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Quanti figli ha avuto Macbeth?

di Oliviero Ponte di Pino

Questo testo è stato scritto per il programma di sala dello spettacolo prodotto da ERT-Teatro Stabile Regionale e Arena del Sole-Nuova Scena-Teatro Stabile di Bologna con la regia di Giancarlo Cobelli (la scheda dello spettacolo è in fondo alla pagina).

 

Eppur la vita
sento nelle mie fibre inaridita.
Francesco Maria Piave

And Macbeth and his Lady, who should have been choring
Such suburban ambition, so messily goring
Old Duncan with daggers!
(E Macbeth e la sua Lady, gente buona tutt’al più per servizi a ore
che ambizioni suburbane, pasticciare con dei pugnali
per cavare il sangue al vecchio Duncan!)
D. H. Lawrence

Già, quanti ne ha avuti, tanto per parafrasare How Many Children Had Lady Macbeth? (1933), il saggio di L.C Knights che ha avuto il merito di ricentrare l’attenzione della critica sulla natura teatrale, più che letteraria, dei testi di Shakespeare. Perché nei decenni precedenti la critica, anche per rivalutare la sua grandezza di fronte alle norme, alle convenzioni e alle insensibilità neoclassiche, aveva lavorato soprattutto alla ricostruzione della credibilità psicologica dei personaggi, tanto da farne spesso casi esemplari di patologie dell’anima. Come scriveva John Middleton Murry al culmine di una lunga tradizione critica, "Se Lear od Otello o Macbeth fossero oggi in tribunale chiederemmo per loro il riconoscimento di vizio mentale" (Shakespeare (1935), tr. it. di Francesco Lo Bue, Einaudi, Torino, 1953, p. 319).

Insomma, gli studiosi avevano a lungo cercato di raccontare i title roles shakespeariani come individui veri e reali, di cui è possibile e necessario immaginare una biografia (e l’infanzia, e i sogni, e i desideri...): insomma una soggettività che esaurisse il fascio delle loro motivazioni. Al contempo queste interpretazioni offrivano un’infinità di appoggi e scorciatoie agli attori che dovevano confrontarsi con passioni "eccessive" per l’uomo moderno, e che magari cercavano qualche effettaccio sensazionalistico per accaparrarsi l’attenzione del pubblico: basti pensare al Macbeth di un attore di indiscusso talento e notevoli doti organizzative come Ermete Zacconi, che muovendosi però nel solco della tradizione del grande attore (in uno spettacolo tipicamente criticato per la scarsa qualità della traduzione e le differenze di livello tra il capocomico e i comprimari) "penetrò con profondo studio psicologico la figura di Macbeth e la rese con effetti dai quali il pubblico fu preso a ogni scena" (Anonimo, "Corriere della Sera", 21 febbraio 1917).

Così, per tornare a Lady Macbeth e alla sua prole, la critica, seppur animata dalle migliori intenzioni, rischiava di far dimenticare la vera – e banale – natura di questi personaggi teatrali: figure fittizie, discontinue, che esistono sono nella realtà della scena. Perché quella della finzione – teatrale, romanzesca, cinematografica che sia – è una realtà che non pretende coerenza, ma sopporta discrepanze, lacune, contraddizioni. Anche se poi, come abbiamo imparato, i lapsus d’autore possono fornire materiali inesauribili alla scuola critica del sospetto. In chiave marxista – e anticolonialista – oppure freudiana, strutturalista o femminista, queste crepe serviranno da grimaldelli per mettere a fuoco infiniti sottotesti, in un inesauribile gioco di interpretazioni.

Ma allora quanti sono i figli di Macbeth nel teatro moderno? Presumibilmente molti e assai diversi, se pensiamo ai gradi di libertà consentiti dal rifiuto della tradizione ottocentesca, con quel suo miscuglio di realismo e convenzioni; o meglio, con quel realismo tutto convenzionale, infarcito di arbitri dovuti alla sensibilità dell’epoca e alle convenienze dei grandi attori. Perché il superamento del "vecchio" teatro, di cui sono stati battistrada Appia e Gordon Craig, intrecciandosi con le scoperte dei filologi e degli storici dello spettacolo, non ha semplicemente sostituito una convenzione con un’altra, ma ha aperto diverse linee di ricerca.

In primo luogo ha "scientificamente" legittimato il tentativo di recuperare le condizioni reali, materiali dello spettacolo elisabettiano, così diverso dallo spettacolo borghese dei teatri all’italiana dell’Ottocento. Ha imposto al contempo il rispetto del testo shakespeariano da manipolazioni e interpolazioni (con le prime messinscene dei testi integrali a opera di William Poel e della sua Elizabethan Stage Society, all’inizio del Novecento). Per scoprire però che quelle condizioni "originali" non si possono riprodurre in una dimensione puramente filologica: innanzitutto in tre secoli l’immaginario è inevitabilmente cambiato, e molti riferimenti che all’epoca erano affatto evidenti risultano ora incomprensibili. Per esempio, che effetto poteva avere sul pubblico elisabettiano l’apparizione soprannaturale delle streghe, e quale credibilità hanno invece per noi? Inoltre, per i londinesi dell’epoca era chiaro il nesso genealogico (più o meno leggendario, ma certo ricco di implicazioni politiche) tra gli antichi sovrani scozzesi e il loro discendente Giacomo Stuart, che alla corona di Scozia aveva aggiunto nel 1603 quella d’Inghilterra (la prima rappresentazione del Macbeth risale al 1606). Più in generale, come hanno scoperto quegli stessi filologi, i testi giunti sino a noi non corrispondono certo a quelli recitati all’epoca sul palcoscenico del Globe, ma sono il frutto di varie stratificazioni. E poi chissà come sono cambiate le tecniche di recitazione (i ruoli femminili impersonati da attori…), la scenografia (di cui non abbiamo in pratica alcuna traccia…), eccetera. E ancora, quanto pesano sul nostro sguardo quattro secoli di tradizione e interpretazione?

