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Bergonzoniana
Cinque spettacoli e due interviste
di Oliviero Ponte di Pino

copyright Oliviero Ponte di Pino 1989, 1992, 1994, 1997, 1999, 2000

Le recensioni sul "manifesto":
Le balene restino sedute (1989).
Anghingò (1992).
La cucina del frattempo (1994)
Zius (1997)
Madornale 33 (1999)

Due interviste apparese sul "manifesto":
Alessandro Bergonzoni per "il manifesto".
La Milano di Bergonzoni.
 


Le balene restino sedute
"il manifesto", 12 dicembre 1989

Un comico si aggira per l’Italia. Non fa la parodia dell’universo televisivo e non si diverte a scimmiottare la pubblicità Non ride/piange sulle miserie della generazione dei trentenni. Non fa satira di costume né sociologia spicciola. Ignora le macchiette dialettali, anche se viene chiaramente da Bologna. Non prende in giro la gobba di Andreotti né le palle di Craxi. Insomma, è un comico eccentrico, in un’Italia che sembra popolata di nuovi comici e aspiranti reduci di Drive In.

Eppure, ciononostante, Alessandro Bergonzoni fa ridere, per ore intere, come è accaduto al Ciak di Milano, dove ha debuttato il suo nuovo spettacolo, Le balene restino sedute (edito anche in formato libro da Mondadori). Quella di Bergonzoni è una comicità fatta soltanto di parole. È un attrezzo che smonta e scardina il linguaggio per atterrare in mondi surreali e inattesi. Una macchina che crea in continuazione paesaggi sconclusionati, abitati da personaggi adorabili e fantastici oppure sanguinari e sconvolgenti.

Quando si lascia sfuggire un accenno ai suoi "padri spirituali", Bergonzoni cita il Burchiello – ovvero Domenico di Giovanni, barbiere e poeta del Quattrocento, cui perfino le antologie scolastiche dedicano qualche riga: ed è il piacere dell’eversione linguistica, dell’invenzione sorprendente e gratuita, degli accoppiamenti poco giudiziosi. E cita anche i fratelli Marx: per il ritmo incalzante, per la torrenziale sarabanda di schegge di follia che sbalordisce e stordisce gli spettatori.

Perché in questa partita, tutti i mezzi sono buoni per sorprendere, dal sublime al banale dal trionfo della stupidità ("Fermò un camion di rane e si fece portare da una di loro a Vigevano dove c’erano certe leggi che adesso non ci sono più") al lampo di genio ("Quando il sogno finì, Ivan pensò a cosa avrebbe detto Freud se fosse stato ancora vivo. Probabilmente avrebbe detto: "Però, sono un bel po’ longevo").

Quelle applicate da Bergonzoni nella creazione delle sue surrealtà sono grammatica, sintassi, logica e buonsenso trionfalmente ribaltati. A cominciare dal gusto privato di spezzare le associazioni giudiziose ("gli Assiri, una volta tanto finalmente senza i Babilonesi, che quel giorno erano malati") o di far esplodere elenchi e classificazioni ("era comunque una femmina tutta casa, chiesa, scuola, lattaio, fornaio, droghiere, cartolaio, e poi di nuovo casa, quindi non stava fuori sempre"). Oppure lascia fantasticare di scienze immaginarie (fonte principale, la fantomatica "Enciclopedia del quieto vivere"), s’inventa giochi da Oulipo, come un mondo senza P (abitato da "Latone, Aeron de’ Aeroni, Aa Giovanni eccetera").

Disfa frasi fatte ("un bel dì, che viene dopo il bell’a, il bel bi e il bel ci"), partecipa nel suo furore tassonomico a olimpiadi dell’assurdo: "gare di statura, movimento terra, rotazione pianeti, sollevamento coperchi per buoni diavoli, corsi di roccia sui pattini, gare di morsi e rimorsi, gatta buia, gare di saluti e commiati, corsa sugli ombrelli (tra l’altro dolorosissima)..." e così via), rende omaggio ai grandi del passato ("Guglielmo Manzoni, inventore dei Promessi Sposi per radio"), si lancia in attacchi folgoranti ("Quel mattino il sole era alto e i sette nani invidiosissimi come al solito").

Rigorosamente sconclusionata e allegramente crudele, percorsa da inevitabili e matematici istinti omicidi, la comicità di Bergonzoni si nutre della possibilità di creare infiniti universi paralleli, tutti ugualmente sconclusionati autarchici. Attraverso lo scontro tra le regole del mondo quelle del linguaggio, tiene accesa la scintilla di una eterna e gratuita ribellione. Da queste imprevedibili provocazioni enigmistiche, da questi intensi e poetici (e poco giudiziosi) accoppiamenti immagini nasca la carica liberatoria dei suoi spettacoli.
 


Anghingò
"il manifesto", 4 marzo 1992

Quello di Alessandro Bergonzoni con il linguaggio è, a prima vista, un autentico corpo a corpo, Le frasi s’imbizzarriscono, s’inceppano, si trasformano in gorghi da cui sembra impossibile sfuggire. E a questo allude il cantilenante titolo del suo nuovo spettacolo, Anghingò.

