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Il nuovo teatro italiano 1975-1988
La ricerca dei gruppi: materiali e documenti
di Oliviero Ponte di Pino
La casa Usher, Firenze, 1988
© copyright Oliviero Ponte di Pino, 1999

Parte 1
Introduzione

L’angoscia e l’estasi
La parabola dei gruppi
 

Intorno alla metà degli anni Settanta, una nuova generazione si affaccia sulle scene italiane: inizia così un percorso inedito, dentro e fuori dai teatri, che attraversa e reinventa insieme la scena e la città. Si tratta di un viaggio eccentrico rispetto al teatro "ufficiale", che trova i suoi primi punti di riferimento - oltre che nelle avanguardie, teatrali e non - nel cinema, nelle arti visive, nella musica, nella nuova danza, nella televisione ("Siamo la prima generazione cresciuta con la televisione", è un ritornello spesso ribadito), ma anche nei fumetti e nei fotoromanzi, e poi nel rock e nel jazz, nell’antropologia o nella letteratura.

Attraverso queste traiettorie eccentriche si disegna un viaggio alla scoperta del teatro: o meglio, una moltitudine di percorsi che reinventano via via altrettanti teatri possibili. Non si tratta tanto di rinnovare il linguaggio teatrale "dall’interno", quanto di aggredirne i margini, ridefinirne il senso e la funzione muovendosi sui suoi limiti, misurandosi con i segni e il panorama della contemporaneità, con le sue suggestioni e contraddizioni.

Certamente, non tutto il "nuovo" che nasce in quegli anni viene dai gruppi. E, con la stessa ovvietà, non tutti i gruppi operano con la stessa profondità e intensità. Ma il loro lavoro offre, per due ordini di motivi, un innegabile interesse. Da una parte, per i risultati "estetici" in cui si condensa una pratica di lavoro che presenta alcune caratteristiche inedite e comuni (ferma restando l’autonomia dei singoli itinerari). D’altro canto, è curiosa e rilevante la scelta, da parte di numerosi esponenti della stessa fascia generazionale, del teatro come occasione privilegiata d’espressione e del gruppo teatrale come possibile forma d’aggregazione: un’aggregazione che coinvolge anche un pubblico che, in genere, ha caratteristiche anagrafiche e culturali simili.

Se oggi, per molte ragioni, la fase che ha visto i gruppi in un ruolo centrale sembra tramontare, diventa ancora più importante cercare di ripercorrere le tracce di quel percorso, documentarne per quanto possibile l’evoluzione, cercando di identificare alcuni dei motivi che sottendono quell’esperienza. I rischi di semplificazioni arbitrarie sono numerosi, a cominciare dalla riduzione di una infinità di traiettorie personali e spesso divergenti a una rassicurante omogeneità. E quindi, più che di una prematura storicizzazione, si tratta forse di offrire, partendo da un’esperienza recente, alcuni temi di riflessione e di dibattito.
 
 

ALCUNI PUNTI DI RIFERIMENTO

Il panorama teatrale italiano, alla metà degli anni Settanta, non appare monolitico. Il decennio precedente ha già assolto una funzione di aggiornamento e di rottura, con la stagione delle "cantine" romane e l’imporsi di alcune indiscutibili personalità artistiche, con precise visioni d’autore: solo per citare alcuni punti di riferimento, Carmelo Bene, naturalmente, Leo e Perla, Carlo Quartucci, Remondi e Caporossi, Giancarlo Nanni, Memè Perlini, Giuliano Vasilicò, Carlo Cecchi. Molti di loro sono entrati in rapporto con l’istituzione e il mercato, seguendo percorsi assai frastagliati, con risultati diseguali; ma generalmente il teatro pubblico si chiude a riccio di fronte a un’operatività artistica che esula dai suoi schemi, o tenta operazioni di addomesticamento più o meno proponibili e efficaci, mentre il cosiddetto mercato finisce per premiare soltanto Carmelo Bene, forse più per la sua abilità nel costruire il proprio personaggio che per adesioni estetiche. Ma, al di là di questo guado impossibile, resta l’indicazione di tanti possibili teatri diversi, e di altrettante invenzioni di mondi e di sguardi sul mondo. Si innesca così un rapido processo di aggiornamento, necessario e inevitabile per un teatro che sconta un ritardo storico rispetto a altre forme d’espressione.

Dall’interno dell’ambito spettacolare e artistico arrivano altre incisive suggestioni: a cominciare dal radicale interrogarsi sulla necessità del teatro, su cui Jerzy Grotowski sviluppa la propria ricerca; a cominciare, anche, dall’esempio del Living Theatre, con la sua comunità itinerante, libera e liberante, ugualitaria e creativa: il modello ideale e pratico di un’utopia che non è solo artistica e che propone il teatro come scelta e stile di vita. Così come, con modalità e intenti diversi, il gruppo teatrale come possibile modello di microcosmo sociale e culturale sarà una delle chiavi del percorso dell’Odin Teatret di Eugenio Barba.

Ma questi sono anche gli anni in cui Luca Ronconi progetta e imposta il Laboratorio di Prato: l’esperimento viene anticipatamente interrotto, ma sotto più di un aspetto il lavoro dei gruppi finirà per costituire una galassia di piccoli laboratori paralleli.

Da un altro versante, ecco il precedente degli happening e delle performance di artisti che, lungo l’arco di un decennio, hanno praticato la contaminazione tra arte e vita, tra realtà e finzione; ed ecco, insieme, l’attenzione per l’arte come gesto (contrapposta all’arte come rappresentazione) che trova rinnovate sollecitazioni nell’esempio di John Cage e che si rifletterà nella pratica di numerosi artisti e danzatori. Ancora, le opere-rivelazione di Robert Wilson, con il loro implosivo senso del tempo e dello spazio, il vertiginoso gioco di associazioni, la capacità architettonica di comporre i vari livelli dello spettacolo, e quindi la possibilità di ridefinire gli "a priori" della percezione, e ricostruire così i fondamenti stessi di un mondo.