È il paradosso che intrappola il nostro rapporto con i classici: la più puntigliosa delle fedeltà è inevitabilmente infedeltà, e apparenti infedeltà possono rivelarsi profonde fedeltà. Ma se l’esperienza del teatro elisabettiano può essere recuperata solo al prezzo del tradimento, ecco dunque tutta una serie di allestimenti che partono dalla materialità del teatro e usano i testi di Shakespeare come efficaci macchine per produrre spettacoli: in apparenza infedeli all’originale, dunque, perché totalmente svincolati dalle convenzioni ereditate e dalle tradizioni reinventate, e insieme assolutamente aderenti alla loro originaria natura di testi teatrali, di copioni scritti da un attore per un gruppo d’attori, e adattati di volta in volta alle circostanze e alle variabili esigenze. Già ai tempi delle prime messinscene, la stessa identica battuta, nello stesso testo, poteva assumere accenti e risonanze molto diversi in una taverna della campagna inglese e alla corte della regina Elisabetta.

Il continuo cortocircuito tra passato e presente rende così inevitabili e assolutamente legittimi l’incontro-scontro con l’attualità e la continua sperimentazione sui classici (inutile ricordare a questo punto che Shakespeare, in questo secolo, è l’incarnazione indiscutibile del classico, il fondamento dell’uomo occidentale così come l’abbiamo conosciuto; che è senz’altro l’autore più rappresentato del secolo, e che nonostante tutte le leggende che lo circondano Macbeth è uno dei suoi testi più frequentati.).

Così, prima ancora di iniziare a censirli, si inizia a sospettare che è impossibile censire tutti questi figli. E se nelle interpretazioni sceniche la massima libertà e la massima fedeltà rischiano di confondersi e intrecciarsi, viene subito da sospettare che saranno per di più assai diversi tra loro. Anche perché nel loro numero, in un secolo che ha vissuto la storia come un grande incubo grondante sangue, bisogna anche riconoscerne qualcuno che non porta esattamente il suo nome. A dare nuova linfa alla stirpe, tanto per cominciare, ci sarebbe il feroce e stupido Re Ubu, travolgente e grottesca reincarnazione nata dalla fantasia di un gruppo di studenti di liceo e nutrita dagli umori acidi di Alfred Jarry. Ci sarebbe anche l’Arturo Ui di Bertolt Brecht, quello della resistibile ascesa, che di Macbeth (al di là dell’assenza determinante di una Lady) ha molti tratti.

Qui bisognerebbe subito aprire l’ennesima parentesi: perché se Arturo Ui è ricalcato sul più famigerato dei dittatori del secolo, qual è il rapporto tra l’ambizioso scozzese che s’affanna e scanna per raggiungere il potere, per il macellaio che usurpa delitto dopo delitto il trono di Scozia (e poi non sa bene che farsene, e infatti dura abbastanza poco), e i tiranni e tirannucoli che hanno seguito – certo inconsapevolmente – le sue orme? Quanti sono più simili a Macbeth, che conclude la sua parabola nel delirio e nell’ossessione, braccato dai propri fantasmi – ma anche dal risorgere di antichissimi miti? E quanti invece dobbiamo identificarli con il ridicolo e terribile Ubu, che cerca di fuggire senza vergogna né dignità dalla "sua" Polonia? E quanti hanno finito le loro agonie nel loro letto, in qualche palazzo presidenziale, dopo aver addormentato i loro paesi nel terrore e nell’ibernazione del potere? È uno dei grandi temi del testo shakespeariano: il rapporto tra la politica e il delitto, tra la malvagità individuale e quel meccanismo collettivo che è la storia, tra il gesto del singolo e il balletto del potere.

Ma torniamo a Macbeth e ai suoi figli novecenteschi. Per rintracciarli possiamo partire solo da qualche frammento, da quei segni inadeguati che la vita e la pratica del palcoscenico hanno abbandonato dietro di sé: la fragile scia da cui gli storici dello spettacolo raccolgono i preziosi cimeli indispensabili per immaginare un mondo irraggiungibile, un regno perduto per sempre.