Una lotta da cui la realtà è la prima esclusa. Ogni riferimento a fatti, cose, persone è assolutamente casuale, un residuo ormai privo di funzione, che fa regredire il linguaggio a uno stadio definitivamente superato. In spregio a Leopardi e agli altri "poeti da pelliccia", non è ammessa alcuna concessione all’emozione e al sentimento, e la psicologia è travolta da un proliferare di associazioni.

Allo stesso modo (e qui sta forse, in prospettiva, un rischio di ripetitività) anche gli sviluppi narrativi sono rigorosamente casuali: incidenti di percorso, saggezza ritrovata solo a posteriori, dunque sospetta e rigorosamente inutilizzabile. Vicende e personaggi, se ce ne sono, divagano senza regola, sfuggendo a ogni possibile programma. Questa oscillazione tra l’afasia, i mulinelli ripetitivi, senza vie d’uscita, di frasi avvitate sul nulla, e il proliferare sregolato e infinito del discorso, si ribalta paradossalmente in un dominio totale e assoluto sulla lingua e sul senso. Come un enigmista maniaco, Bergonzoni seziona le parole, fa slittare una vocale, elide un’iniziale, s’intestardisce su un’assonanza, le fa a pezzi per inventarsi false etimologie.

A un’irraggiungibile precisione matematica del linguaggio, ribatte con un elogio dell’imprecisione e dell’invenzione arbitraria: "i numeri parlano da soli, le lettere trovano più facilmente compagnia". Distorcendo leggermente il suono, travolge la barriera del senso (e soprattutto del buon senso) per modulare significati assolutamente imprevedibili e sempre esilaranti. In questo, ricorda un musicista jazz quando moltiplica le variazioni su una frase melodica; e come un jazzista, Bergonzoni sembra procedere per assoli e improvvisazioni, inseguendo quello che il già detto suggerisce: unici limiti sono la capacità d’invenzione fantastica e l’esaurimento dell’energia fisica.

Le frasi fatte, i proverbi, i luoghi comuni diventano irresistibili trampolini per giravolte sempre più azzardate, sberleffi a getto continuo, palestra per impennate di spiritosa insensatezza. L’unico sbocco di questa irriverente eversione è il collasso della logica, un caos scanzonato e folle. A tratti allegramente cattivo, costantemente illuminato da una stupidità che si libra al di sopra di tutte le nostre meschine preoccupazioni, Bergonzoni disintegra le leggi del significato con lo slancio baldanzoso dell’incoscienza, e una grazia euforica e incontenibile. Che coinvolge inevitabilmente il pubblico in una partita dove l’unica regola è non avere regole: un liberatorio elogio dell’inutile e dell’infantile, dell’evasivo e del gratuito.


La cucina del frattempo
"il manifesto", 14 dicembre 1994

La cucina del frattempo – il titolo del nuovo monologo a più voci di Alessandro Bergonzoni con la regia di Claudio Calabrò – è in primo luogo quella delle ricette demenziali, crudeli ed esilaranti che punteggiano il testo: un Artusi sadico e psichedelico, che frulla equivoci e acrobazie verbali, provocazioni e sistematiche incongruenze. Quel che si cucina sulla scena è il linguaggio, con procedimento da alchimista-bricoleur: accostando parole, concetti e frasi in base ad affinità (ritmiche, sonore, grammaticali, strutturali) che non hanno nulla a che vedere con la realtà che quelle parole e frasi denotavano, confondendo deliberatamente segno e simbolo, cosa e suono.

Questa grammatica degenerativa dà ai deliri di Bergonzoni una forza ludica e destabilizzante, aprendo però un dubbio di fondo (in questo consiste l’"amleticità" bergonzoniana). È il linguaggio che non è più adeguato alla realtà? Allora il trionfo della parola, questa sua fioritura barocca e psichedelica, è una metastasi, un gigantesco cenotafio che custodisce l’inadeguatezza della parola rispetto alla cosa. Oppure, al contrario, è la realtà ad essersi fatta inadeguata, banale, prevedibile – e dunque "malvagia"? Quindi il linguaggio offre l’unica via di fuga, la possibilità di inventarsi altri mondi, di evadere, di abitare un’estetica.

Sono due spinte opposte, due chiavi incompatibili (volendo fare un quiz stupido: secondo quale delle interpretazioni Bergonzoni sarebbe di destra? secondo quale sarebbe di sinistra?). Tuttavia è proprio dalla compresenza e dall’ambiguità di questa duplice lettura che le invenzioni bergonzoniane scatenano un effetto tanto liberatorio quanto inquietante (oppure liberatorio per qualcuno, per qualcun altro inquietante). Ogni volta, l’equilibrio tra queste due spinte lascia alla fine l’universo dello spettacolo come sospeso, senza possibile conclusione.

