi, spesso con inafferrabile sacralità.

In apertura di programma Pippo Delbono presenta il suo Urlo reduce dai successi della Carrière de Boulbon e dalla riscrittura per tournée, un lavoro che ha sommato alle sue originarie grida di disperazione persino quelle dello tsunami e che propone gli ultimi momenti del rivoluzionario incontro tra Umberto Orsini e Bobò, tra il principe della parola e il principe del silenzio. La Societas Raffaello Sanzio rivisita invece, in anteprima nazionale, il decimo episodio della sua Tragedia Endogonidia creato al Theatre du Gymnase di Marsiglia, segmento di un ciclo creativo senza precedenti nella storia del teatro e delle arti plastiche. Una performance di luci e colori, “nembi d’Apocalisse” com’è stato scritto, che sembra persino contrastare o sublimare altri mondi organico-tecnologici di Romeo Castellucci.

Conclusione di un complesso percorso di ricerca sono anche i due titoli di Fanny e Alexander, Aqua Marina e Vaniada, alle prese con l’universo nabokoviano, con le radici e la sostanza dell'amore incestuoso di Van e Ada, sempre in bilico tra filologia e fiaba, tra viaggi nell’inconscio e astrazione.

Il nuovo studio di Teatrino Clandestino, affiancato nel programma a Madre e assassina, è Il fantasma dentro la macchina, ispirato ad un saggio di Stanley Milgram, psicologo sociale, che analizza, com’è noto, i meccanismi dell’obbedienza all’autorità, la violenza del potere, il fatto che persone apparentemente normali possano trasformarsi in carnefici.

Il disagio della contemporaneità, il malessere del tempo in cui viviamo si riverbera anche -e come potrebbe essere altrimenti?-nelle proposte al festival di Motus Come un cane senza padrone, di Libera mente La bellezza, di Beppe Rosso Senza, di Scarlattine Teatro Scirocco, ballata di viaggio, tra Pier Paolo Pasolini e Andrea Pazienza, Charles Bukowski e Tonino De Bernardi.

Echi di una condizione umana di solitudine e disperazione, di emarginazione e rivolta, ci sono nei nuovi testi di Emma Dante, Mishelle di Sant’Oliva, di Marco Martinelli, La mano, tratto dal romanzo di Luca Doninelli e messo in scena dal Teatro delle Albe, di Antonio Tarantino, Come un romanzo, proposto dalla giovane compagnia L’accademia dei Folli. Tre autori a dimostrare, insieme a Spiro Scimone, Fausto Paravidino, Letizia Russo tanto per citare qualche altro nome, come il nuovo teatro italiano sia anche un teatro di originale drammaturgia, un teatro che spesso crea i presupposti, con la sperimentazione linguistica, della stessa innovazione scenica.

Il segmento internazionale del Festival delle Colline Torinesi 2005 vuole far conoscere al pubblico il francese Olivier Cadiot e l’iraniano Amir Reza Koohestani. Del primo viene allestito Le colonel des zuaves, uno dei successi dell’ultimo Avignone, del secondo Dance on Glasses, che riflette con esiti sorprendenti e crudeli sulla condizione femminile nel mondo arabo. Un altro appuntamento con la scrittura è quello con Elfriede Jelinek, Premio Nobel 2004, della quale Roberta Cortese attrice-traduttrice presenterà La regina degli Elfi.

Tra gli interpreti delle consuete prove d’attore vi sono Iaia Forte in scena con Molly B, da Joyce, allestimento firmato da Carlo Cecchi, Manuela Kustermann, protagonista per Egumteatro della piece di Copi Loretta Strong, Giuseppe Cederna che proporrà Il Grande Viaggio, tratto dal suo recente omonimo libro, Paola Bigatto con la lezione-spettacolo La banalità del male da Hanna Arendt. Come sempre solitario il cimento dei Marcido Marcidorjs che proseguono il loro percorso musicale con Marcido:Canzonette. Canzonette Marcido!, una tappa di avvicinamento all’ormai prossimo Giganti della Montagna.