Per cominciare, due fotografie che mostrano altrettante scene piene di attori. La prima è un’immagine del Macbeth di sir Herbert Beerbohm Tree, regista e protagonista (con Violet Vanbrugh) all’His Majesty’s Theatre di Londra nel 1911. Mostra un salone con le mura di pesante pietra (con ogni probabilità fatte di cartapesta, legno e stoffa) e volte incombenti, sgabelli, un tavolo e un doppio trono di legno massiccio, per Macbeth e la sua Lady. Intorno, una folla di comparse in costumi medievali, baffoni e zazzere barbare, costumi pesanti, di velluti e pellicce. È il trionfo del tableau storico, con la sua sfarzosa minuzia, il mosaico di dettagli che lascia il pubblico a bocca aperta per lo stupore – ma anche intento a calcolare i costi della scenografia e dei costumi, oltre che il budget del nutrito cast. Il pubblico londinese resta ugualmente stupito – ma per motivi diversi – di fronte all’allestimento in abiti moderni da H.J. Ayliff al Royal Theatre nel 1928. Pochi anni prima lo stesso regista, con la stessa compagnia (il Birmingham Repertory Theatre diretto da Barry Jackson), aveva causato sensazione con il primo Shakespeare in abiti moderni, un Amleto subito imitato in tutto il mondo. Ma questo Macbeth, ambientato in Scozia all’epoca della Prima guerra mondiale, con i personaggi che sembrano usciti da un thriller (e il giovane Laurence Olivier nei panni di Malcolm), non convince: l’ambientazione risulta inverosimile, le atmosfere evocate dal testo sono troppo diverse rispetto a quel che accade in scena: l’arrivo di Duncan a Inverness è salutato da tre colpi di clacson, le battaglie sono ritmate dal suono delle granate... Insomma, per attualizzare Shakespeare e renderlo popolare presso il grande pubblico ci si possono prendere molte libertà – ma non tutte.

Ora apriamo un Regiebuch, il quaderno di lavoro di Max Reinhardt, la prima star della regia internazionale con il suo eclettismo sempre al passo con i tempi e con le mode. Rispetto ad altri suoi leggendari allestimenti shakespeariani il Macbeth del 1916 non è memorabile, malgrado la puntigliosa preparazione. Il regista tedesco, che utilizza la scena espressionista di Stern, lavora accuratamente sul copione con un’infinità di piccoli tagli e adattamenti per rendere il testo più comprensibile, ma presta anche grande attenzione alle reazioni e ai movimenti degli attori. Per esempio, il celebre monologo "To be thus is nothing, but to be safely thus" prevede una raffica di indicazioni che accompagnano l’interprete parola dopo parola: "meditabondo / pieno d’invidia / intrepido / comprendendo all’improvviso e come lanciandosi un avvertimento / si gira la corona tra le mani / con una voce distorta / sprezzante, girandosi la corona tra le mani / con amarezza / pieno d’odio / pieno di profonda amarezza / ride disperato / con logica / tagliente / dolorosamente / penetrante, facendosi del male e disprezzandosi / selvaggiamente / fermandosi all’improvviso e guardando sospettoso davanti a sé verso destra". Emerge da queste didascalie una gestualità che oggi ci sembrerebbe esagerata, ma anche la coerenza del disegno del personaggio, la consapevolezza di ogni parola e gesto richiesta all’attore.

Sei anni dopo, in una Germania segnata dalla sconfitta nella Prima guerra mondiale, il Macbeth berlinese di Leopold Jessner, è un incubo claustrofobico di sangue. Il maestro dell’espressionismo teatrale costruisce i suoi spettacoli concentrandosi su un elemento centrale, spesso concretizzato nella scenografia, tagliando drasticamente il testo per eliminare contraddizioni e ambiguità, ma finisce spesso per fornire letture riduttive: in questo caso uno spettacolo dai toni sempre sovreccitati, vicini all’isteria, che non rende giustizia alla ricchezza di temi del testo. Solo un anno più tardi, nel 1923, la risposta di Richard Weichert alla Frankfurt Schauspielhaus: uno spettacolo interamente costruito sulla caduta, sulla discesa, con una scenografia ridotta a un piano inclinato lungo il quale far scivolare gli attori, che si protende come una punta di lancia verso la platea.

Sempre all’inizio degli anni Venti, ma sull’altra sponda dell’Oceano Atlantico. Dall’alto calano tre fasci di luce, filtrano attraverso tre enormi maschere sospese sopra la scena. Sono uguali alle maschere delle tre streghe e pongono l’intera serata all’insegna di un Male soprannaturale. È la messinscena newyorkese di Arthur Hopkins, con le geniali scenografie di R.E. Jones (1921). Quella di Jones non è mai un’ambientazione statica: vive del rapporto con gli attori, i loro corpi, le loro ombre. In questo caso, lo spettacolo è quasi una soggettiva: una serie di archi fanno ci fanno vedere il mondo attraverso gli occhi e la mente labirintica del protagonista.

Passano quindici anni, è il 1936, siamo rimasti a New York. Si avvicina un forsennato e inquietante ritmo di tamburi: sono quelli del Macbeth voodoo allestito a Harlem con un cast tutto nero (la prima produzione shakespeariana di questo genere) da un ventenne appena giunto da Indianapolis, Orson Welles. È un allestimento tanto leggendario quanto discusso (insomma, degno di Welles), nato dai programmi del New Deal rooseveltiano, ambientato nella Haiti del XVIII secolo, quella del regno del rivoltoso Henri Christophe. Il castello è circondato da una giungla verdeggiante, i coloratissimi costumi richiamano i tropici, le maschere arrivano dall’Africa, le streghe sono sacerdotesse e santoni del candomblè... Orson Welles opta per un finale pessimistico: alla morte del protagonista l’incantesimo non si rompe, e la danza infernale può ricominciare con lo stesso vigore. Due anni dopo, preoccupato da quello che sta accadendo in Europa, lo stesso Welles allestirà un Giulio Cesare che ha riconoscibilissimi i tratti di Benito Mussolini, dove la folla romana evoca con ogni evidenza le adunate di Norimberga.