La cucina del frattempo testimonia un’evoluzione che è anche una crescita. Da un lato, assume un valore sempre maggiore la creazione di mondi paralleli da inventare e abitare in chiave narrativa, con due trame intrecciate: quella della rapina che l’imbranatissimo e disperato Mattia Bresson compie ai danni di una demenziale famiglia racconta nel tinello, intorno a un pranzo interminabile e a un indovinello impossibile; e quella del ciclone Ocio o dell’uragano Superbimbo, i cataclismi linguistico-sessuali che devastano la regione immaginaria fatta di giungla (verbale) e "città delle traveggole". Questi mondi sono tutto meno che un’Arcadia: Bergonzoni si scatena a raccontare apocalissi e catastrofi, oltre che eccessi rabelaisiani – come la metropoli travolta da furia erotica e poi invasa e distrutta da torme inesauribili di neonati. D’altro canto questa antilingua reinventa e plasma la realtà, incidendosi come un tatuaggio sul corpo sempre più pulcinellesco dell’attore, arricchendo la sua padronanza del gesto e della voce, moltiplicando la frenesia dell’affabulatore in una folla di persone e trame intrecciate. Anche lo spazio, che lo scenografo Mauro Bellei ha occupato con un eccesso d’arredi incongruo e funzionale, viene così invaso con una gestualità esuberante ma precisa come una danza.

La cucina del frattempo continua ovviamente a privilegiare la chiave comica, in un fuoco d’artificio implacabile, virtuosistico, acrobatico, di battute a vario tasso d’idiozia e d’intelligenza. La rapidissima scansione fa sì che ogni battuta si sovrapponga alla precedente e la cancelli, rendendo impossibile la memoria: un bombardamento a tappeto in cui la parola corre più veloce del pensiero – almeno di quello dello spettatore – aprendo un’altra frattura, oltre a quella tra parola e realtà: quella tra la parola e il pensiero.
 


Zius
"il manifesto", 27 marzo 1997

Il punto d’avvio resta lo stesso – il piacere della sovversione – e questo può rassicurare i vecchi fan di Alessandro Bergonzoni. Anche nel suo nuovo spettacolo, Zius, a far partire la frenesia affabulatoria sembrano essere gli ingranaggi del linguaggio, che nella loro inarrestabile danza producono un flusso di parole torrenziale e ingovernabile, in grado di distruggere di continuo la realtà e di costruire mondi paralleli sempre nuovi, travolgendo ogni logica e naturalismo in derive surreali che liberano il flusso anarchico del desiderio.

Fedele alla forma del monologo, Bergonzoni la sta tuttavia progressivamente allargando: non certo verso la confessione autobiografica e l’introspezione psicologica, non certo verso il confronto con il reale, ma arricchendo il suo arrembaggio verbale di proiezioni fantastiche, nuclei narrativi, incursioni nel surreale, tra personaggi e presenze sempre più palpabili. Questa volta l’Io narrante si moltiplica per tre, o forse per quattro. Rispetto agli spettacoli precedenti, all’intreccio di giochi linguistici e alla libertà di chi gioca incessantemente con regole sintattiche e affinità poetiche, è come se si fosse insinuato un virus, il seme di un’altra regola. E una nuova regola, secondo il metodo Bergonzoni, va in ogni caso scardinata. Subito. Con irruente puntiglio.

Il nuovo virus è un indefinibile e vago senso di colpa. La regola è, forse per la prima volta, una consapevolezza del limite che s’insinua nell’oceano indifferenziato del desiderio e che prima veniva esorcizzato da una continua e nevrotica fuga in avanti. Non appena questo senso del peccato s’insinua nell’Eden della parola, si condensano immediatamente tre figure, tre doppi per misurare e dar forma alla diversa percezione di sé di questo Amleto frenetico e allucinato.

L’inizio di Zius (che si avvale, al solito, della regia di Claudio Calabrò) ricorre a un topos classico della comicità popolare: il testamento burlesco di antica tradizione carnevalesca, che ribalta l’angoscia definitiva della morte in un riso liberatorio. Lo spettacolo si apre (e ci tornerà, usandolo come un tormentone) con quest’improbabile catalogo della realtà: l’infinito e sgangherato elenco dei lasciti di un fantomatico signor Goodman, lo Zius del titolo, lo zio "buono", creatore o accumulatore tanto misterioso quanto capriccioso e pasticcione. Beneficiari dovrebbero essere i suoi tre nipoti. Ma i due gemelli Jean e Jean Jean, che non avranno niente. E Jean per Jean, che avrà tutto (o meglio, tutto quel che promette la onnivora e scombiccherata elencazione testamentaria dello Zius), in quanto sintesi assoluta e indivisibile di genio e stupidità totali (una definizione, se si vuole, della comicità).

