<% Dim intGiorni Response.Expires = (60 * 2) %> "Guerra" di Pippo Delbono in Palestina e Israele

Dal 2 al 7 gennaio 2003 la Compagnia Pippo Delbono sarà in Palestina e in Israele, dove presenterà alcune repliche di Guerra.
ateatro cercherà di tenervi informati giorno per giorno su questa interessante tournée.


Teatro al check point
Dal Diario di Pippo Delbono

Ramallah, 3 gennaio 2003

Ci sono delle immagini, delle situazioni, che sono passate così veloci, così illogiche, contraddittorie, in questo viaggio che forse non le ho ancora capite, assorbite e allora è meglio raccontarle così come sono. La partenza a Milano Malpensa. Mr. Nelson, l’attore ex-barbone della mia compagnia, circondato dalle sue paure, dalle sue voci, ha deciso di non venire, di non salire sull’aereo ed è tornato a casa. “Voi siete matti”, ci ha detto. Non sono venuto in Palestina con delle idee chiare, con delle posizioni. Solamente - e così tutti i miei compagni di viaggio - per stare vicino a un luogo di conflitto, più vicino a un dolore, per capire se oltre a quelle immagini che vediamo sempre in televisione, di disastro, di rovina, c’è anche qualcos’altro.
Io ero già stato a Gerusalemme qualche anno fa. È una città bellissima. Il Muro del Pianto, la Via dolorosa, la Moschea Al-Aqsa. Luoghi di grande preghiera, di grande silenzio.
Andiamo a Betlemme a vedere il teatro. Non sappiamo ancora se sarà possibile andare in scena, perché c’è il coprifuoco. Lo mettono e poi lo tolgono e poi lo rimettono di nuovo. Entriamo in un bar con un taxista palestinese che ci ha presi al check point, perché non è possibile entrare con la nostra macchina con targa israeliana. E lui ci ha detto: “Sono sette anni che non posso più andare a Gerusalemme. E sono solo dieci chilometri. Qui, nel luogo dove è nato Gesù, ci hanno tolto il cibo, il lavoro, la tranquillità. Non abbiamo più niente. Non sappiamo del futuro? Ci sarà un futuro? Finirà questo dolore? Possiamo solo stare nelle nostre case. Chiusi. Ma anche quelle non sono più nostre. Da un momento all’altro possono entrare e prendercele”.
Al ritorno abbiamo passato il check point a piedi, nel buio, in una stretta stradina delimitata dal filo spinato. Chissà perché, in quel momento mi è venuta in mente una stradina a strapiombo sul mare, in Liguria, che si chiama la via dell’amore. E Lucia, un’attrice della mia compagnia, mi ha detto: “Pippo, mi porti sempre in dei posti così romantici”.
E poi, il giorno dopo, il bagno nel Mar Morto con tutto il gruppo. Il mare dove sempre si galleggia. Bobò, il piccolo della mia compagnia, che ogni volta che si mette un vestito nuovo diventa quel vestito - il barbone di Beckett, il mafioso di Silenzio, il grande dittatore di Esodo - ora, con la kefia in testa, è diventato Arafat. Il girotondo nell’acqua. Tutti noi coperti di fango nero. Gianluca, il nostro attore bambino down, come un palombaro. È l’ultimo giorno dell’anno. In quel momento, in Palestina, siamo in un luogo di grande pace. E poi il deserto vicino a Masada, la città arroccata sulla roccia, che fu assediata a lungo dai romani, dove diecimila persone si uccisero piuttosto che arrendersi.
Primo giorno dell’anno. Abbiamo in programma un incontro nel campo profughi di Dehisce, dove i bambini fanno teatro. Ci aspettano alle undici. Il check point tra Gerusalemme e Betlemme è bloccato. Prendiamo la strada riservata agli abitanti degli insediamenti israeliani. In cima alla collina ci fanno scendere dall’autobus e camminare a piedi, poi risalire, perché la zona è stata dichiarata militarizzata. Non si può neppure sostare con l’autobus. Continuiamo per un po’ e poi di nuovo a piedi in mezzo a bambini stupiti, che sfidano il coprifuoco per guardare questa strana compagnia. Poche case isolate in mezzo al nulla. Io guardo Bobò, che con la sua maglietta da calcio azzurra con scritto Maradona, cammina gridando ogni volta che vede una pecora. Come una festa. Forse per lui essere in Palestina o in un’altra terra è la stessa cosa. Sempre Bobò, in qualsiasi parte del modo, quando vede una pecora, grida. I suoi versi gutturali, incomprensibili, sono pieni di musica. Armando con le stampelle cerca a fatica di farsi strada tra il fango e le pietre. La sua rabbia abituale è svanita. Camminiamo in silenzio, come una strana carovana di pellegrini.