Questo è un programma di sala, poco più di un volantino sgualcito. Da un lato il cast, dall’altro le parole del regista Wolfgang Pretzel: "Nell’intera letteratura mondiale, non esiste in pratica un’altra tragedia che metta a nudo, con la stessa potenza visionaria, l’essenza dell’inferno che abbiamo attraversato negli ultimi 12 anni". È il 12 ottobre 1945, il Macbeth che debutta al Kammerspiele di Monaco è il primo spettacolo che va in scena in Germania dopo la disfatta nazista. Pretzel sentirà il bisogno di concludere la cupa e disperata tragedia scozzese con una nota di volonterosa ma forzata speranza: un coro di ragazzi che intona un inno religioso.

Il nesso tra la tragedia di Shakespeare e gli orrori dell’epoca lo sottolinea anche il ventisettenne Ingmar Bergman, nel 1944 all’Hälsingborg Stadsteheater (dopo l’esperimento di un Macbeth antinazista con un gruppo studentesco a Stoccolma nel 1940, proprio nel momento in cui le truppe di Hitler invadevano le vicine Norvegia e Danimarca). Quattro anni dopo, nel 1948, diventato direttore dello Stadstheater di Göteborg, il regista svedese si misura per la terza volta con il testo. La scena di Carl Johan Ström è concepita su due livelli collegati da scale a chiocciola; le streghe sono sempre presenti sulla scena, "una nera come la fuliggine, una rossa come il sangue e una verde lucida "come una batrace"". Come ha ricordato lo stesso Bergman nella sua autobiografia Lanterna magica, le prove sono animate dallo scontro tra il regista e il protagonista Anders Ek: nella visione più "ideologica" dell’attore, le azioni del personaggio sono conseguenza delle condizioni sociali, mentre per il regista sono piuttosto la manifestazione di una malvagità insita nell’essere umano. Per Ek, Macbeth è una vittima delle circostanze mentre Bergman è più interessato ai dilemmi morali del personaggio e al suo progressivo decadimento morale.

Pochi anni dopo (siamo nel 1952), un’altra scena su due piani (come sarà anche quella dello spettacolo di José Quintero con Jason Robards jr. e Siobhan McKenna nel 1959). La disegna Piero Zuffi al Piccolo Teatro per lo spettacolo di Giorgio Strehler con Gianni Santuccio e Lilla Brignone, e la traduzione di Salvatore Quasimodo. La parte inferiore della scena, nelle parole di Roberto De Monticelli, "era una sorta di luogo deputato delle angosce, dei dubbiosi soliloqui, degli atroci dialoghi coi quali i due coniugi saldano, anello dopo anello, la loro catena di delitti: mentre sopra viaggiava la notte di Scozia nordica e barbara, con uccelli funesti, le maschere delle streghe, gli elmi a cono dei guerrieri; le barbe dei vecchi re e dei vecchi mendichi, bianche e immobili come pezzi di ghiaccio" ("Epoca", 9 febbraio 1952). Con molti tagli (compresa l’apparizione dell’ombra di Banquo), togliendo spazio al soprannaturale, la tragedia viene proiettata in una dimensione soprattutto interiore, psicologica.

Curiosamente le streghe vengono eliminate – in quanto considerate proiezioni del protagonista, che ne recita le battute in playback – anche da Tino Buazzelli (che debutta come regista di se stesso, in una polemica volta a rivalutare la centralità dell’attore) nel 1966 al Teatro San Babila di Milano. Ma in scena c’è un’altra magia: la scenografia di Josef Svoboda, fatta di luce e di elementi geometrici che calano dall’alto o emergono dal pavimento.

Un’altra coppia di fotografie in bianco e nero: questa volta due primi piani del sovrano o, siede sul trono e medita. La prima, scattata a Stratford nel 1955, mostra Laurence Olivier nello spettacolo di Glen Byam Shaw (con la Lady di Vivien Leigh): per Olivier Macbeth ha già deciso di uccidere Duncan prima ancora dell’incontro con le streghe, il suo è un piano preordinato dove il soprannaturale non ha un ruolo decisivo. È un uomo malvagio, e proprio per questo è ancora forse padrone del proprio libero arbitrio. Ecco dunque l’attore assumere la maschera dell’ambizione e della crudeltà – che in base a un feroce paradosso è l’unica possibile maschera della libertà. Peter O’Toole, all’Old Vic nel 1980, regia di Bryan Forbes, pare al contrario accasciato su un trono che sembra troppo grande. Anche il mantello lo sommerge, lo scettro pare pesargli, la corona lo sovrasta: è un uomo che non riesce a venire a patti con la sua colpa, che non riesce a pulire le mani dal sangue delle sue vittime, un ghigno folle che sembra un sorriso.