Ma la percezione della colpa, l’affetto negato, la scissione dell’Io innestano immediatamente il meccanismo della confessione (un meccanismo che ha naturalmente la sua teatralità). Nella funzionale scena di Mauro Bellei un intrico di pannelli di vetro fungono da punto d’appoggio e da schermo, da pulpito e (appunto) da confessionale. E qui il gioco teatrale s’impenna, in un continuo rispecchiamento di senso del peccato e di desiderio, smontati e ribaltati e in definitiva vanificati. Tra lucidità e delirio, tra fughe e ritorni dall’Io, per il Bergonzoni di Zius forse il giardino dell’Eden si può ancora recuperare. Perché è forse possibile ritrovare l’innocenza perduta in quei labirinti di parole e sentimenti sgangherati, in quelle impennate buffonesche, in quelle acrobazie che smascherano allegramente il paradosso della colpa e ribaltano la malinconia in una risata.
 


Madornale 33
"il manifesto", novembre 1999

Da anni Alessandro Bergonzoni vizia il proprio pubblico con una cascata di funambolismi verbali, in un vertiginoso slittamento di significati e significanti. Nel suo nuovo spettacolo Madornale 33 questo rapporto con il linguaggio, che nei monologhi precedenti veniva usato come una fionda per lanciarsi nella creazione di esseri strampalati, mondi impossibili, trame dissociate, paesaggi psichedelici, diventa anche il tema del lavoro. In Madornale 33 si delineano inoltre con maggior nettezza rispetto al passato personaggi, situazioni drammaturgiche e prospettive narrative. A questa consapevolezza corrisponde una padronanza sempre maggiore dello spazio scenico e delle tecniche d’attore, affinati con l’abituale staff di collaboratori, Claudio Calabrò alla regia e Mauro Bellei, inventore di un’efficace macchina scenica sormontata da un emblematico diapason-vagina-altalena.
Quell’esilarante parodia new age che è Madornale 33 ha un eroe, il mitico Fufyo – che come molti nomi bergonzoniani si scrive in un modo e si pronuncia in un altro, in questo caso un lungo fischio: un richiamo che è come l’origine della lingua e dei nomi. Fufyo viene scelto e spedito da un guru pasticcione alla ricerca delle 33 verità definitive, in un viaggio iniziatico che percorre zone inequivocabilmente erogene del mondo-corpo-linguaggio.
Nei suoi spettacoli e nei suoi libri, Bergonzoni mostra da sempre che il nostro linguaggio non è, tanto per cominciare, una struttura logica: infatti si diverte costantemente a scardinarlo, in frenetici mulinelli di non senso (o forse di sensi e logiche alternativi). Poi mostra che non è neppure un modo di descrivere la realtà, che nei suoi lavori è sempre nutrita da dosi massicce di fantasia e di surrealtà, spesso innescati proprio dalle parole, dalle loro associazioni e assonanze. Non si salvano neppure la possibilità di nominare e catalogare gli oggetti, azzerata da una sequenza di definizioni strampalate, basate su calembour; né l’aura poetica della metafora, che presa ogni volta alla lettera collassa in una risata. Infine, lascia intuire Bergonzoni, la nostra parola non cattura neppure la verità, né una né infinite verità, e neanche le 33 verità «madornali» evocate dal titolo, come dimostrerà la conclusione beffarda dell’apologo.
Non a caso, l’iniziazione di Fufyo viene commentata in una serie di controscene (o controsceme) da due divinità maligne e dispettose, Vanvera – ovvero il principio di casualità – e Bastiana – ovvero il principio della negazione. Sono queste due «straveggole» ad aprire il flusso alluvionale del linguaggio alle sue infinite e gratuite diramazioni (a proposito, Bastiana e Vanvera dimostrano che il linguaggio può servire anche a non comunicare: basta vedere come i loro dialoghi s’aggrovigliano di incomprensioni e delirio).
Ma allora, che cos’è il linguaggio, così come lo usa Bergonzoni, così come lo attraversa e se ne fa attraversare? È in primo luogo la potenza del desiderio e il suo inquieto slittamento. È un gigantesco esorcismo contro la morte e l’immobilità, nevroticamente ilare e segretamente disperato. Tutte quelle connessioni frenetiche e improbabili scatenano il riso perché abbracciano (e connettono, e infilzano) ogni cosa in una catena di cui non si vede lo sbocco, e al tempo stesso fondono il pubblico (come fanno da sempre i comici) nel piccolo orgasmo collettivo della risata, creando per un istante il senso della comunità. Tuttavia, man mano che si accumulano spettacoli e romanzi, quella frenesia velocistica, quell’impossibilità di fissare solo per un istante la concatenazione delle associazioni – l’inconscio della lingua sempre al lavoro – sembrano poter fare a meno del riso: quello che affascina e conquista è sempre più l’esperienza del viaggio, e una sensazione di libertà – quando l’affabulazione bergonzoniana rende palpabili il possibile e l’impossibile. Emerge pure un atteggiamento sempre più consapevole di fronte alla realtà quotidiana, alle sue illusioni – le pseudoverità ipocrite, consolatorie e inutili, per non dir di peggio, che ci condizionano. Da questo punto di vista, Madornale 33, con le sue non-verità, può rivelarsi una valida terapia, una scuola di dubbio.
 