Altre suggestioni arrivano dalla new dance americana che, muovendosi contro ogni pretesa mimetica e rifiutando quindi gli aspetti più banalmente naturalistici, descrittivi e illusionistici, sottolinea il gesto e il movimento come rapporto di pesi, forme e materia, come gioco di forze, spinte e controspinte, come incontro (e scontro) di corpi: la coreografia assume, così, la funzione di scoperta e definizione (e quindi, ancora una volta, di invenzione) del corpo e dello spazio.

Sono queste alcune delle linee su cui si muove inizialmente il lavoro dei gruppi, in una ricerca che tiene, comunque, sempre ben presente la lezione delle avanguardie artistiche del Novecento, che costituiranno un costante punto di riferimento anche negli anni successivi.
 
 

APPROPRIARSI DEL PRESENTE

C’è però un’altra possibilità per attraversare il percorso iniziale dei gruppi. In un paese in cui il tessuto sociale si è profondamente trasformato in pochi anni, si è verificata una vera e propria mutazione antropologica, in un inestricabile intreccio di fughe in avanti e ritorni del rimosso, con convulsioni e lacerazioni spesso tragiche. E forse questa una delle chiavi per capire la scelta di un medium certamente obsoleto come il teatro da parte di numerosi giovani: per questa generazione, affacciatasi alla maturità poco dopo il fatidico Sessantotto, il teatro ha rappresentato anche un tentativo di vivere e interpretare questa mutazione e le sue conseguenze, cercando nel contempo di elaborare una possibilità d’espressione. Scegliendo il teatro come specchio del proprio itinerario, si tratta di operare in uno spazio certamente periferico, marginale: ma proprio per questo in grado di trasformarsi in una sorta di laboratorio aperto in cui reinventare e ricostruire il panorama della contemporaneità, in cui utilizzare e sperimentare le nuove tecnologie e le diverse modalità percettive e comunicative imposte dagli altri media.

La spinta propulsiva sembra quella di una esasperata (e in parte disperata) necessità di affermare e testimoniare la propria esistenza. Ma è anche quella di una onnivora appropriazione della realtà, della possibilità di ricreare un universo rubando e ricomponendo frammenti di realtà. Da questo punto di vista, lo sguardo rischia di farsi acritico, preda di una passione onnivora e divorante per il nuovo: ma è una passione che si distacca sempre sullo sfondo d’un disagio intimo e personale, spesso segnato da un’inquietudine autentica. Perché c’è un paradosso ineliminabile nella scelta di confrontarsi a viso aperto con la modernità (fino a simularne i meccanismi), utilizzando però un mezzo "vecchio" come il teatro; una nota forse patetica nel tentativo di reinventare la complessità, anche tecnologica, con semplicità e povertà di mezzi; un’ambiguità irrisolta nella decisione di riflettere sui meccanismi della società dell’immagine e delle comunicazioni di massa, misurandola sulla concretezza del corpo e nell’ambito spesso elitario in cui si può muovere una giovane compagnia.

In questo paradosso si nasconde una delle anime di una pratica affascinata dal nuovo e insieme sempre pronta a interrogarsi sulle radici e sull’essenza dell’arte scenica: da un lato ecco la complicità, la capacità di farsi coinvolgere dalle nuove forme della realtà; dall’altro, un disagio che può diventare anche rifiuto violento, tentazione alla fuga.
 
 

LE FORME DELLA DIFFERENZA

Gli anni Settanta vedono del resto diverse esperienze e differenze costituirsi come soggettività. Per molti il teatro diventa il luogo deputato in cui far emergere e affermare queste nuove identità: sono le esperienze del teatro gay o femminista, tanto per fare l’esempio più banale.

Al loro esordio, gruppi come il Carrozzone o la Gaia scienza risentono di questa tensione, pur senza riferirsi ad una soggettività Sociologicamente determinata, ma esprimendo in modo se possibile ancora più radicale un approccio "soggettivistico": facendosi carico dell’irriducibilità della differenza, della coscienza di una ineliminabile alterità. La Gaia scienza esplode con il suo vitalismo immediato, la sua gioia di vivere, il gioco libero dei corpi, la tensione

alla trasgressione di cui i rischiosi esercizi contro la legge di gravità diventano il simbolo. Il Carrozzone si fa carico direttamente, nella teorizzazione d’un teatro "analitico-patologico-esistenziale", di una tensione alla marginalità, alla fuga, alla devianza, che resterà una delle costanti del lavoro del gruppo. E così il rifiuto delle convenzioni teatrali (e meglio, l’indifferenza al riguardo) riflette in qualche modo il superamento di una normatività sociale rigida, invadente ma inadeguata.
 
 

LA CULTURA DEL GRUPPO

Eppure, ed è questo un altro paradosso, questa soggettività sceglie di esprimersi attraverso una forma collettiva, rivolta a un pubblico, che in quanto tale è anch’esso collettivo. La creazione di un microcosmo stabile (e a volte piuttosto chiuso su se stesso) intorno a una pratica di lavoro comune costituisce una sorta di "camera di compensazione", una zona franca in cui far convivere e far esplodere queste due spinte contrastanti, in cui misurare l’adesione e il rifiuto.