Ora un cerchio nero tracciato sul pavimento di legno e, insolitamente vicino, un respiro. È quello di Ian McKellen e Judy Dench, nello spettacolo allestito da Trevor Nunn nel 1976 dalla Royal Shakespeare Company a The Other Place. Lo spazio è raccolto, intimo. Non esiste palcoscenico, il pubblico forma un cerchio intorno alla linea nera. I toni sono sommessi, la recitazione vicina a quella cinematografica. Spesso gli attori restano a osservare la scena anche quando non sono coinvolti nell’azione: questo Macbeth è un rituale corrotto, di cui gli spettatori sono emozionati e imbarazzati testimoni. Ian McKellen – pur indossando una divisa da fascista degli anni Trenta, pur programmando freddamente gli omicidi – resta tuttavia affascinante, quasi affabile.

Le immagini s’inseguono, accelerano il ritmo. E chissà quante ne abbiamo perse (per esempio tutte le messisene dell’opera di Verdi, "la riduzione teatrale di una lettura romantica di Shakespeare" secondo George Steiner).

Ma intanto passa come un lampo la voce roca, stridula, tagliente, di Franco Parenti (1974, Salone Pier Lombardo, regia di Andrée Ruth Shammah) nello spazio fatiscente inventato da Maurizio Fercioni: forse una chiesa sconsacrata, forse un teatro in rovina. Quella voce inconfondibile s’avvita nelle parole che Giovanni Testori ha messo in bocca a Macbetto, in quella sua lingua mista di dialetti e di latino, popolare e preziosa, devastata e distorta, ossessiva e ritmica, infarcita di assonanze e balbettii. La compagnia degli scarrozzanti si è in pratica ridotta a Macbetto e alla sua Ledi (Francesca Benedetti). Nel loro interminabile e sanguigno diverbio, infarcito di metafore sessuali e scatologiche, dibattono della natura del potere, si lacerano nell’eterna lotta tra Uomo e Donna, s’annullano in una ribellione anarchica e velleitaria contro il mondo. (Non è ovviamente l’unica riscrittura del testo nel Novecento: basti pensare a quella praticamente contemporanea – è del 1972 – di Eugène Ionesco, Macbett, un’altra "pièce sulla follia del potere", ispirata al saggio di Jan Kott in Shakespeare nostro contemporaneo; forse a questo proposito vale la pena di ricordare che Brecht, dopo aver a lungo riflettuto sul Macbeth e sulla natura dell’eroe tragico, aveva concluso nel 1927 che "il dramma classico, senza una transvalutazione dei suoi concetti e idee essenziali, non può sopravviere", GW, vol. XV, p. 119.)

Adesso sono i mantelli dorati dei sovrani in una scatola nera (confezionata da Uberto Bertacca). Glauco Mauri (la regia è di Egisto Marcucci, 1980) offre la radiografia di una nevrosi, rinunciando a ogni sottolineatura politica: in scena resta quasi solo il protagonista, angosciato e solipsista, a recitare le sue battute come un copione scritto da altri. Nove anni prima, lo stesso Mauri era parso più convincente, in coppia con Valeria Moriconi, sotto la guida di Franco Enriquez, che sottolineava gli aspetti rinascimentali, più che medievali, e l’impatto del mondo moderno, con la nascita della scienza, sul testo: anche se poi gli incubi e gl’incontri con le streghe mal si adattano a un eroe machiavellico. La scena di Emanuele Luzzati era un labirintico castello, ma anche prigione e deserto – ma che soprattutto rivelava la struttura di un cranio, di un ambiguo Golgota (lo spettacolo avrà anche una versione televisiva, che andrà in onda sul Secondo Programma il 20 febbraio 1975; è il secondo Macbeth prodotto dalla Rai, dopo quello con Enrico Maria Salerno ed Elena Zareschi, regia di Alessandro Brissoni, in onda il 4 novembre 1960).

Lo sguardo scivola su un pavimento bagnato, illuminato da riflettori da fotografo o da ripresa cinematografica. Tra quelle pozzanghere nel 1981 la Compagnia del Collettivo porta in scena nel 1981 un "incubo bagnato (il bagnato dei cattivi sogni, quasi il pisciarsi addosso dell’infanzia)" molto vicino alla cronaca di un’Italia insanguinata dal terrorismo. "Macbeth è crearsi una realtà, puntarci tutto sopra (profezie, ruolo sociale – ti ricordi la lezione che Brecht ha visto in America con i coniugi Macbeth che vogliono fare le scarpe al capufficio o qualcosa del genere? – identità tra gesto e progetto, ecc.) e poi accorgersi in ritardo … l’irreparabilità del gesto, quando spogliato del suo significato il gesto torna ad essere un assassinio tout-court" (Luigi Allegri, Tre Shakespeare della Compagnia del Collettivo/Teatro Due, Liberoscambio, Firenze, 1983, p. 119). In un orizzonte ridotto a riproduzione cinematografica, l’unica possibilità concessa a Macbeth – in un mondo ostile e vuoto di senso, dove tutti gli strumenti d’interpretazione appaiono infidi – è il gesto bruto, senza mediazioni intellettuali o estetiche.