Alessandro Bergonzoni
per "il manifesto"

Per quanto riguarda la posizione religiosa, si dichiara "cattolico effervescente". Se interrogato sulla Seconda repubblica, spiega di avere qualche speranza nella Quinta ("quindi ho ancora molto tempo davanti" aggiunge). Sull’uso di stupefacenti, la diagnosi è: "Mi drogo con la mia saliva, quindi sono lo spacciatore di me stesso" (ma non ce la siamo sentita di verificare di persona gli effetti allucinogeni della sua salivazione...). Nei suoi spettacoli e nei suoi libri rifiuta ogni tentazione autobiografica, proclama di non avere nessuna verità da spacciare, ma di cose da dire – da inventare – ne ha moltissime. Parlando di lui, pare che Umberto Eco abbia confidato: "Se non facessi il lavoro che faccio, avrei voluto fare quello che fa lui". Scusate se è poco.

Adesso Alessandro Bergonzoni entra in scena – per usare una metafora non sportiva ma teatral-spettacolare – a sostegno della campagna di azionariato del "manifesto". L’attore-autore bolognese, che sta collezionando a Milano una serie di esauriti con il suo nuovo travolgente monologo a più voci, La cucina del frattempo, offrirà uno spettacolo straordinario per gli amici del giornale. Spettacolo straordinario in tutti i sensi, a partire dall’ora: la mezzanotte di sabato 8 aprile, al Teatro Ciak di Milano. Un’occasione da non perdere: perché Bergonzoni è divertentissimo, irresistibile e, come diceva una vecchia canzone, "libera la mente"...

Prima di tutto, Alessandro, da dove viene il titolo della serata, "la rivoluzione non dorme"?

Su consiglio intimo, interno, vuol dire che bisogna fare spettacoli di notte per una grande causa. Più che grande, per una buona causa, più che buona per una causa importante. "Azionariato", si dice così?

Esatto. E non è la prima volta che sostieni il nostro giornale: qualche tempo fa hai prestato il tuo volto alla campagna abbonamenti.

E sono pronto a riprestare il volto, il corpo, l’anima e il sangue ad altre campagne. L’importante è non essere tradito, e finora "il manifesto" non mi ha tradito...

Da parte di un certo pubblico di sinistra, all’inizio c’era stata una certa diffidenza nei confronti di un comico come te, che non ha mai fatto satira politica, e che anzi teorizzava esplicitamente il rifiuto di quel tipo di contaminazione con la realtà…

Alla prima osservazione molti hanno pensato questo. Si dimenticavano però a una seconda lettura, da alcuni libri, da alcune risposte, da alcune scelte teatrali, umanistico-sensoriali, da alcune non-scelte televisive, che da Bergonzoni trasudano una certa attenzione e una certa anarchia. Poi, forse, quando ho aperto un po’ più la porta, si è definito lo spiraglio di una partecipazione socio-politica evidente: a cominciare dal fatto che per il mio romanzo Il grande Fermo e i suoi piccoli Andirivieni abbia deciso di abbandonare una casa editrice come la Mondadori, e che insomma io prediliga la non-squadra. Penso che queste scelte abbiano fatto capire a chi abbinava la satira alla sinistra e la non satira alla destra o al qualunquismo, che esistono colli che dividono teste e cervelli apparentemente diversi, ma che alla fine fanno un metabolismo completamente uguale.

Qual è il tuo rapporto con il linguaggio? In questi anni ti sei confrontato con l’evoluzione dell’italiano?

Come "curatore" della lingua non valgo molto. Può sembrare una cosa strana, ma non voglio, non amo, non prediligo seguire l’iter e il percorso né interessarmi del curriculum della parola e del linguaggio italiani. Il politichese, il giovanilese, lo slanghese non mi interessano, perché io amo la lingua in quanto rapporto con la costruzione dell’impossibile. Quando si parla in politichese, scompare l’impossibile e appare il possibile, cioè il rapporto con chi ha il potere; e quando si parla di sportività e sportivismo con chi fa sport, lì ci sarebbe bisogno di ironia, e io l’ironia non la prediligo, anzi non la adoro, anzi la odio. Insomma, l’attenzione sul linguaggio non mi ha portato a nulla, anche perché ho notato che uno slang rimanda all’altro e torna indietro: il linguaggio è un boomerang. A questo punto, mi affascina meno la ricerca di vedere dove va il ragazzo degli anni Novanta con la sua parlata e come si definisce l’identità sessuale maschile-femminile, il denaro, il vino oppure la copulata. Non mi interessano, così come non mi interessa sapere il linguaggio della strada in sé e per sé. I linguaggi della pubblicità e del cinema mi interessano già di più: sto facendo una ricerca che potrà approdare a qualcosa che potrà essere addirittura un mio film sul linguaggio e sul parlare. Così come alcuni lavorano sulle immagini (penso a Koyaanisqatsi), può darsi che Bergonzoni arrivi a fare un Koyaanisqatsi delle parole. Ma, ripeto, in sé e per sé, io sono la persona meno adatta – e voglio che sia un’idiosincrasia evidente – a spiegare dove sta andando l’italiano. Per questo esistono gli Oli o i Devoto, nella loro presenza vitale o meno, ed esistono migliaia di altri dizionari. Ma quando mi chiedono: "Tu il dizionario lo sfogli?", rispondo che le parole e il dizionario siano nella testa. I vocabolari sono oggetti belli da sfogliare, non per cercare le parole ma per andare a vedere la bellezza delle parole scritte, per divertimento. Anzi, consiglio il vocabolario come lettura.