Il gruppo, per molti aspetti paragonabile più a una banda rock che a una compagnia teatrale (comprese le cooperative a base collettivistica che si sono affermate in quegli anni), nasce dall’intreccio di competenze e interessi diversi, raccolti in un nucleo artistico stabile. Molti componenti dei gruppi hanno spesso una formazione non teatrale; molti, accanto all’attività spettacolare, continuano a misurarsi in altri ambiti: la pittura e le arti visive in genere, la musica, la poesia ecc. Più che di un’indistinguibilità di ruoli, si tratta di assegnare il medesimo valore a tutti questi contributi, rifiutando le gerarchie consolidate. Prima conseguenza di questa ricchezza di interessi è un moltiplicarsi di stimoli e prospettive, di approcci e punti di vista, una capacità di inserire nell’evento spettacolare materiali e procedimenti disparati con competenza e precisione. Inoltre un lavoro di questo tipo, basato sull’intreccio dei diversi apporti, rende più facile la collaborazione con elementi esterni.

La scelta di privilegiare un’entità collettiva ha un’altra significativa conseguenza: l’esigenza di rendersi riconoscibile dall’esterno, che impone la costruzione di un’immagine il più possibile precisa e efficace. Anche perché, ammaestrati dall’esperienza dei loro predecessori, i gruppi eviteranno a lungo di entrare in contatto con la scena "ufficiale", cui si contrappongono programmaticamente e spesso provocatoriamente.

Ecco dunque la continua riflessione sull’idea di teatro di cui si è portatori e sulla capacità di diffonderla (e al limite propagandarla in un avvicendarsi di slogan e etichette); la necessità di definire una poetica, in cui inscrivere un’autonoma progettualità; ecco l’esigenza di costruire occasioni di confronto e dibattito per riflettere e approfondire la propria esperienza. Ma questa ricerca di riconoscibilità passa anche attraverso la definizione di un " marchio di fabbrica", nella progettazione di materiale grafico assai caratterizzato (manifesti, locandine, programmi di sala), nella scelta delle immagini che documentano gli spettacoli (che spesso conduce a rapporti privilegiati con un fotografo che accompagna per anni il lavoro di una compagnia), nella necessità di sconfinare in altri ambiti.

Sono questi alcuni degli elementi (naturalmente sostenuti da notevoli personalità artistiche) che permettono ai gruppi di crescere e sopravvivere, senza chiudersi su se stessi. Tra spinte individualistiche e sbriciolamento dei vincoli sociali, nell’appiattimento delle differenze e dei prodotti destinati al consumo culturale, il gruppo costituisce una forte forma di aggregazione. E contemporaneamente spinge verso l’elaborazione di una propria cultura, di una propria identità.

Una delle possibili direttrici di sviluppo di un organismo di questo tipo si muove verso la dissoluzione delle diversità, verso l’apertura all’esterno; e quindi, oggi, verso l’appiattimento sull’universo dei media. Nella direzione opposta, la chiusura, l’ossessiva ricerca della propria identità (ovvero della propria differenza), portano inevitabilmente a un ripiegamento regressivo, all’elaborazione di una comunicazione a raggio sempre più ristretto. E il fragile equilibrio tra questi due versanti che permette al gruppo di crescere e evolversi, mentre sono i rischi di involuzione che spingono spesso alla reinvenzione e alla ridefinizione del vincolo, e al limite alla sua dissoluzione, quasi seguendo le tappe obbligate di un’evoluzione fisiologica. E un continuo alternarsi di chiusure e aperture che destabilizzano ogni volta il meccanismo nel tentativo di mantenerlo vivo.
 
 

UNA GRAMMATICA DEL PRESENTE

Con il passare degli anni il processo di appropriazione del presente si sviluppa nel tentativo sempre più consapevole di costruire e esprimere una propria cultura. E questo implica innanzitutto il confronto con la cultura effettivamente consumata, e quindi l’abbattimento della barriera tra cultura "alta" e "bassa": ecco quindi l’utilizzo di citazioni e di tecniche narrative riprese, per esempio, dal fumetto o dal cinema, le infatuazioni per la moda ecc. E la necessità di confrontarsi con esperienze significative nell’ambito della quotidianità, che spesso identificano o evidenziano le dinamiche del presente, e permettono di entrare in contatto con un pubblico che vive esperienze simili: tematiche che si concretizzano nella postavanguardia prima, e poi nella "nuova spettacolarità", riflettendo poetiche " metropolitane".

Il punto d’approdo di questo processo mimetico è l’appropriazione di un "linguaggio del presente": non solo e non tanto nell’accumulo di paccottiglia tecnologica e postindustriale e nell’impasto di citazioni massmediologiche - strade che verranno ben presto abbandonate, almeno dai più avvertiti, e che i gruppi più giovani eviteranno in genere di utilizzare. La novità sta piuttosto nella capacità di articolare segni e oggetti, di costruire e raccontare per immagini e sensibilità. Non si tratta certo di un reale potere di elaborazione culturale (né tantomeno politica), anche se non mancherà qualche tentativo in questa direzione, costruito più per imitazione dei processi del business dell’intrattenimento che per reale convinzione. E piuttosto la possibilità di ricostruire un rapporto simbolico con un realtà sfuggente, replicando i meccanismi che la innervano e che vengono per lo più subiti inconsapevolmente, cercando al contrario di interpretarli e comprenderli. E non si tratta di una riflessione puramente intellettuale o ideologica, ma della necessità di attraversare fisicamente un panorama inedito, e per molti aspetti coinvolgente e affascinante.

E’ una voracità, un’ansia di confondersi con la realtà che trova un primo riflesso nel rapporto con la scena e con gli oggetti che la popolano e la animano. Gli oggetti in scena, al di là di ogni funzione decorativa, diventano a pieno titolo "attori": come gli attori, si caricano di rimandi e connotazioni; come gli attori sono in grado di entrare in rapporto dialettico con gli altri elementi dell’insieme. E questa una delle mille tensioni che fanno slittare il corpo verso l’oggetto, e viceversa’ ecco, negli spettacoli della Gaia scienza, costumi fatti di pietra, vetro, metallo (e insieme, in un rapporto simbiotico, corpi fatti di pietra, vetro, metallo); o, in tante occasioni, il corpo ridotto a cosa, a puro oggetto, figura immobile in un mondo di oggetti animati, sfregiato da sovrimpressioni di filmati o diapositive, o dallo sfarfallio incessante delle immagini di un monitor.