Per un’ora siamo rimasti ad aspettare, nascosti in mezzo alle colline, che qualche taxista palestinese venisse a raccoglierci. Finalmente due autobus sgangheratissimi appaiono e tutti montiamo schiacciati uno addosso all’altro. A mezzogiorno arriviamo a Dehishe. I bambini ci aspettano. Finalmente ci sentiamo al sicuro. Ci dicono che proprio in quel momento il coprifuoco è finito. Molti bambini sono già vestiti con i costumi, pronti per lo spettacolo. Anche noi, dopo, dobbiamo fare qualche cosa, ma non abbiamo con noi nessun oggetto teatrale. Era troppo difficile portarli.
E poi i bambini iniziano a danzare insieme, come una festa. I loro movimenti sono precisi, armonici, rituali. Dai loro occhi traspare una verità, una gioia. E poi tutti si fermano. Una bambina con la bandiera verde, rossa, bianca e nera, cammina lentamente verso il centro della scena. Tutto si ferma. Diventa un canto. E così io, recuperati qua e là pochi oggetti di scena - un paio di occhiali neri, due vecchie giacche, un po’ di gel - mi metto a parlare del nostro teatro, della vita in Italia, apparentemente più facile, ma dove l’arte perde necessità. Il nostro essere più seduti, tranquilli e in un certo senso morti. E così faccio un pezzo di Tempo degli assassini, gridando “Carissimo Pinocchio, amico dei giorni più lieti…”. E poi con gli occhiali neri, Pepe e io diventiamo i Blues Brothers. I bambini ci guardano attenti e divertiti.
E così ho parlato della mia compagnia, di Bobò, dei suoi cinquant’anni di manicomio, della sua vita cambiata con il teatro, del suo passaporto che oggi è pieno di timbri di tutti i paesi. E con lui faccio un pezzo da Aspettando Godot. E così, in quel momento, siamo lì, io e Bobò come due barboni, Beckett e la voce di Pepe, la vita di questi bambini, il teatro, la possibilità della fuga. E poi, con le parole di Pasolini ci siamo salutati: “Sui miei stracci sporchi, sulla mia nudità scheletrita… sui nomadi del deserto, su tutti i popoli schiavi del mondo, scrivo il tuo nome, libertà”.
Ma non era finita per loro. Volevano sapere di più, chiedere chi eravamo, perché facevamo teatro, perché quel teatro. E io mi sono trovato, quasi senza volerlo, a parlare del teatro come forza e fragilità. A dire che dove c’è solo forza si diventa poliziotti, politici e soldati. Che solo dove c’è fragilità c’è arte. E a parlare con loro, bambini giovani, del regista polacco Kantor, del suo fare teatro nella Polonia ferita. “Il teatro,” dico, citando Kantor, “nasce là dove c’è la necessità di abbattere un muro”. E poi parlo del teatro della crudeltà di Artaud, come cercare un gesto di libertà nella costrizione. Dico di Armando, il mio attore poliomielitico che cammina con le stampelle, della libertà racchiusa in un semplice gesto, alzare le braccia nel volo.
Mi è successo altre volte di parlare di teatro con i bambini, in Italia e in altri paesi d’Europa, e mi sono sempre sforzato di trovare un linguaggio che potessero comprendere, adatto alla loro età. Qui no. C’era nei loro occhi e nelle loro parole un assoluto bisogno di verità. Alla fine una bambina ha detto: “Noi non sappiamo cosa vuol dire libertà, non l’abbiamo mai saputo. Eppure cerchiamo di trovare un modo di ridere e di affrontare la vita. E per questo vi ringraziamo, perché siete venuti fino qui, a portarci la vostra arte. La miseria è qui e ci siamo in mezzo, ma vogliamo vivere. Piccoli e grandi nel disastro continuiamo a pensare che la vita è bellissima”.
Il giorno dopo, a Betlemme, iniziamo la nostra tournée in Palestina con lo spettacolo Guerra. A Betlemme c’è il coprifuoco. Noi abbiamo deciso di andare in scena comunque, anche di fronte a una platea vuota. Aspettiamo e a poco a poco il teatro si affolla di persone che aspettano insieme a noi. Lo spettacolo comincia. ("Liberazione", 7 gennaio 2003)