In cosa consiste la recente evoluzione libresca e farsesca di Bergonzoni?

C’è uno strano parallelismo tra libro e spettacolo. Nel differenziare quest’anno come non mai le due cose, devo dire che c’è qualcosa che le accomuna: cambi, novità, svolte, giri di boa. Nel libro c’è il passagio da quello che era al massimo un diario, cioè È già mercoledì e io no, quindi una microstoria o addirittura una bombardata metereologica di sensazioni, a un romanzo con una sua struttura narrativa come Il grande fermo e i suoi piccoli andirivieni. Nello spettacolo la novità è il fattore sceneggiaturiale: piuttosto che il monologatore, ho voluto fare l’inquadratore quasi cinematografico; lo spettatore percorre il fuori, il dentro, il sopra, il sotto, ricordando il frattempo. Come quando al cinema vedi una scena con il personaggio che mangia in una casa, e poi lo vedi che cammina per la strada. Questa è la ricerca che io e il regista Claudio Calabrò abbiamo voluto fare quest’anno. L’adesso qui e il contemporaneamente là. La cucina del frattempo è appunto uno spettacolo cucinico, dove cinismo e surrealtà sono sempre a chili, dove il gioco di parole è abbastanza vicino a quello degli spettacoli precedenti (mentre nel romanzo siamo molto lontani). Il finale dello spettacolo è a pregiudizio universale: il protagonista vola, va in alto e vede cose che esistono e non esistono. Qualcuno può leggerlo come un salvatore o un prediletto: non è esattamente così, non è un privilegiato, è semplicemente Mattia Bresson di Anghingò (anche se questa non è assolutamente la seconda puntata) che entra in questa realtà: una realtà che va dal microcosmo (cucina) al resto del mondo (un cataclisma totale). E c’è un filo rosso che porta lo spettatore dall’inizio alla fine, lungo qualcosa di capibile. Anche il segnale finale è capibile, ma solo fino a un certo punto. Il tutto naturalmente in maniera bergonzoniana: alla fine, comunque, lo spettatore ha quel pugno di mosche. Perché in fondo – diciamolo – il mio messaggio sono le mosche.

Nel tuo spettacolo c’è anche – in chiave surreale ed esilarante – la più feroce satira della televisione di questi anni..

Non l’ho fatto apposta! Come dice Roberto Roversi, io divento sociale e politico a mia insaputa. Finché non me lo dimostrano, non ci credo.

Che cosa si aspetta un personaggio come Alessandro Bergonzoni da un giornale come "il manifesto"?

Di non essere catalogato ma di essere inquadrato. Voglio dire inquadrato, filmato, per poi vedere le foto che vengono fuori. Mentre essere messo dentro una scansia senza vedere com’è venuta la foto, è la cosa mi dispiacerebbe di più. Poi mi aspetto quello che s’è sempre aspettato ogni lettore del "manifesto", e che sarebbe bene che altri lettori di altri giornali si aspettassero: una certa violenza, una certa prepotenza ma una certa sanità. E "il manifesto" è sano.
 


La Milano di Bergonzoni:
Mediterranea Metropolitanea
 

Alessandro Bergonzoni si è trasferito a Milano. Almeno fino al 15 febbraio, finché al Teatro Ciak si replica il suo nuovo lavoro, Zius. Torrenziale affabulatore, virtuoso della parola, dalle sue vette ai suoi abissi, reinventa a ripetizione mondi impossibili per circuire e proiettare i suoi spettatori in un mare di risate. Ma non ci sono solo le battute e i giochi di parole. Bergonzoni pratica con grande rigore la vertigine dell’allucinazione e la perdita d’identità. Destabilizza le percezioni, accelera i luoghi comuni fino a farli scoppiare, permette di incontrare – per un attimo – una realtà diversa.

Anche Milano, quando ci arriva, viene attraversata e vissuta con questo sguardo e questo atteggiamento. "Milano", dice Bergonzoni, "la metto a mia disposizione. E da questo punto di vista si lascia fare, si lascia plasmare. Mentre altre città ti si impongono, così come sono". Viaggiatore curioso e divagante, urbanista radicale e residente inquieto, Bergonzoni si ritaglia una città su misura, naturalmente senza usare nessuna guida.