Ora una corazza. È quella ispida e lucente che s’infila e si toglie, pezzo dopo pezzo, quasi montando e smontando se stesso, Carmelo Bene, che nel suo percorso shakespeariano di distruzione della rappresentazione e dell’io (che della rappresentazione è il fulcro) approda nel 1983 a uno spettacolo che "sarà la fine di ogni teatro possibile": "Quanto a me attore, quest’anno tolgo di scena il Macbeth. Era l’ora. Ma gli è che certe operazioni non si può progettarle, così, a caso. Perché? Perché Macbeth è l’eroe annientato dal suo stesso progetto. Macbeth non è spettacolo tra gli altri. Si è Macbeth a cervello sprogrammato. Non si può a piacer nostro di tempo programmare l’azzeramento di se stessi. Sarà stato, al contrario, necessario traversare la vita a gran fendenti; fronteggiare quindi la coscienza in-felice, e incontrare Madonna Solitudine, e, infine, detto addio a questa signora, uscir di sé definitivamente. "Uscir di sé", così si è insoliti ingiuriare i pazzi. Io ci sono vicino, ché, non più a me compagna la solitudine, incomincio davvero "a essere stanco del sole"" ("Macbeth" o il tramonto della solitudine, ora in Carmelo Bene, Opere, Bompiani, Milano, 1995, p. 1197-98).

Lo stesso anno tocca anche a Vittorio Gassman (autore della traduzione integrale, oltre che protagonista e regista) e Annamaria Guarnieri. "Mi sento solare, aggressivo, pronto alla guerra. Otello lo feci vecchio, piegato. Macbeth è un uomo nel pieno della virilità e l’ossatura del mio mestiere è somigliare all’età che si vuole avere". Anche se lo spettacolo attira qualche critica: "Una lettura onnicomprensiva e onnivora, da primattore, che pone il protagonista sì al centro della scena, ma anche al centro di una complessa rete di rimandi e citazioni. In realtà così Gassman sottrae il segno della sua lettura a una scelta chiarificatrice. (…) Un Macbeth da palinsesto televisivo, per accontentare i gusti di tanti spettatori" (Rita Cirio, "l’Espresso", 12 febbraio 1984).

Il Macbeth di Leo, nel 1987 (un ritorno, dopo il Sir and Lady Macbeth con Perla Peragallo, a cavallo tra i Sessanta e i Settanta), è l’ennesima tappa del suo percorso sapienziale attraverso Shakespeare. Per liberarsi dal Male, suggerisce lo spettacolo, è necessario prima conoscerlo e poi ucciderlo. Il lavoro è anche l’approdo della sua scuola per attori, della trasmissione di una maestria attraverso la pratica di palcoscenico: Leo è in pratica l’unico personaggio con la parziale eccezione della Lady di Francesca Mazza) a emergere dal coro dei comprimari sussurranti e immersi nella penombra.

Un sipario che si abbassa. Accade a Brescia, nel dicembre 1987, alla terza ora del Macbeth con Gabriele Lavia (che firma anche la regia). Quando Monica Guerritore sta per recitare la drammatica scena della morte di Lady Macbeth, il pubblico del Teatro Grande inizia a ridere e tossicchiare perché in terza fila uno spettatore russa rumorosamente. Il regista-protagonista perde la pazienza e malgrado gli applausi del pubblico la tragedia resta incompiuta.

Poi una cascata di pietre. S’abbatte sul palcoscenico dello spettacolo di Eimuntas Nekrosius da una serie di ponteggi sospesi e segna il punto di svolta del Makbetas (1999), il momento in cui la catastrofe del vulnerabile e ambizioso protagonista (Kostas Smoriginas) diventa irreversibile. Ancora una volta, le parole di Shakespeare evocano un labirinto di invenzioni gestuali e visuali in apparenza assolutamente libere.. Ancora una volta, Nekrosius costruisce una grammatica di materiali primari, essenziali, originari: legno, metallo, ghiaccio, pietre…Il regista lituano, lavorando su testi radicalmente sfrondati e ridotti all’essenziale, riesce così a illuminarne il senso profondo, a renderlo immediatamente percepibile, palpabile. Anche il casting delle streghe, intorno alle quali è costruito l’intero spettacolo, va controcorrente: sono assai giovani e carine (oltre che dispettose): "Le streghe sono la forza motrice del Macbeth di Shakespeare", spiega il regista. "Nessuno le ha viste, nessuno le conosce, sono un prodotto della nostra coscienza, della nostra immaginazione. Nello spettacolo abbiamo delle belle streghe. Del resto, anche la bellezza è una strega".

Già, le streghe... Giacomo I era affascinato dall’argomento, al quale aveva dedicato un trattato (Shakespeare era con ogni evidenza informato di questo interesse regale). Ma per il moderno spettatore teatrale, illuminista e smaliziato, l’apparizione del soprannaturale pone sempre un problema di credibilità: in un suo celebre saggio centrato sul problema della messinscena del Macbeth, Gli spettri nelle tragedie di Shakespeare, Edward Gordon Craig scriveva: "Per certe persone è comodo dire che Shakespeare viveva in un’età stranamente superstiziosa e che traeva i suoi soggetti da un’epoca e un paese imbevuti di superstizioni. Giusto cielo! Ma è così strana l’idea di uno spettro, l’idea di uno spirito? Allora tutto Shakespeare è strano e innaturale e bisognerebbe dare in fretta alle fiamme la maggior parte della sue opere, perché noi non vogliamo nulla che si possa chiamare strano e innaturale, nel ventesimo secolo" (Il mio teatro, a cura di Ferruccio Marotti, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 152).

