ateatro 105.9
Sulla natura teatrale del Test di Turing
In appendice a Valeria Patera, La mela di Alan. Hacking the Turing Test, Di Renzo, Roma, 2007
di Oliviero Ponte di Pino
 



Un testo teatrale o uno spettacolo che hanno per protagonista Alan Turing, l’inventore della Macchina e del Test che portano il suo nome, costringono – per la stessa natura dei temi trattati – ad alcune riflessioni sul teatro e a una parallela serie di riflessioni sulla scienza. E naturalmente a qualche pensiero sul rapporto tra teatro e scienza.

(La Macchina di Turing è l’archetipo di tutti i moderni computer – o meglio, di tutti i possibili calcolatori umani ed elettronici. E’ dunque il punto di partenza di ogni discussione sull’intelligenza artificiale.
Si può immaginare la Macchina di Turing come un apparato collegato a un nastro di lunghezza infinita, che può compiere operazioni semplici. Dopo aver letto il simbolo su una casella del nastro, la Macchina può cambiare il simbolo sulla casella e/o spostarsi a destra o a sinistra entro un certo numero di caselle; sceglierà quali operazioni svolgere in base al proprio “stato della mente”, ovvero alla propria configurazione interna; inoltre l’osservazione dei simboli sul nastro potrà cambiare il suo “stato della mente”.
Per fare tutto questo alla Macchina di Turing sono sufficienti lo 0 e l’1 del codice binario e gli operatori logici.
Al di là delle sue implicazioni filosofiche – da un lato il problema della decisione di Hilbert e il teorema di incompletezza di Gödel, dall’altro il grande enigma della mente – e delle sue applicazioni pratiche, l’intuizione di Turing è straordinaria perché offre una connessione diretta tra i simboli astratti e il mondo fisico.)

(Il Test di Turing è ispirato a un gioco di società e di ruolo, centrato sull’identità di genere: l’interrogante deve determinare, sulla base esclusiva di risposte scritte, quale degli altri due giocatori – chiusi in un’altra stanza – sia un uomo e quale una donna. L’uomo ha per obiettivo di ingannare l’interrogante, la donna invece quello di aiutarlo.
Lo stesso meccanismo si può applicare – questa l’intuizione di Turing, semplice, geniale e molto discussa – anche al pensiero o all’intelligenza: basta sostituire all’uomo e alla donna un calcolatore – o meglio una Macchina di Turing – e un essere umano.
A rendere celebre il Test di Turing è stata soprattutto la prima scena del film
Blade Runner di Ridley Scott, tratto dal romanzo di Philip Dick Do Androids Dream of Electric Sheep?, dove viene utilizzato per smascherare gli androidi.)

Qualche semplificazione sarà inevitabile, altrimenti il discorso rischia di farsi lungo e un po’ noioso. Ma proviamo ugualmente a tirare alcuni fili, anche se sono molti e di diversi colori: dunque il disegno sul tappeto sarà un po’ sgangherato e i fregi avranno qualche incoerenza.
O forse emergeranno solo suggestioni, analogie un po’ stiracchiate o addirittura infondate, fuorvianti: e il disegno sul tappeto risulterà confuso, sfuocato.

(Anche Charles Babbage, mentre inventava la sua Macchina Analitica, si ispirò alle schede perforate impiegate nei telai per tessere complicati disegni sul broccato.)

Per cominciare, immaginiamo che ogni personaggio letterario o teatrale – in questo caso l’Alan Turing immaginato da Valeria Patera – sia un nastro prodotto da una Macchina di Turing e che al lettore venga proposta una variante del Test di Turing. In effetti abbiamo una striscia di segni (un testo facilmente riducibile a un nastro di 0 e 1) e dobbiamo immaginare quello che succede “là dentro”, figurare chi c’è “dietro”.
Siamo molto bravi a farlo, e ci piace moltissimo immaginare lo “stato della mente” delle invenzioni letterarie. Ci riveliamo abilissimi nel riempire i buchi della storia, a coprire i salti nello spazio e nel tempo, a non accorgerci delle incongruenze logiche. A ricostruire – nel nostro “stato della mente” – una narrazione.

(Ovviamente ci sono enormi differenze tra la lettura di una pagina scritta e il Test di Turing. Per esempio, la “sospensione dell’incredulità”: noi sappiamo che quello che stiamo leggendo è “finto” e ciononostante ci commuoviamo come se fosse “vero”.
Alan Turing era pressoché incapace di mentire.)