Odio le guide delle città. Perché bisogna visitare le città con la guida? Una città non deve avere degli obblighi. Una guida ti impone degli obblighi, ti dice: "Mi raccomando, vai a vedere quello"". Io "Mi raccomando" non lo voglio proprio sentire, devo appoggiarmi un po’ più a lenzuolo sulla città, e la città prende le sue forme a seconda di dove metto quel lenzuolo. Al limite, mi piace anche sputtanarmi quattro o cinque ristoranti schifosi, e poi al quinto guardare la guida. Ma al quinto tentativo, non prima. Mi piace il caso, il fiuto. Mi piace andare a Brera perché l’ho spesso confusa con il giornalista sportivo. Odio il Castello Sforzesco: girarci attorno è una delle opere di Escher più riuscite, non sai mai da che parte sei. Perdersi è bello, ma quando ho fretta è drammatico.

E il traffico milanese?

Non mi piace: è grigio, caotico. I parcheggi sono tutti assodati, non c’è inventiva: a Milano, anche quando parcheggiano sul marciapiede, parcheggiano bene. Se devi fare una roba brutta, devi farla brutta. E poi arrivare a Milano è un vero mestiere. Non perché sia lontano, se non ci sono incidenti autostradali o tempacci ormai Milano-Bologna è un viaggio breve. Ma entrare a Milano è un mestiere. Da che parte? A che ora? Studiamo le cartine, gli accorciamenti, o anche i divertenti allungamenti, per andare a vedere, per controllare, per scoprire.

Qual è la prima cosa che cambieresti in città?

La prima cosa è il piastrellamento della calotta del cielo. Anche se in questo inizio d’anno per la prima volta ho trovato una Milano che non avevo mai visto, con dei soli bellissimi, dei tramonti da imbarazzo, che assomiglia da morire a una città del sud. Ma pensando alla Milano che conosco da sempre, farei un discorso sulla luce.

E tu come lo piastrellesti, il cielo di Milano?

Con colori più chiari. Milano mi manca il concetto del chiaro, mi manca il bianco. La grecizzerei un po’ di più, e la renderei un po’ più mediterranea. Anche se mi piace molto questo suo essere non mediterranea ma metropolitanea, il fatto che sta abbastanza sulle sue. Milano ha qualcosa di suo sulle sue: orari, ritmi, traffico, uffici... Dall’esterno (perché anche se io ci resto un mese non riesco a avere i piedi per terra, sono sempre un po’ a due o tre centimetri o leggermente spostato) il discorso è legato al ritmo. Un ritmo che mi diverte vedere ma non so se vorrei andarci dentro, perché in questa città non riesco ancora a capire se mi piacerebbe vedere i bambini andare all’asilo o andarli a prendere, non so se mi piacerebbe andar fuori la domenica a mangiare. A Milano mi piace anche vedere gli impegnati: è una città costantemente impegnata, che ha pochissimi tempi morti. E allora mi diverte vederla, un po’ come si va nella sala di un museo. Ecco, mi piace essere costantemente nella hall di Milano, nell’ingresso: come chi arriva e sta per entrare nella stanza, come chi sta nella sala d’attesa. E mentre aspetto entro in quella stanza lì, in quella stanza là.

In quali stanze ti piacerebbe entrare?

Non so se sono controcorrente o con la corrente, ma mi piacerebbe sviscerare il mondo della moda, andare a vedere questo sacchetto che non ho ancora aperto. Così come a Napoli ho aperto il sacchetto del mare e delle spiagge, e appena sono là vado a fare quel gioco. Oltretutto io amo molto tutto ciò che è tessuto e colore, mi affascina e mi diverte da un punto di vista tattile, non per il tipo di lavoro, che credo sia standardizzatissimo. Esiste il supermercato della moda, come il supermercato della pastasciutta o degli oggetti per i cani eccetera.

Girando per la città, dove ti fermi?

Mi stupidizzo su certi caffè che mi piacciono per la forma, per i tavolini. Mi sciocchizzo su certe zone dal punto di vista domenicale, per vedere le famigliole che vanno ai giardini, o i fiorai aperti, o fruttaroli impazziti che cercano di avanzare o indietreggiare la stagione. Mi trastullo a vedere queste protuberanze della città. Sniffo giornali, nelle edicole di notte e in quelle di giorno. Ho voglia di andare a pattinare, di agghiacciarmi al palazzo del ghiaccio, sono quattro anni che ci provo, mi sono anche portato i pattini… E poi c’è lo shoppinghismo. Mi piace venire a Milano anche per sniffare le vetrine. Sono proprio un maniaco dell’oggetto, della scarpa, dell’arredamento. Un tavolo, un particolare pavimento, un certo design.

Per comprare?

Io compro un po’ con gli occhi, così come ci sono i mangiatori con gli occhi. Sono di quelli che dicono: "Be’, stamattina mi sono fatto già quattro o cinque vetrine e mi sento pieno". In realtà sono un tremendo compratore, mi piace dire "Prendere o comprare" perché è importante agire, essere attivo. Ora però mi ha preso la follia di stare dentro un negozio per mezz’ora, quaranta minuti a girare, girare, girare, senza aver niente da comprare.