Lo spazio come realtà dinamica si oppone alla concezione della scenografia come puro contenitore, riflettendo le atmosfere sempre mutevoli e le suggestioni dello scenario metropolitano; ma riflettendo, anche, una più profonda sovrapposizione tra realtà soggettiva e oggettiva, la ricerca di un’intima adesione allo spazio e al tempo. Le soluzioni adottate sono assai diverse e si evolvono nel tempo. Nelle performance, può essere uno spazio urbano colto nel suo movimento quotidiano, ma può anche essere la prossimità, il contatto fisico con un pubblico costretto a seguire (ma insieme a modellare) un azione itinerante. Negli spettacoli, la soluzione più semplice e economica è quella delle sovrimpressioni di proiezioni varie, che raggiungono in diversi casi effetti di vero e proprio virtuosismo: in Vedute di Porto Said del Carrozzone con il gioco delle diapositive "concettuali"; in Tango glaciale di Falso movimento con una vera e propria "macchina celibe" di immagini e spazi; in Cuori strappati della Gaia scienza con uno spazio urbano in continuo movimento, reinventato al calcolatore, che si apre e modella lo spazio scenico nel corso dello spettacolo. Ancora, negli spettacoli dei Magazzini sarà il gioco del doppio sipario e delle veneziane, libera reinvenzione, quest’ultima, degli screens di Gordon Craig, con la loro capacità di modellare, filtrare e cesellare lo spazio e la luce.

Un altro elemento che si inserisce con la sua specificità in questa pratica teatrale è il video, nei suoi molteplici aspetti: dalla semplice registrazione documentaria dello spettacolo, all’uso del monitor all’interno della performance, e al videoteatro, con la creazione di opere dotate di un’indiscutibile autonomia linguistica e artistica, che possono, al limite, utilizzare lo spettacolo teatrale come un paesaggio da cui estrarre atmosfere e suggestioni. La dialettica tra video e teatro si arricchirà via via di nuovi contributi, in particolare con il lavoro di Giorgio Barberio Corsetti e Studio Azzurro, basato sul rapporto tra immagine e corpo, tra l’oggetto e il suo simulacro elettronico (immagine dal vivo o registrata), tra l’interno e l’esterno, il video e il set, l’inquadratura e ciò che non vi è contenuto.
 
 

UN TEATRO ANALITICO

Questa apertura nei confronti della realtà e la tendenza a costruirsi per successive esperienze, vengono in ogni caso distanziate da un accentuato formalismo, che funge da filtro sia all’adesione acritica e immediata come al mancato coinvolgimento e al violento rifiuto. L’esasperata attenzione al processo creativo impone infatti una sorta di distacco, creando una camera di compensazione al proprio disagio, un’ulteriore occasione di riflessione e decantazione di stati d’animo e sensazioni.

Questa ossessiva attenzione all’aspetto formale del lavoro (e naturalmente l’ormai cronica precarietà del teatro di fronte alla concorrenza di media assai più ricchi, aggressivi e "moderni") implica un atteggiamento autoriflessivo nei confronti dell’agire artistico e impone un continuo processo di riflessione e ridefinizione del terreno specifico d’intervento. E anche partendo da questo approccio, da un continuo azzeramento, dalla riflessione sui fondamenti di una pratica, da un atteggiamento sempre " sperimentale", che diventa possibile tracciare ex novo una grammatica teatrale.

Il rinnovamento del linguaggio, secondo modalità già praticate da altre avanguardie, procede prima di tutto per invasioni, contaminazioni e sconfinamenti’ è una tendenza a attraversare i generi che insospettisce e allontana i critici più tradizionali, in genere restii a misurarsi su terreni per loro inesplorati e insoliti. In una prima fase sono le arti visive a imporre un allargamento di prospettiva. L’arte concettuale, il comportamentismo e la body art costituiscono per esempio un importante punto di riferimento per molti spettacoli "autoriflessivi": si tratta da un lato di utilizzare, magari come citazione, o come materiale di lavoro, una determinata opera; ma si tratta anche di appropriarsi del procedimento che la sottende e del progetto artistico cui si ispira.

L’evento spettacolare tende così a costruirsi attraverso la sovrapposizione dei diversi apporti, ciascuno dotato della propria autonomia e non subordinato a altri. Dunque diventa possibile (e necessario) approfondire ciascuno di questi livelli, recuperando materiali, stimoli e sollecitazioni in ambiti diversi per appropriarsene, e per riutilizzarli in chiave personale. Così la new dance americana e poi l’impatto del teatro-danza di Pina Bausch, offriranno l’occasione per approfondire l’aspetto gestuale.

Allo stesso modo la musica ripetitiva, già utilizzata, solo per fare un esempio, da Bob Wilson, offre da una parte un supporto sonoro a numerosi spettacoli, mentre dall’altra impone un approfondimento sui suoi meccanismi compositivi e sul rapporto che instaura con il pubblico. Assumono così un ruolo centrale figure come la ripetizione (e al limite l’immobilità, come nelle performance comportamentali e cinematografiche di Dal Bosco-Varesco). E un procedimento costruttivo soprattutto architettonico e musicale (portato al parossismo, proprio in quegli anni, da musicisti come Philip Glass o Steve Reich, le cui opere vengono spesso prescelte come base sonora). Utilizzata in campo spettacolare, nel suo accadere, la ripetitività instaura un rapporto dialettico con il pubblico; sovraccaricandosi di energia e di tensione emotiva, induce un intreccio di tensioni e attese, insofferenze e delusioni, ma anche di forti adesioni, ipnotiche e sotterranee, fino alla vertigine.