E' andato tutto benissimo
8 gennaio 2003
Un mail e due foto da Maria Nadotti

E' andato tutto benissimo. Pippo&Co sono rientrati ieri. Io arrivo il 12.
Grazie dell'aiuto che ci hai dato e a rivederci presto a Milano, quando la compagnia sarà all'Elfo per Gente di plastica. Sarebbe bello raccontarci tutti insieme.
Qui sotto un paio di foto di scena dal teatro Al-Midan di Haifa (6 gen. 2003).
 

 

 


Guerra debutta a Betlemme
2 gennaio 2003
Un mail e due foto da Maria Nadotti

Ieri, 1 gennaio, splendido workshop nel campo profughi di Dehisce.
Oggi primo spettacolo a Bethlehem, sotto coprifuoco. Eppure il pubblico c'era e si è divertito e commosso.
Alla fine una donna palestinese mi ha avvicinata e mi detto di ringraziare di cuore la compagnia, perché durante lo spettacolo aveva riso ed erano "cinque anni che non lo faceva".
Domani siamo a Ramallah, al mattino con uno workshop con gli studenti di Birzeit e alla sera con lo spettacolo al Teatro Al-Kasaba.
 

 
L'ingresso allo spazio dove abbiamo fatto Guerra a Bethlehem il 2 gennaio.
 

 
Una curiosità locale: Pippo Delbono e Franco Quadri a Bethlehem.
 



 
Domenica 29 dicembre, la troupe della (h) films all'aeroporto di Tel Aviv in attesa di Compagnia Pippo Delbono, felicemente sbarcata la gran completo e ora serena a letto al Knights' Palace Hotel di Gerusalemme.
 

Una sfida di pace
dall'intervista di Cristina Piccino a Pippo Delbono,
"il manifesto", 29 dicembre 2002