E quello che vedi in giro entra anche nei tuoi spettacoli?

No, ma entra nel mio diario mattutino e in quello serale. Tengo una specie di dispositivo mentale in cui vedo tutte le diapositive della giornata. Decido cosa rivedere e magari cosa comprare. Perché io sono un indeciso a livello patologico, capace di provare nove cappelli (anche i miei, se ne ho nove) e uscire con tutti e nove pur di non aver deciso. Ma non è che io inserisca poi le cose che vedo nei miei libri, nei miei spettacoli, negli articoli. Mi arriva però il loro alone, la gioia o la tristezza o l’angoscia.

Altre attività milanesi?

Ascolto molta radio e guardo molta tv. Anche se poi appaiono troppo, mi piacerebbero più celate. Poi Milano mi ispira di andare al cinema, vedere magari tre film uno attaccato all’altro.

Perché c’è più offerta che altrove?

Il cinema a Milano mi dà più l’idea di una cosa da studiare. A Bologna resta un passatempo, anche se poi magari ci sono gli stessi film… Milano mi fa leggere, cosa che faccio molto meno a Bologna. E mi ha preso un altro trip brutale: quello degli alberghi. Vado a vedere dove potrei andare, perché ha quattro stelle. Da un sacco di tempo sto cercando un albergo col camino… Il mio socio, regista e amministratore della società spera che io non lo trovi, perché manderei in fumo tutto quello che magari guadagno…

C’è un momento di riposo?

Il teatro. Quando ci arrivo, alle nove, comincia il mio nirvana di gradevolezza, dove non suonano telefoni, non ho pubbliche relazioni, e sono semplicemente io nel mio piacere di fare quest’ora e mezza di lavoro.

C’è qualcosa che ti angoscia?

Sì, ma mi capita un po’ in tutte le città. Mi angosciano le scuole. Quando vedo una scuola ho voglia di andare a prendere qualcuno. Ma qui non ho nessuno da prendere… Sto lì davanti e mi intristisco, e poi penso: "Dopo la scuola, dove vanno questi studenti, questi bambini? Vanno a casa? Che merende fanno?". È un viaggione che mi occupa del tempo.

Che cosa cancelleresti?

Come vestono i milanesi. Quelli da festa, da serata. Il milanese da festa è lavorato, cesellato, immanichito. E poi, come portano gli orologi a Milano…

E come li portano?

Come per dire: "Hai visto l’orologio?". Non: "Quando ti capita guarda l’orologio". A Milano toglierei anche il ristorante a tutti i costi, la panineria, la barreteria.

Con cosa li sostituiresti?

Con delle spiagge, della sabbia. Come quei giardini giapponesi, quelli sistemati con il rastrellino. Farei un po’ più di questi giardini. Poi sono inorridito dai pony e dai portapizza. Mi mettono angoscia. Sono estremamente veloci e portano tutto senza sapere che cosa c’è dentro. Mi piacerebbe che un pony si fermasse a metà e cominciasse a scartabellare la roba che porta per scegliere un po’ cosa consegnare e cosa no. Non è possibile portare tutto dappertutto. Mi piacerebbe che qualcuno dicesse: "Abbiamo guardato dentro, e questa cosa qua non merita di arrivare". Un po’ di selezione…

Ci sono cose che vorresti portare in città?

Qui il problema è grave. Ci porterei tutto. Vorrei andare al lago, ma è lontano. Vorrei avere qui un po’ di neve, ma c’è troppa strada. Accorcerei queste distanze. Siccome Milano può avere tutto, che allunghi un po’ di questa roba.

In questa tua Milano ci sono poche persone.

In questo momento ho un gran desiderio di non contattare. Quando lavoro è tutta comunicativa – non dico comunicazione perché è brutto. A Milano preferisco attendere, anche per la fortuna di non essere così popolare e riconoscibile. E non mi interessa scoprire la radice della città. Milano non mi ispira la ricerca della radice. Non mi ispira nella città dove sono nato, figurati a Milano…

E se tu fossi il sindaco, quali sono le prime cose che faresti?

Abolirei il concetto di sindaco. Il problema è l’identità della città. Quello che mi terrorizza delle amministrazioni comunali è il loro problema di ridare identità alla città, e dunque dare la propria identità alla città: "Noi abbiamo fatto questo, noi abbiamo fatto quello…". Ma è già assurdo certe volte dare identità alla propria persona… E cercare di dare la propria identità a una città, quando si sa che comunque è un coagulo di mille identità, mi sembra una forzatura. Come quando si dice: "L’italiano fa questo, il francese fa quello", "Il film americano è bello, il film italiano è brutto". Quindi chiederei a un sindaco una cosa impossibile: spersonalizzare sé dalla città e la città da sé. Ma sarebbe forse come chiedere a me di smettere di fare i miei testi, di aprire un giornale a caso e recitare quello.


 
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