La colonna sonora costituisce in ogni caso un elemento centrale, un continuum (costruito magari per citazioni che vanno dal rock ai film sentimentali anni cinquanta) sul quale si modella il tempo della performance e su cui si innestano altri materiali. Non a caso, la parola verrà recuperata in primo luogo come elemento puramente sonoro, preludendo poi a una sua reinvenzione in chiave di teatro di poesia.

Questo percorso di costruzione di una nuova grammatica teatrale non parte, almeno in apparenza, dagli elementi ritenuti tradizionalmente centrali: il testo e l’attore.

La rimozione del testo, della parola, appare inizialmente un passo necessario nella rifondazione della comunicazione teatrale. Uno dei postulati è infatti lo statuto di uguaglianza tra i diversi elementi dello spettacolo, che si impone attraverso l’eliminazione dell’elemento cardine del teatro di matrice letteraria. D’altro canto, grazie all’immediatezza dell’identificazione fisica e alla fascinazione dell’immagine, è facile eliminare la mediazione intellettuale del linguaggio e garantire, almeno per un certo periodo, una medita e se si vuole provocatoria efficacia.

Come prima conseguenza, l’eliminazione di una partitura verbale comporta, almeno in apparenza, la riduzione dell’attore a elemento marginale dello spettacolo, relegandolo spesso al rango di oggetto o di supermarionetta. Eppure 1 attore resta costantemente al centro della riflessione: proprio perché, paradossalmente, la sua apparente svalutazione costituisce spesso il primo passo per restituire - inizialmente per contrasto e poi con maggior consapevolezza la centralità della figura umana e del ruolo dell’attore (senza dimenticare che quasi tutti i membri dei gruppi sono stati, magari per diversi anni, anche attori).

In questa prospettiva, si definiscono due modalità fondamentali del lavoro dell’attore: da una parte il flusso del gesto, l’esplosione liberatoria, fino all’improvvisazione violentemente aggressiva; dall’altra, l’ostinazione ripetitiva, la minuzia di una partitura rigidamente prefissata. L’attore sembra attratto con la stessa forza da questi due poli, apparentemente inconciliabili, cercando nella coincidenza degli opposti delle divergenti verità: l’irripetibile e l’eterna ripetizione dell’identico; la totale adesione, immediata e vitalistica, alla propria soggettività, nello stato alterato che impone la scena; e la precisione, fisica e matematica, di un meccanismo in moto nello spazio e nel tempo. E l’angoscia e l’estasi che si riverberano tra questi due estremi costituiscono forse il nocciolo segreto che accomuna esperienze molto diverse. Da questa impossibile sovrapposizione nasce la forza espressiva di molti spettacoli di quegli anni: il loro fulcro sta forse nella capacità di essere prima di tutto veicoli di energia, da scatenare in esplosioni al limite dell’esibizionismo o da immagazzinare e far deflagrare nella coazione; e muovendosi sempre su una linea di rischio, anche fisico, con acrobazie da brivido e con la tentazione dell’automutilazione, reale e metaforica, indotta da questo fuoco di energie e tensioni fisiche, psichiche e mentali.

Con il recupero della parola, questi due poli trovano inevitabilmente una diversa profondità. Ed è un cammino difficile e complesso, la riconquista di un terreno inesplorato che procede per aggiustamenti successivi e in cui l’attore, da sorgente di energie e sensazioni, diventa sempre più veicolo di senso.
 
 

LA COSTRUZIONE LOGICA DELL’EVENTO TEATRALE

Ancora una volta, è l’evoluzione (e la stratificazione) di un elemento a ricostruirne la pienezza, in uno sviluppo per differenze e successivi allargamenti d’orizzonte. E ancora una volta, questa pratica teatrale si differenzia dai modelli correnti per costruire le basi stesse della propria logica comunicativa.

Nel teatro di regia assume un aspetto centrale la coerenza dei diversi elementi rispetto a un testo " letterario " che gli altri livelli della rappresentazione tendono a illustrare e delucidare. Qui si tratta invece di ricostruire un mondo in cui non esiste un elemento fondante, una parola da riempire di senso, in cui dunque tutti gli elementi assumono lo stesso valore, la parola come il suono, il gesto come lo spazio. Si tratta di ricostruire, definire e far agire un intero universo, con le sue leggi, regole e convenzioni, con il suo tempo e il suo spazio, i suoi corpi e le sue sensazioni.

La partenza da un dato immediatamente personale, esistenziale, impone di affrontare ogni spettacolo partendo da zero. Molto spesso non esiste un testo (né una "partitura") predeterminato, ma piuttosto un insieme di sensazioni, suggestioni, idee e materiali che si definiscono come testo (o meglio: come testi, come pluralità di partiture parallele) nel corso del lavoro, attraverso successive improvvisazioni, scritture e riscritture su materiali e situazioni più o meno costruiti. Si delinea, al limite, un’estetica del frammento: l’opera (che spesso è un punto d’approdo provvisorio, instabile) è il risultato di un processo di formalizzazione. Il senso è eventualmente un punto d’arrivo (magari filtrato da processi casuali, aleatori, costruito per associazioni): ma resta un approdo labile, una possibilità accanto a mille altre, e non una norma.

tì problema della costruzione di uno spettacolo richiede dunque, inevitabilmente, un’acuta "coscienza semiotica", necessaria per mettere a punto una vera e propria partitura di testi paralleli, ciascuno con le proprie sollecitazioni e logiche. Sintomaticamente, diversi gruppi si pongono il problema della trascrizione e formalizzazione dell’evento teatrale: l’obiettivo è la verifica della possibilità della sua registrazione scientifica (e, in linea teorica, della possibilità di ricostruirlo, di replicarlo partendo da un "testo").