Guerra in Palestina e Israele, una dimensione intima del conflitto in un'altra che è concreta e quotidiana. Sei preoccupato?
Sono già stato in Israele e in Palestina tre anni fa, sognavo di poterci tornare con uno spettacolo. É buffo, perché mi è accaduto altre volte che il sogno diventasse poi vero... Quando arrivi in un posto da turista sei visto come tale, ci sono delle barriere tra te e le altre persone mentre il teatro è un luogo di fragilità e di verità, dove si portano quei racconti che nascono dall'insicurezza sul mondo e su di noi, e per questo apre molte porte. Cioè nonostante il rito teatrale non ci sono maschere, è vero, puoi nasconderti dietro ai personaggi ma in loro c'è comunque qualcosa che ti riguarda. E in questa fragilità diventa possibile l'incontro. Ricordo che una volta in Marocco, ero molto giovane, volevo comperare un portafogli al mercato e per provarlo lo avevo messo in tasca. Poi mi sono detto: «Ecco se lo tiro fuori pensano che volevo rubarlo» e così sono scappato. Mi hanno inseguito per la casbah e mi hanno preso. Erano fuiriosi, mi minacciavano, volevano chiamare la polizia, farmi arrestare... Avevo una tale paura che quella mia fragilità ha trasformato la situazione. Il giorno dopo sono tornato e mi hanno regalato un mucchio di cose... In fondo è stato un momento di teatro.
L'incontro insomma. É da qui che comincia questo viaggio?
In qualche modo è lo spettacolo che mette a contatto persone molto diverse che a loro volta hanno un rapporto con altri diversi ancora e ogni volta, cioè il pubblico, e per me è già un elemento di sincerità. Anche per questo preferivo fare Guerra dove si sfiora il tema del rapporto tra due mondi, come possono essere Israele e Palestina, senza avere la pretesa di farlo. E dove ci sono anche molti riferimenti a un'altra guerra che è quella dell'ambiente, che è fuoco-cielo-terra, che sono i fenomeni naturali di un mondo in cui si è perduto il rispetto per la natura, che significa sfruttamento e miseria per tanti paesi e che stiamo pagando ... É il salotto di quella famiglia per bene dove comincia un po' tutto... C'è un altra cosa importante, almeno per me in questo spettacolo, il fatto che rappresenti una forma teatrale costruita senza nulla. Quando arrivi in certi paesi, ci è capitato a Cuba o in Perù, soltanto con qualche valigia sono sconvolti. Si aspettano che il teatro europeo sia per definizione ricco, e invece noi cerchiamo poltrone e oggetti là dove siamo arrivati.
Nel frattempo hai deciso di girare anche un documentario. Stai già pensando a cosa vuoi cercare con le immagini?
Mi piacerebbe entrare negli occhi della gente, palestinesi e israeliani, «vedere» come si guardano tra loro, come guardano il compagno di fila e come guardano una «guerra» che si svolge altrove... Diciamo che il senso dello spettacolo sarà il filo guida mescolando situazioni dentro e fuori, un po' come accade in scena ad esempio quando gli attori arrivano vestiti da clown e si abbracciano mentre si sentono le parole di Marcos... Ecco penso alla vicinanza dei corpi nello spettacolo, è ancora una volta la dimensione di un incontro che può avvenire anche nel conflitto... Mi vengono spesso in mente dei bambini che avevo visto nell'altro viaggio: giocavano con le tavole di legno e si facevano scivolare sulle gradinate. Non so cosa significa oggi per me questa immagine ma in quel gioco c'erano forza, violenza e una enorme sensazione del rischio. Insomma quanto esprime per me il teatro quando ti permette di stare in mezzo alla gente. Di certo so che non mi interessa fare interviste alle personalità o cose simili come spesso si vede nei documentari, cerco piuttosto la relazione, il rapporto, cosa significherà per noi e per chi incontreremo questo scambio, questa esperienza. Pensando sempre al vissuto sul palcoscenico, a querta nostra compagnia in cui come dicevo convivono linguaggi e personalità tanto diverse.
Che poi è anche un modo per capovolgere la rappresentazione mediatica dominante.
Di questi paesi ci rimandano solo immagini di grande tristezza. É chiaro, si vive una condizione orribile, le città sono state devastate, c'è la guerra però non esiste solo questo aspetto. Lavorando in questi giorni al progetto ho visto che c'è molta attesa per il nostro arrivo ma anche molto fermento culturale. Accadono delle cose e questo è importante, mentre in tv ci fanno vedere queste persone soltanto come dei disperati senza nulla. Ho conosciuto dei ragazzi che fanno teatro di strada con i bambini, è un modo per aiutarli a scaricare la violenza, nelle università ci hanno fissato molti incontri con gli studenti... Non mi piace mai avere delle aspettative ma da questi contatti ho avuto l'impressione che ci sia molta vitalità nonostante la guerra mentre qui in occidente sento spesso un grande senso di morte.
Lo spettacolo sarà tradotto?
Sì, era impossibile per noi recitare in un'altra lingua. Distribuiremo in sala la versione in inglese e in ebraico mentre quella araba sarà recitata «fuori campo» da un attore palestinese che abbiamo conosciuto in Francia. Mi sembra che funzioni perché l'arabo è una lingua molto bella, piena di musicalità, che interpreta un po' come il canto dove il rapporto con i personaggi non è mai psicologico, non c'è qualcuno che vuole farti credere di essere davvero un altro. É un linguaggio che supera le differenze culturali.
 



 
Giovedì 26 dicembre, Akram Telawe all'entrata del teatro Al Kasaba di Ramallah con il poster di Guerra.
Pippo e la compagnia arrivano domenica 29. Qui è tutto pronto per accoglierli.