Ora proviamo a pensare a un attore che legge il copione e deve interpretare un personaggio. Magari l’Alan Turing del testo di Valeria Patera. Anche qui, possiamo immaginare un’altra variante del Test di Turing.
Quando i comici arrivano al castello di Elsinore, Amleto assiste a una sorta di prova e vede l’attore immedesimarsi nel personaggio:

“Non è mostruoso che quell’attore lì, / solo fingendo, sognando la sua passione / possa forzare l’anima a un’immagine / tanto da averne il viso tutto scolorato, / le lacrime agli occhi, la pazzia nell’aspetto / la voce rotta, e ogni funzione tesa / a dare forma a un’idea? / E tutto ciò per niente! / Per Ecuba! / Ma chi è Ecuba per lui, o lui per Ecuba / da piangere per lei?”
(Amleto, II, 2, trad. Nemi D’Agostino, Garzanti, Milano, 1984)

Chi è Turing per l’attore, o l’attore per Turing, da piangere per lui?

(Ai tempi di Shakespeare, come in altri momenti chiave della storia del teatro, alle donne era vietato calcare le scene. Dunque nell’Amleto l’attore che interpretava Ecuba era un giovane uomo che recitava en travesti, dissimulando la propria identità sessuale.
Inutile sottolineare il ruolo dell’omosessualità di Turing e le dissimulazioni dell’identità sessuale in un ambiente repressivo nell’ideazione di un test che obbliga uno dei giocatori a mentire sul proprio sesso.
Ma che cosa succede nell’interiorità di un attore quando si cala nel personaggio? Deve davvero provare le sue stesse emozioni, i suoi stessi sentimenti? Oppure deve semplicemente produrre con il proprio corpo – a freddo – i segni attraverso cui lo spettatore riconoscerà quelle emozioni e quei sentimenti?
Quale deve essere lo “stato della mente” dell’attore quando interpreta un personaggio?
Nella prospettiva dell’intelligenza artificiale, il paradosso dell’attore caro a Diderot – che parla proprio di questi due diversi modi di essere attore, quello in grado di immedesimarsi nel personaggio caro a Stanislavskij e la supermarionetta di Kleist e Gordon Craig – evoca il problema della mente. E’ riduzionisticamente possibile scomporre tutte le operazioni del cervello umano – e dunque la sua biologia – come se fosse una Macchina di Turing? Oppure è necessario qualcos’altro? Magari l’anima?
Questa divagazione rimanda a una nota variante del Test di Turing, quella della stanza cinese immaginata da John Searle. Non conosciamo il cinese e siamo chiusi in una stanza dove abbiamo a disposizione un testo da tradurre in quella lingua, una cassettiera con tutti i possibili ideogrammi e un manuale con le regole di traduzione; se applicando quelle regole riusciamo a dare una corretta traduzione in cinese del brano che ci è stato assegnato, possiamo con questo dire di conoscere e di capire il cinese?
Insomma, un traduttore elettronico o meccanico può davvero “capire” un testo? E’ sufficiente utilizzare correttamente un insieme di regole formali per essere intelligenti?Per avere una mente – e un “io” – basta che l’hardware dei circuiti elettronici, oppure di neuroni e sinapsi, superi una certa massa critica?
C’è chi, come George Steiner, ipotizza che senza un principio trascendente il linguaggio non possa avere senso.)

Ora stiamo osservando un uomo. Tutti lo chiamano Alan Turing, parla come Alan Turing, è vestito come Alan Turing, si muove come Alan Turing, gli succedono le cose che capitano ad Alan Turing. Forse vive le stesse emozioni di Alan Turing.
Ma non è Alan Turing, lo sappiamo benissimo. Eppure allo stesso tempo, in momenti come questi, crediamo che sia Alan Turing: tanto è vero che possiamo piangere (o ridere) di quello che gli accade, soffrire e gioire delle sue vicissitudini.
Sappiamo che non è lui e crediamo che sia lui. Non è logico.