Il superamento di una dimensione narrativa rende inutile ogni approccio naturalistico, evitando le strettoie della rappresentazione. C’è, alla base, l’ostentata coscienza dell’"effetto di realtà" determinato dal compiersi, qui e ora, di quel gesto, di quell’evento. Ogni attore, ogni oggetto si dà per quello che è, come segno, nelle sue funzioni. Non rimanda a un altro mondo, che dovrebbe essere quello reale: si limita a costruire il mondo cui appartiene, caricandosi di rimandi, tensioni e rapporti con tutti gli altri componenti dell’insieme. Quelle che vengono esemplificate e portate sulla scena sono una serie di tensioni e di dialettiche tra i vari elementi dello spettacolo: tra corpo e materia, tra carne e immobilità, velocità e lentezza, ripetizione e variazione, interno e esterno, centro e periferia, tanto per identificare alcune polarità fondamentali, che si compongono in mille altri confronti evolutivi.

Questa dialettica finisce per riflettersi anche nel rapporto tra ciò che accade e chi osserva l’evento: un rapporto fatto di contagio emotivo e di provocazione, di esperienze comuni e di slittamenti percettivi, di curiosità e rifiuti, di sorprese e assuefazioni.

Contemporaneamente, la costruzione di un mondo pone inevitabilmente un problema di coerenza, e quindi di logica formale. Allo stesso modo in cui è possibile costruire una geometria partendo da alcuni assiomi e regole fondamentali, così il lavoro teatrale viene costruito a partire da alcuni "elementi base": lo spettacolo è allora la deduzione, attraverso una serie di regole formali, di un mondo e insieme la sua "messa in opera", la verifica del suo funzionamento, l’esplicitazione delle tensioni che lo innervano: anche se, spesso, è presente o implicito un elemento eccentrico, deviante, che tende (al limite) all’autodistruzione del meccanismo. Questa formalizzazione non è statica, fine a se stessa, ripiegata in una sorta di estetismo. Entra infatti in gioco un secondo elemento: il radicalismo. Ogni spettacolo è un’esperienza che è necessario portare alle estreme conseguenze, in una ricerca che porta con sé il gusto del rischio e l’ebbrezza del pericolo. Il risultato, ogni volta, è il raggiungimento di un punto limite, di una situazione di non ritorno (o, al limite estremo, originaria) oltre la quale non sembra possibile spingersi.

Di spettacolo in spettacolo, attraverso questo processo di continuo superamento e azzeramento, si costituiscono un linguaggio (uno stile) e una poetica. Ogni opera finisce per costituire un mondo a sé, ma fa contemporaneamente parte di una sequenza di spettacoli che sottintendono un processo evolutivo e la continuità di un metodo di lavoro.
 
 

IL LAVORO DELLO SPETTATORE

Per il pubblico, queste modalità comunicative e produttive impongono un atteggiamento diverso di fronte al prodotto teatrale: non si tratta tanto di dedurre (in base agli "indizi" disseminati dalla regia) il "senso" di un testo, quanto di ricostruire un mondo e la sua logica reinventando i nessi tra i vari elementi (in questo senso si tratta di "opere aperte", che richiedono la "collaborazione" dello spettatore); e insieme, ovviamente, si tratta di fare esperienza di questo mondo, del suo senso del tempo e dello spazio, delle sue emozioni e sensazioni.

Ma il "lavoro" dello spettatore consiste anche nell’accompagnare l’evoluzione della poetica di un gruppo. In questa prospettiva, lo spettacolo non è solo un prodotto da consumare nell’arco di una o due ore, quanto la traccia di un lavoro più ampio e disteso. Allo sguardo sincronico sulla singola opera si accosta uno sguardo diacronico che ricollega i diversi spettacoli, riconoscendo la progettualità che li sottende.

E anche per quanto riguarda il rapporto con il pubblico, si procede per continui spiazzamenti e ridefinizioni perché la comunicazione rischia sempre di incanalarsi in una serie di abitudini, di spegnersi in luoghi comuni che rischiano di smorzarne l’impatto e l’efficacia, appiattendosi nel cliché.

Anche lo stile, da questo punto di vista, rischia di diventare una trappola:

l’immediata riconoscibilità, malgrado tutte le gratificazioni che comporta, finisce infatti per rendere opaco il rapporto con l’evento, imponendo ogni volta la ricerca di una nuova formula compositiva, l’esplorazione di nuovi terreni.
 
 

ALLA RICERCA DI UN METODO?

Si definisce così, per aggiustamenti successivi, un metodo di lavoro che, al di là delle differenze e spesso delle contrapposizioni, delinea un orizzonte comune, con un bagaglio di conoscenze e di tecniche: non un patrimonio definito e statico, ma un insieme di esperienze che contiene al proprio interno alcune spinte evolutive che impongono un continuo allargamento d’orizzonti, un ribaltamento di panorami consolidati, il rifiuto di ripercorrere strade già tracciate.

Sotto diversi aspetti, alcuni capisaldi di un certo modo di fare spettacolo (assai frequentato qualche anno fa) sono stati superati e abbandonati: a cominciare dal riemergere della parola e del testo, e dal recupero della narratività (se non, addirittura, della Storia come occasione di intervento e di riflessione), fino all’elezione da parte di alcuni gruppi e artisti della letteratura come terreno d’indagine privilegiato.

Questo recupero avviene tuttavia secondo modalità che erano state messe a punto in precedenza. Questi nuovi materiali vengono inseriti in un tessuto in grado di accogliere nuove sollecitazioni (al limite anche quelle di un testo o di un opus drammaturgico "tradizionale") senza snaturarsi: da una parte inglobandoli come citazione, per schegge; dall’altra utilizzandoli come suggestione, in un processo che si avvicina spesso all’immedesimazione; e infine come recupero di tecniche e di procedimenti, mentali o materiali.