Il teatro, essendo un’arte non realistica che però vive nella realtà, ha ovvie difficoltà a misurarsi con il soprannaturale – lo riduce a trucco, a guitteria. Il cinema, dove l’orrore e il noir sono da sempre un genere, ha maggior dimestichezza con spiriti e apparizioni. Ed è forse grazie e questa familiarità con il fantastico che nei tre grandi film tratti dal Macbeth (quelli di Orson Welles, Akira Kurosawa e Roman Polanski) le streghe abbiano un ruolo centrale, sia dal punto di vista drammaturgico sia dal punto di vista visivo.

Il Macbeth di Welles (1948), come molti Macbeth e come molte opere di Welles, ha un chiaro protagonista, che in questo caso è anche produttore, regista e adattatore, insomma onnipresente dietro e davanti alla macchina da presa. Il film non nasce direttamente dalla messinscena di Harlem per il Federal Theatre ma dallo spettacolo allestito nel 1947 per lo Utah Centennial Festival (e infatti ne riprende la scenografia espressionista-surreale). Man mano che la trama procede, ci si inabissa nel castello – oscure caverne cantine popolate da incubi che sono anche metafora della mente del protagonista. A determinare la sua caduta non saranno le truppe di Malcolm e Macduff ma le streghe – che peraltro non compaiono mai, ridotte a puro suono. Sono loro che, come avverte la voce di Welles nel prologo, "tramano contro la legge e l’ordine, agenti del caos, sacerdotesse dell’inferno e della magia".

L’adattamento di Akira Kurosawa (1957) trasferisce la vicenda ai tempi della guerra civile che lacerò il Giappone tra il 1392 e il 1568, combinando la trama shakespeariana con elementi del No tradizionale, del western e della pittura giapponese. Il titolo originale non è Trono di sangue ma Il castello della tela di ragno. Racconta lo stesso regista: "I castelli venivano costruiti con alberi che venivano fatti crescere come a formare un labirinto. Quel bosco veniva chiamato: "il bosco della tela di ragno", perché intrappolava gli invasori proprio come una tela di ragno. Ecco come mi è venuto in mente il titolo". E il Castello della Tela di Ragno è indimenticabile: soffitti bassi, colonne squadrate, spazi articolati per linee orizzontali.. A essere impenetrabile e immutabile è anche l’ordine sociale contro cui si scontra l’ambizione di Washizu: qualunque cosa faccia, qualunque decisione prenda, il suo sarà un percorso obbligato. A sancire la fine di Washizu-Macbeth sarà la fusione di due foreste: quella "civile" del Castello, e quella reale, che ci ricorda che esiste un ordine naturale.

L’ultimo film (e le ultime immagini) sono quelle del Macbeth di Roman Polanski (1971), un incubo assurdo e sanguinario, una delle più efficaci esemplificazioni che "la vita è una favola che non significa nulla" e che la storia è solo un ciclo di violenza che genera altra violenza. Tra l’altro il regista polacco amplia il ruolo dell’opportunista e facilone Ross: è lui il punto d’equilibrio della politica, sarà lui a proclamare Malcolm re di Scozia. Fin dalla prima sequenza – una spettacolare visione in Technicolor di una spiaggia che, dopo averci fatto incontrare le Tre Sorelle impegnate in un terribile rituale, ci conduce alla mattanza di un campo di battaglia e alle esecuzioni dei prigionieri – l’orrore appare un fatto naturale, profondamente compenetrato con la realtà. All’inizio, prima del degrado e della follia, la coppia dei coniugi (Jon Finch e Francesca Annis) è giovane e piacente – ma senza figli. Sarà questo vuoto – che s’avverte soprattutto nella scena in cui Duncan annuncia che a succedergli sarà suo figlio Malcolm – a spingerli a uccidere padri e figli. Anche se c’è chi uccide proprio perché ha dei figli.

L’ultimo suono. Chiunque sia entrato in una prigione se lo porta dentro per sempre. È il clangore che riecheggia dietro di noi quando alle nostre spalle si è chiusa la porta della libertà. Nell’estate del 1999 i detenuti del carcere di Volterra hanno portato in scena il Macbeth. Spiega Armando Punzo: "Siamo partiti dal potere pensando per molto tempo che il Giulio Cesare fosse il nostro testo, poi il Riccardo III, poi è accaduto qualcosa dentro di noi che ci ha fatto rivolere il nostro sguardo al Macbeth. Ci ha portati a dialogare con l’assenza di luce che emanano queste figure maledette, come un’amara consapevolezza del nostro ruolo e della nostra funzione. Arriva un momento in cui non è possibile sottrarsi a se stessi. Non potevamo dopo tanti anni di lavoro in carcere non arrivare a confrontarci con il male e con il bene, il delitto, il crimine, l’assassinio, l’incubo e sulla funzione catartica ed educativa che il Macbeth avrebbe potuto avere sul pubblico e sugli attori".