(C’è un aspetto simpaticamente teatrale nel Test di Turing: per superare la prova, la Macchina deve fingere, per simulare in maniera convincente il comportamento di un essere umano. Insomma, per prima cosa la Macchina di Turing deve imparare a recitare.
Se per esempio le viene sottoposto un complicato calcolo matematico, un’operazione che è in grado di eseguire correttamente in poche frazioni di secondo mentre il suo concorrente umano dovrà impegnarsi per settimane e magari sbagliare, la macchina calcolatrice non può seguire il proprio “istinto” ma deve tergiversare, forse inventarsi un risultato sbagliato – credibilmente sbagliato.
Insomma, per superare il Test la Macchina di Turing deve diventare un attore.
Anche il ricorso a una logica non strettamente aristotelica e l’empatia sono probabilmente tra gli elementi critici necessari per superare il Test di Turing.
Potremmo chiederci se anche la Macchina di Turing ha bisogno dei neuroni specchio o se può farne a meno. In altri termini, è possibile pensare una mente senza un corpo?)

(Parentesi nella parentesi: la scena della recita dell’
Amleto è l’esempio più classico di “teatro nel teatro”, ovvero di mise en abyme, che in campo artistico è l’equivalente del paradosso del mentitore. Ceci n’est pas une pipe è il titolo del celebre quadro di René Magritte che raffigura proprio una pipa.
Teatranti, pittori e scrittori usano da sempre la
mise en abyme per arricchire gli effetti della loro arte, e al tempo stesso per riflettere sulla sua natura – e magari anche per regolare i conti con i rivali: per esempio Shakespeare nell’Amleto se la prende con le compagnie di ragazzini che andavano molto di moda e facevano concorrenza ai suoi Queen’s Men...)

Vediamo il nostro Alan Turing e gli altri attori muoversi sulla scena dal momento in cui si apre il sipario al momento in cui si chiude. Si possono usare altri marcatori per delimitare la rappresentazione (e si possono anche pensare confini più fluidi tra lo spaziotempo feriale e quello festivo), ma la sostanza non cambia: la rappresentazione ha un inizio e una fine nel tempo e nello spazio.
Di più. La rappresentazione è stata – almeno nelle grandi linee – preparata in anticipo: il drammaturgo ha scritto il copione, lo scenografo ha allestito lo spazio, gli attori hanno imparato la parte a memoria, il regista ha delineato i loro gesti e movimenti. Ancora, proprio grazie a questo lavoro preparatorio la rappresentazione può essere replicata: lo spettacolo è andato forse in scena ieri sera e forse tornerà in scena domani.
Per molti aspetti, è la struttura di un esperimento scientifico.

(Gli spettatori guardano verso l’alto. La scenografia è la Torre di Pisa, il teatro è piazza dei Miracoli. Questa volta gli attori sono due sfere o, come è scritto nel copione, due “gravi”: quale toccherà terra per prima? Quanto tempo ci metterà? Lo spettacolo è destinato a passare alla storia: è infatti il più classico degli esperimenti scientifici.
Galileo Galilei, regista dell’evento, è figlio di Vincenzo, musicista e uomo di spettacolo. Lo stesso Galileo è autore di testi teatrali per certi versi assai curiosi: in uno di essi, per esempio, fa sostenere dal personaggio del contadino dall’aspetto di sempliciotto – il finto tonto, diciamo – la teoria eliocentrica, mentre invece qualche anno dopo, in un curioso rovesciamento di posizioni, nel
Dialogo sui massimi sistemi Simplicio sarà il goffo sostenitore della visione aristotelica.)

Una quindicina d’anni fa la computer designer Brenda Laurel ha scritto un saggio fondamentale sulle interfacce, Computers as Theatre (Addison Wesley, Reading, Mass, 1991). Secondo Brenda Laurel, come è evidente fin dal titolo, il teatro ci offre la metafora più chiara ed efficace del rapporto tra l’uomo e il computer. Lo confermano l’intera storia dei videogame, dei giochi di ruolo, delle chat... (Un’altra metafora assai diffusa delle interfacce è quella della scrivania, il desktop.)
Qualche anno dopo una progettista di sistemi interattivi, Janet Murray, in Hamlet on the Holodeck. The Future of Narrative in Cyberspace (MIT Press, Harvard, Mass., 1998) ha studiato le forme della comunicazione e della narrazione nell’era dei computer e di internet, per tracciare una “poetica del cyberspazio” e delineare la figura del “narratore virtuale”.
E’ buffo e curioso (insomma, sintomatico) che per maneggiare il frutto più tipico della modernità, per coglierne tutta la forza dirompente, sia stato necessario utilizzare come riferimento un medium come il teatro, così antiquato e insieme profondamente inscritto nell’essere umano e nel suo modo di vedere e capire il mondo.
Del resto ormai la Macchina di Turing non è in grado solo di simulare il comportamento della mente umana (o almeno di simulare alcuni dei suoi comportamenti). Ora, pochi decenni dopo la visione di Turing, il computer è anche in grado di creare – come il teatro – mondi paralleli, alternativi. Il simbolo – lo 0 e l’1 del codice binario – crea la realtà: immagini, suoni, azioni... L’uso di nuove interfacce (sensori, visori, datagloves, eccetera) apre un vertiginoso ventaglio di possibilità.
Nasce la Realtà Virtuale. O, se preferite, riappare il Gran Teatro del Mondo.