 

26 dicembre 2002

Il comunicato della conferenza stampa
 

WAR / Guerra

by Pippo Delbono

translated by Akram Telawe

with
Gianluca Ballaré
, Giovanni Briano (Mr. Puma), Vincenzo Cannavacciuolo (Bobò), Margherita Clemente, Piero Corso, Armando Cozzuto, Pippo Delbono, Lucia Della Ferrera,Fausto Ferraiuolo, Gustavo Giacosa, Simone Goggiano, Elena Guerrini, Mario Intruglio, Nelson Lariccia, Tomaso Olivari, Pepe Robledo

and the participation of Akram Telawe


lights Fabio Berselli
sound Pepe Robledo
original music Fausto Ferraiuolo

directed by Pippo Delbono

production Compagnia Pippo Delbono, Emilia Romagna Teatro Fondazione

international organiser and executive producer Maria Nadotti
local co-ordinators Marina Barham and Alfredo Tradardi
tour manager Annalisa Rossini
company assistant Viola Brusco
representative Emilia Romagna Teatro Pietro Valenti


the tour is sponsored by
Regione Toscana - Porto Franco
Regione Emilia Romagna
(h) films - Milano
Associazione Amici di Paola Biocca - Roma
byke productions - Firenze
AgidiA. srl - Modena
FFAGE - Austin, Texas
Emerezian Est. - Jerusalem


PIPPO DELBONO COMPANY
TOUR TO PALESTINE AND ISRAEL
December 29, 2002 - January 7, 2003

The Company is presenting War (Guerra)
according to the following calendar:

DATA
 
LUOGO
 
ORA
 
January 2nd
 
Catholic Action Club
Bethlehem
 
1st representation
5.00 pm
 
January 3rd
 
Al Kasaba Theatre
Ramallah
 
2nd representation
7.00 pm
 
January 4th
 
Palestinian National Theatre
Jerusalem
 
3rd representation
7.00 pm
 
January 5th
 
Almidan Theatre
Nazareth
 
4th representation
8.00 pm
 
January 6th
 
Almidan Theatre
Haifa
 
5th representation
8.0 pm
 


WAR / Guerra

War is the urgent need to represent life that is born from marginality, from disease, from suffering and from diversity, which are here shouted, danced and played.
Delbono collects many different stories: his War is a wandering booth of people who come from the ‘abnormality’ world, from madness, from the world of handicap, and they gather in the magical world of Theatre.
Like many Odysseus, all characters on stage lose themselves in the attempt to find the centre of their existence, they lose themselves in love and fear: they are men and women at war.
In the sometimes furious words of Delbono " a mesmerising, shocking concert of voices " one feels that the essence of life is evoked and celebrated.

A theatre between art and life

We started 15 years ago with a performance called Il tempo degli assassini (The Time of Murderers), which can be seen as a journey towards a theatre more and more reduced to bare essentials, primary, near to life. We drew on our experience of various encounters with people whose relationship with art is not a ‘professional’ one. People who use it simply to survive. Artistic expression for these people is not just a job, not just a routine, but a vital part of daily living. Bobò, for example, the deaf-mute whom I came across during the workshop conducted in the Aversa mental hospital, has this quality, this unique poetry precisely because it's the only way he can communicate with others. That's why I wanted to bring together the previous members of the company, people who had already been with us for some time, and those who rely on art as their only reason for being, their only way to live, to create an identity for themselves. What I wanted was to forge links, create poetry, by getting them to work on their common experiences and share them with us.
I'm not really interested in theatre which aims at satisfying myself or a limited circle of people, who have the same mind-set as me and recognise the same cultural references (...). The kind of theatre I have in mind is theatre of the people, totally of the people, but not facile theatre - in fact quite the opposite: it means going honestly into things that are complex, because that's what life is like - complex.
In my shows words are very important, but they are not the whole story. I believe, as Artaud says, that theatre is like the plague: it has to grab you by the eyes, the nose, the mouth, all the senses, and by the heart.
Poetry gives me a chance to leave things undefined, to create a void in the action by the use of handicap. There is an art that springs from loss, disability, imbalance. And it wounds. (Pippo Delbono)