Sergio Ariotti





AVANT-PROGRAMME



Festival delle Colline Torinesi

Decima Edizione 28 maggio-30 giugno 2005

AVANT-PROGRAMME





28, 29 maggio, Moncalieri

Compagnia Pippo Delbono | Urlo



30, 31 maggio Torino, prima nazionale

Egumteatro | Loretta Strong



1 giugno, Moransengo

Iaia Forte | Molly B



2, 3 giugno, Torino, prima nazionale

Compagnie Ludovic Lagarde | Le colonel des zouaves



4, 5 giugno, Torino, prima nazionale

Roberta Cortese | La regina degli elfi



5 giugno, Sciolze

Paola Bigatto |La banalità del male



6, 7 giugno, Moncalieri

Libera mente | La bellezza



8 giugno, Torino, studio per il festival

Teatrino Clandestino | Il fantasma dentro la macchina



8 giugno, Torino

Teatrino Clandestino | Madre e Assassina



9, 10 giugno, Moncalieri

Motus | Come un cane senza padrone



11 giugno, Arignano

Giuseppe Cederna | Il Grande Viaggio



12, 13 giugno, Torino

Amir Reza Koohestani | Dance on Glasses



14, 15 giugno, Torino, prima nazionale

Fanny & Alexander | Aqua Marina e Vaniada



16, 17, 18 giugno, Torino, anteprima nazionale

Socíetas Raffaello Sanzio | M.#10 Marseille



18, 19 giugno, Torino

Socíetas Raffaello Sanzio | Crescita XV Torino



20, 21 giugno, Castagneto Po, prima nazionale

Marcido Marcidorjs |Marcido: Canzonette. Canzonette Marcido!



22, 23 giugno, Torino,
studio per il festival

Beppe Rosso | Senza



24, 25 giugno, Stupinigi, prima nazionale

Accademia dei Folli |Come un romanzo



26 giugno, Torino

Scarlattine Teatro | Scirocco, ballata di viaggio



26, 27, 28 giugno, Torino,
prima nazionale

Emma Dante | Mishelle di Sant’Oliva



29, 30 giugno, Torino

Teatro delle Albe | La mano



Giugno, Torino, Cinema Massimo

Teatro&Cinema

Film e video delle compagnie presenti al Festival

in collaborazione con Museo Nazionale del Cinema di Torino

e TTV Festival di Riccione Teatro





INFO

Festival delle Colline Torinesi

Corso Giulio Cesare 14 – 10152 Torino

Tel./fax +39 011 4360895

info@festivaldellecolline.it stampa@festivaldellecolline.it


 


 

La scomparsa di Lello Baldini
Poeta e drammaturgo
di Redazione ateatro

 

Il poeta santarcangiolese Raffaello Baldini si è spento nel tardo pomeriggio di ieri nella sua casa di Milano. Aveva compiuto 80 anni a novembre. I funerali si terranno a Santarcangelo venerdì 1 aprile alle ore 16 presso la chiesa Collegiata.
Raffaello Baldini faceva parte del gruppo di intellettuali santarcangiolesi che nell'immediato dopoguerra diede vita al 'Circolo del Giudizio', con Tonino Guerra, Gianni Fucci, Flavio Nicolini, Nino Pedretti. Le sue raccolte come La nàiva, Furistir e Ad nòta hanno ottenuto riconoscimenti come il premio Carducci, Viareggio Poesia e Bagutta.
Era anche autori di testi per il teatro, in dialetto e in italiano. Il più recente, In fondo a destra, è in scena proprio in questi giorni al Teatro Verdi di Milano.

55.50 Le recensioni di "ateatro": In fondo a destra
di Raffaello Baldini, regia di Federico Tiezzi
di Oliviero Ponte di Pino

54.31 La lettura dell’altro
In fondo a destra di Raffaello Baldini, regia di Federico Tiezzi con Silvio Castiglioni
di Oliviero Ponte di Pino

0.4 Un mail a Lorenzo Anelli
attore, protagonista di In fondo a destra di Raffaello Baldini, regia di Gaddo Bagnoli
di Oliviero Ponte di Pino


 



Appuntamento al prossimo numero.
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