(Gli scienziati hanno progettato e utilizzato i primi calcolatori elettronici per eseguire rapidamente una gran mole di calcoli complessi e ripetitivi. Progressivamente però hanno iniziato a utilizzare i computer anche per creare modelli di simulazione.
A parte l’osservazione diretta della realtà e la ricerca sul campo, i modelli di simulazione sono diventati ormai il terzo strumento della ricerca scientifica, accanto alla teoria e agli esperimenti di laboratorio.
I modelli di simulazione offrono al ricercatore diversi vantaggi: costringono a adottare una struttura logica ferrea e coerente nella scelta e definizione delle variabili e nelle procedure con cui farle interagire, eliminando buchi e contraddizioni nascoste; sono aperti all’interazione e anzi la sollecitano, in molte forme: dal cambiamento dei valori delle variabili e delle variabili stesse alle diverse modalità di gioco e interattività; offrono una mappa che muta nel tempo e dunque restituiscono meglio dei modelli bi- o tridimensionali il flusso e il cambiamento; la struttura narrativa consente inoltre all’osservatore di cogliere la loro logica attraverso la propria esperienza, in una sintesi visiva, e non solo attraverso una schematizzazione astratta e puramente quantitativa.)

I progressi degli ultimi dieci-quindici anni sono stati davvero impressionanti. Grazie a reti di sensori, green e blue screen, protesi percettive, sistemi di motion capture, motion tracking e motion graphics, tecniche sempre più sofisticate di animazione, modellazione e rendering tridimensionale (e naturalmene utilizzando programmi in grado di gestire una mole enorme di input e di calcoli), ormai i maghi degli effetti speciali e dell’animatronics sono in grado di creare e far vivere creature di stupefacente verosimiglianza, con interfacce grafiche di crescente sofisticazione.
Tra poco uno di questi avatar potrà facilmente superare il Test di Turing: sullo schermo vedremo (magari in 3D) l’attore in carne e ossa accanto al suo doppio virtuale, e non saremo più in grado di distinguere l’uno dall’altro.
Forse qualche attore virtuale è già in grado di superare il Test. Ma hanno preferito non farcelo vedere, perché pare che le animazioni troppo perfette – quelle troppo vicine al reale – generino angoscia nello spettatore.

(Quando Alan Turing decise di suicidarsi, addentò una mela in cui aveva iniettato del cianuro.
La mela è un simbolo fin troppo ovvio: il frutto dell’Albero del Bene e del Male, Newton e la scoperta della legge di gravità, Biancaneve e la Matrigna Malvagia...
Ha mangiato la mela avvelenata, ma non è arrivato nessun Principe Azzurro a risvegliarlo. Eppure lo sapeva, fin da bambino: “Quando aveva un’opinione, Alan diceva di
sapere, o di aver sempre saputo: per esempio aveva sempre saputo che il frutto proibito del paradiso terrestre non era una mela, ma una prugna”.)

Se vai in rete, su una qualsiasi chat o su un forum, puoi scegliere l’identità che vuoi. Cambiare sesso ed età, preferenze e gusti, come gli hacker nel testo di Valeria Patera. La rete è diventata un Test di Turing planetario, quella stanza chiusa è un labirinto e ora occupa l’intera rete.

(In uno dei suoi “messaggi dal mondo invisibile”, spediti pochi giorni prima della morte, Alan Turing ha annotato: “Religion is a Boundary Condition”, “La religione è una condizione al contorno”.
Negli stessi anni, Kurt Gödel affinava la sua prova matematica dell’esistenza di Dio...)

Proviamo a immaginare un Test di Turing per le condizioni al contorno. O per l’esistenza dell’anima.


 
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