Courmayeur, Noir in Festival, 7-10 dicembre 2000

 

BIBLIOGRAFIA

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copyright Oliviero Ponte di Pino 2000

 


La scheda dello spettacolo

 

MACBETH

 

di William Shakespeare

traduzione Masolino d’Amico

adattamento Giancarlo Cobelli

 

con Kim Rossi Stuart, Sonia Bergamasco, Desir Bastareaud, Francesco Benedetto, Giuliano Brunazzi, Rino Cassano, Francesco Cifani, Lea Cirianni, Leonardo Di Gioia, Giulia Innocenti, Germano Maccioni, Gianluca Morini, Giuliano Oppes, Valerio Peroni, Alessandra Tomassini, Gian Paolo Valentini

 

regia Giancarlo Cobelli

 

scene e costumi Carlo Diappi

luci Robert John Resteghini

suono Alessandro Saviozzi

regista assistente Pierluigi Pagano

 

assistente alle scene Valentina Dellavia

assistente ai costumi Chiara Donato

 

produzione Emilia Romagna Teatro-Teatro Stabile Regionale, Nuova Scena–Arena del Sole-Teatro Stabile di Bologna

 

Dopo quattro anni dall’allestimento di Un patriota per me di Osborne, Giancarlo Cobelli torna a Modena per mettere in scena Macbeth di William Shakespeare, spettacolo coprodotto da Emilia Romagna Teatro- Teatro Stabile Regionale e da Nuova Scena-Arena del Sole-Teatro Stabile di Bologna. Lo spettacolo si inserisce in un progetto più ampio realizzato in occasione del centenario verdiano: per completare l’omaggio al grande musicista infatti, Cobelli metterà in scena la tragedia shakespeariana nella doppia versione, in prosa e in lirica quest’ultima coprodotta dai Teatri Comunali di Modena e Ferrara e dal Municipale di Piacenza.

Sulla scena, Kim Rossi Stuart e Sonia Bergamasco nei ruoli principali: due interpreti giovani ma già protagonisti della scena teatrale italiana per dar vita alla passione, all’ardore, all’ambizione, a emozioni e tensioni proprie della giovinezza.

Due versioni per un unico allestimento, per un’unica indagine registica che ha come punto di partenza e nucleo fondante l’opera in prosa, dalla quale scaturisce la versione lirica.

"Il Macbeth- scrive Andrew Cecil Bradley- lascia nella maggior parte dei lettori una profonda impressione delle sofferenze di una coscienza colpevole e della ricompensa che riceve il delitto…Ma ciò che Shakespeare sentì, forse, anche più profondamente, quando scrisse questo dramma, fu l’incalcolabilità del male: il fatto che quando vi si invischiano, gli esseri umani non sanno quello che fanno. L’anima, sembra dirgli la sua sensibilità, è qualcosa di tale inconcepibile profondità, complessità, e delicatezza. che quando vi introducete, o tollerate che vi si sviluppi, un qualsiasi cambiamento, e in particolare il cambiamento chiamato male, non potete formarvi che un’idea molto vaga delle reazioni che avverranno in voi. Tutto ciò di cui potete essere sicuro è che esse non saranno ciò che vi aspettate, e che non sarà possibile evitarle."

Sulla traduzione di Masolino d’Amico, l’adattamento di Cobelli opera una riduzione: scelta funzionale alla concentrazione della scena e della sala, che permette di costruire un concertato teso, che faccia deflagrare in scena il tragico disfacimento delle anime e dei corpi. Un’azione che erompe selvaggia sulle lande di una Scozia arcaica, estremo lembo del mondo, per procedere con furia veemente in un’angoscia che non conosce respiro sino alla prima terrificante crisi: il massacro della sacralità regale di Duncan. Su queste macerie germoglia la tirannia di Macbeth incoronatosi re, e le ribellioni della sua coscienza sono sconfitte dall’alleanza tra le forze del male e la ferrea ambizione della consorte Lady Macbeth. Travolto nel guado di sangue della sua carneficina, inchiodato in un allucinato clima da incubo, Macbeth si trascina con ciò che resta della sua breve esistenza sino alla ‘Fine’ perdendo via via ogni connotato o sembianza umana. Nel loro delirio i due protagonisti raggiungono stature mitiche grazie anche agli echi che si rifrangono in loro di Lucifero o Prometeo o, nel loro rapporto, di Adamo ed Eva e della loro grande disobbedienza.

Potenzialità negative dell’anima, passione, disgregamento morale e fisico, solitudine: questi i punti cardini della tragedia, la base su cui Cobelli costruirà le fondamenta di questa messinscena. Il male insito nell’animo umano, la contrapposizione di forze che continuamente entrano in conflitto nella vita, dalle quali scaturiscono inganni, ambizioni e persino follia. Ma soprattutto la passione, non l’amore in questo caso, ma una passione amorosa talmente forte (e folle) da portare ad un ineluttabile disgregamento morale e fisico. Sentimenti che fatalmente conducono i protagonisti –e non solo- a passare da una situazione di relazione comunitaria alla solitudine più assoluta: Lady Macbeth preda del sonnambulismo, della pazzia, del suicidio e Macbeth che, negli ultimi giorni della sua esistenza, verrà stanato come un animale e ucciso, ‘quasi fosse una battuta di caccia’ dice Cobelli, tra i rami della foresta di Birnam.

27 febbraio 2001, al Teatro Storchi di Modena

 

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