In altri termini, tutto (compresa la letteratura) può essere trasformato in spettacolo, e quindi diventa possibile appropriarsi di qualunque esperienza in forma di spettacolo: questa è, indubbiamente, una delle dimensioni chiave della nostra epoca. Contemporaneamente, la pratica teatrale continua a cercare e trovare ispirazioni e motivi in altri ambiti e discipline, in un processo nomadico di appropriazione che le impone una continua ridefinizione. Ma al di là di questa inquietudine, si tratta sempre di attraversare i diversi territori in prima persona, verificandoli sulla propria pelle, nella propria carne.

Con il passare degli anni, gli spettacoli perdono progressivamente l’aspetto di repliche del reale, di mimesi della superficialità postmoderna, per privilegiare autonome capacità di elaborazione creativa, espressioni più personali e magari eccentriche. Si tratta di proseguire con maggiore organicità un percorso che, nello spazio utopico della scena, ha sempre cercato la capacità e la forza di infettare l’immaginario dello spettatore, di costruire occasioni in cui rimettere a fuoco rapporti simbolici via via più profondi.

La logica della costruzione di insiemi coerenti di segni resta tuttavia centrale, per essere magari applicata alla simulazione di sistemi ideologici o mitici, all’invenzione di mondi percettivi, sentimentali e poetici minimali dotati di vita propria, alla costruzione di universi interiori sempre più ramificati.

E resta ugualmente l’insistenza sulla necessità di rifondare i meccanismi della comunicazione, sulla volontà di restituire efficacia al segno teatrale, con continue operazioni di spiazzamento: dall’incessante reinvenzione di codici, alla distorsione di segni e immagini, alla scoperta dei nessi inediti che li legano. La dimensione dichiaratamente politica di molti lavori recenti sta anche in questa continua ricerca di macchine teatrali in grado di costituire un’alternativa a un sistema di comunicazione sempre più omogeneo, invadente e implosivo. Ecco dunque l’insistenza sempre crescente sulla dimensione originaria (o, se si preferisce, rituale) dell’evento teatrale: apparentemente paradossale in chi all’inizio sembrava muoversi nella direzione opposta, è diventata possibile solo al termine di un confronto che ha assunto i toni di un vero corpo a corpo
 
 

UN’ESTETICA DEL TRADIMENTO

Parallelamente, l’aggressiva e insieme sofferta identificazione con una realtà di cui si avverte e si subisce tutta la violenza, lascia il posto a un più meditato distacco. L’affermazione del dato immediato della propria esistenza, la ricerca di un atto teatrale in cui soggettività e oggettività possano coincidere - in una sorta di paradossale e vitalistica mistica materialista - si evolve in una più costruttiva necessità d’espressione.

Si è già accennato a un senso di perdita dell’origine che si fa sempre più avvertibile (che coincide con una riflessione spesso ispirata a temi filosofici) e che impone all’evento teatrale di misurarsi su una diversa scala temporale.

In quest’ottica si inserisce anche la scelta di affrontare la soggettività in una diversa prospettiva: da un’esplorazione inizialmente epidermica e riflessa verso un’espressività più mediata. La soggettività si apre all’interiorità, centrando ancora l’attenzione ai fenomeni percettivi, al senso del tempo e dello spazio, allo studio del nebuloso intreccio di sensazioni e sentimenti, alla logica vagabonda delle associazioni.

La ricerca di una purezza impossibile nella trasgressione a oltranza trova uno sbocco e una possibilità di verifica nella riflessione sull’alterità dell’artista e dell’attore. Se inizialmente la riflessione sul fare artistico era volta soprattutto alla focalizzazione e alla puntualizzazione dei singoli elementi che concorrono nell’evento teatrale, l’esame si allarga progressivamente alla funzione e al ruolo dell’artista in generale: per ritrovare, nella pratica espressiva, uno spazio in cui continuare a praticare l’utopia e la diversità, affermando il diritto e la necessità di una zona franca in cui continuare a rischiare, a mettersi continuamente in gioco, a reinventarsi.

Vengono così chiamati in campo, o portati allo scoperto, una serie di punti di riferimento, di "maestri" e di pratiche. Esemplare, in questa prospettiva, la galleria di vite immaginarie raccontate dai Magazzini nelle ultime stagioni: prima Kerouac, poi Genet (che diventerà una sorta di obbligatoria tappa miziatica per molti dei gruppi più giovani), Fassbinder; Artaud e Burroughs, e infine Beckett e ancora Artaud, in una costellazione di miti contemporanei che trova corrispondenze nel lavoro di diversi altri gruppi.

Ma c’è anche chi trova altri punti di riferimento: l’identificazione romanzesca nello scrittore e nei suoi personaggi (e si va da Cervantes, a Kafka, a Joyce), la classicità di un Goethe, le riflessioni sulla scrittura di uno Jabès, un certo filone della letteratura di lingua inglese contemporanea, solo per citare alla rinfusa alcuni centri d’attenzione. Ancora un tradimento, che è insieme un atto d’amore e un omaggio.

L’atteggiamento nei confronti dell’arte, come quello nei confronti del teatro, è generalmente trasgressivo, nel segno di una tradizione ormai consolidata. Il modello è il maudit, il reietto della società. Ma anche colui che ne scardina le regole. Colui che, avvertendo in tutta la sua forza il senso del limite, è in grado, se non di oltrepassarlo, di misurarcisi, di costruire se stesso attraverso un continuo confronto con l’indicibile, con l’impossibile, il proibito. Colui che, conoscendo e subendo le costrizioni delle convenzioni silenziose e tacitamente accettate (quelle del linguaggio come quelle del pensiero, quelle dell’ideologia come quelle dei rapporti sociali), è in grado di metterle a nudo e svuotarle di senso, in una incessante e dichiarata provocazione, in una continua opera distruttiva che è contemporaneamente attività creativa, in un rifiuto che è anche invenzione di nuove realtà.

Parallelamente, si evidenzia in molti gruppi (e in molti che al loro interno hanno visto definirsi una più precisa funzione e professionalità) la necessità di centrare la propria ricerca su aspetti specifici del lavoro teatrale. Ma si tratta anche di mettere a fuoco il nocciolo di una ispirazione e di una identità artistica che, dopo essersi nutrita per stratificazioni di esperienze, avverte la necessità di un ripiegamento, di un approfondimento ditemi e motivi.
 
 

NUOVE MUTAZIONI

A che punto è, oggi, l’evoluzione dei gruppi? E cosa resta di quell’esperienza? Non si è trattato certo di un vero e proprio movimento, quanto piuttosto di

una comunanza di interessi e di atteggiamenti, la scoperta di punti di riferimento comuni. Intorno alla metà degli anni settanta, la postavanguardia aveva tentato di raccogliere e di coordinare alcune delle realtà attive in quel momento (vedi incontri come quello di Cosenza, rassegna "Postavanguardia", indetto nel 1976). Esaurita quella fase non sono stati numerosi i momenti d’intesa: alcuni festival, a cominciare da Santarcangelo e Polverigi, e le Biennali di Venezia dirette da Franco Quadri (rarissimo esempio di grande istituzione teatrale e culturale italiana disposta a rischiare sul nuovo).

Oggi le strade su cui si muovono le diverse realtà che compongono la galassia di cui abbiamo cercato di individuare le caratteristiche sono sicuramente numerose e divergenti. Molti gruppi proseguono la loro attività. A volte la formula continua a mantenere la sua funzionalità, altre volte denota segni di stanchezza e di involuzione: ma resta in ogni caso evidente che un modello, impostosi in un determinato momento storico, non può offrire garanzie di validità assoluta. E anzi, non è detto che chi si affaccia, ora, sulle scene teatrali, trovi nel gruppo una risposta alle proprie esigenze.

Per molti dei protagonisti di quella stagione l’esperienza del gruppo puo invece considerarsi conclusa. Diverse compagnie si sono sciolte in seguito a processi che si potrebbero definire fisiologici, che sembrano rendere assai difficile, se non impossibile, la sopravvivenza dei gruppi oltre un certo periodo, o sembrano condannarli a una progressiva asfissia (salvo le solite eccezioni). Alcuni dei migliori talenti che si sono formati in quella palestra hanno ormai conquistato una professionalità indiscutibile, che trova modo di esplicarsi in maniera autonoma. Un processo di maturazione, spesso appassionante nel suo sviluppo, li ha portati a definirsi come autori di spettacoli, nel senso più pieno del termine: personalità cioè in grado di progettare e realizzare uno spettacolo che ne rifletta pienamente la personalità artistica.

Se dunque, dall’interno, le spinte alla ridefinizione del gruppo sono assai forti, non meno avvertibili sono quelle che dall’esterno spingono - forse con obiettivi diversi - nella stessa direzione. Non a caso, le ultime stagioni hanno visto la progressiva mutazione di numerose strutture, attraverso rifondazioni, fusioni, allargamenti e restrizioni di organici.

Dal punto di vista organizzativo, è da tempo in atto la messa a punto di formule diverse, alternative o complementari a quella dei gruppi, per garantire una migliore operatività. Fondamentale è stata l’attività dei centri di ricerca e sperimentazione teatrale, che hanno spesso fornito ai gruppi un supporto insostituibile (in particolare il Centro teatrale San Geminiano di Modena, che ha prodotto o coprodotto, tra gli altri, lavori della Società Raffaello Sanzio, Teatro della Valdoca, Teatro imprevisto, Santagata e Morganti ecc.; e il CRT di Milano, che nelle ultime due stagioni ha prodotto i Magazzini, Giorgio Barberio Corsetti, FIAT, Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa). Come pure determinante è stata l’attività di alcuni festival, veri e propri laboratori aperti in cui hanno potuto confrontarsi e incontrarsi storie diverse, con una spinta più o meno esplicita all’aggregazione di nuove realtà produttive.

Ma probabilmente, al di là delle capacità di sopravvivenza e di rinnovamento della formula, il valore di un’esperienza come quella tracciata dai gruppi negli ultimi anni andrà misurato in altre direzioni.

Da un lato, nella capacità di incidere sull’intero corpo teatrale con una pratica innovativa, aperta al confronto con la modernità, in una continua invenzione di segni che ha portato alla messa a punto di una nuova grammatica dell’evento scenico. E quindi nell’affermazione di un teatro cosciente del suo statuto artistico e della sua funzione culturale, portato dalla sua ineliminabile inquietudine a una continua ridefinizione dei propri limiti e della propria essenza. Per inciso, in questa direzione sembrano muoversi gli esponenti più maturi di una generazione che nella scena ha trovato il proprio mezzo espressivo.

D’altro canto, l’esperienza dei gruppi ha costituito un percorso esemplare, con la progressiva appropriazione di un mezzo espressivo: una conquista che è stata anche una vera e propria invenzione. Questa funzione pedagogica, nel senso più alto del termine, come processo di formazione reciproca (anche nei confronti dello spettatore), resta in ogni caso una delle condizioni per la sopravvivenza e lo sviluppo del teatro. I gruppi hanno svolto anche questa importante funzione, offrendo la possibilità di mettere a fuoco professionalità e competenze (ma soprattutto un diverso approccio all’evento scenico): si tratta ora di proiettare la loro storia nel presente, utilizzando il patrimonio di esperienze che si è creato in questi anni, per metterlo a disposizione di chi, oggi, vuole affacciarsi al teatro.

(1988)


 
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