ateatro 107.55
Le recensioni di ateatro La forza dell’abitudine di Thomas Bernhard
Regia di Alessandro Gassman
di Fernando Marchiori
 

Un clown colorato con cassettina al collo distribuisce caramelle al pubblico. Una figura alta e immacolata (elegante evoluzione del clown bianco) accoglie gli spettatori e spolvera le poltrone in platea con gesti affettati. Sul palco piroettano giocolieri e monociclisti, la trapezista già volteggia leggermente. Senza soluzione di continuità i numeri ci portano dentro lo spettacolo e ci presentano i personaggi. L’apertura di questo fortunato La forza dell’abitudine di Thomas Bernhard, che Alessandro Gassman ha coraggiosamente scelto per la sua prima regia, trasforma così l’intero edificio teatrale in un circo. Suggestione ottenuta anche grazie alla scenografia (di Gianluca Amodio), che chiude lo spazio scenico in una sorta di chapiteau e usa il proscenio come pista. Ma al centro del palco trova posto, realizzato nello stesso tessuto a strisce bicolori del fondale, un simulacro di tendone, una semicupola girevole all’interno della quale si gioca inesorabilmente la partita bernhardiana del teatro nel teatro.
Nei panni di Caribaldi, anziano direttore di questo circo in decadenza, Gassman disegna una silhouette che sembra la caricatura di un qualche personaggio ottocentesco uscito dal magazzino di un teatro. Ciò gli dà modo di lavorare sulle espressioni facciali, aiutato dal pesante trucco, e soprattutto su una voce che sorprende per la ricchezza di sfumature tonali, tra le quali non è difficile riconoscere anche quelle, calde e nervose, di Gassman padre, con le quali talvolta Alessandro sembra confrontarsi e quasi dialogare. In scena accanto a lui Sergio Meogrossi, Paolo Fosso e il circo di Walter, Giancarlo, Kevin e Aileen Colombaioni, ovvero i discendenti di una delle più antiche famiglie circensi italiane, già attiva nel XVIII secolo e famosa per il connubio con Federico Fellini (il nonno Alfredo era la vedette di La strada, e i suoi figli, Alfredo e Flavio, recitarono nei Clown). Come realizzare altrimenti l’assurda situazione inventata da Bernhard? Ogni giorno, da 22 anni, Caribaldi costringe i suoi artisti a provare il quintetto “La trota” di Schubert nell’illusione di recuperare la dignità e la disciplina perdute. “Precisione, precisione”, ripete ostinato mentre sogna la prima assoluta all’Arena di Verona. Tutto dev’essere sotto controllo, perché non vi è “nulla di più malefico del pressappochismo”. In realtà lo sgangherato ensemble non è mai riuscito a portare a termine, neppure una volta, l’impegnativa esecuzione. Il buffone al contrabbasso perde in continuazione il cappello, il giocoliere violinista tossisce e disquisisce, il domatore usa il pianoforte come dispensa e cantina personale (è “la brutalità a passeggio con la stupidità”), la giovane trapezista alla viola ride per niente.
In scena da tre anni, oltre 130 repliche, lo spettacolo non ha perduto freschezza e capacità di coinvolgimento del pubblico. Quasi un miracolo, trattandosi di Bernhard. Lo abbiamo visto al Comunale di Treviso, dopo un affollato incontro dedicato allo scrittore austriaco dalla Fondazione Benetton nel quale Eugenio Bernardi, Franco Quadri e lo stesso Gassman hanno tracciato un incisivo percorso nella scrittura di Bernhard e nella sua ricezione in Italia. Certo è anche il richiamo dell’attore di successo – che si schermisce quando qualcuno in sala parla di lui come di un sex symbol – a decretare il successo di questo spettacolo, ma è soprattutto la scelta di una messinscena non appiattita sugli stereotipi bernhardeschi. Gassman, che con Carlo Alighiero firma anche la traduzione, ne propone un adattamento accattivante, riuscendo nell’intento dichiarato di “far emergere la straordinaria capacità di Bernhard nel descrivere la condizione umana” ma anche in quello di mostrare il disagio e l’impotenza degli artigiani dello spettacolo di fronte alla volgarità e all’appiattimento culturale favoriti dal sistema mediatico. “Chi al giorno d’oggi crede ancora a un artista è uno sciocco”, scrive Bernhard, il quale tuttavia non fa altro che costruire la sua arte su queste rovine, come appunto sembra fare il direttore del circo Caribaldi. Il quintetto di Schubert diventa allora un pretesto per esercitare una logora partitura di tic e trucchi, mentre le ripetizioni della prosa di Bernhard si trasformano in gesti, movimenti, reazioni come variazioni sul tema. A Caribaldi cade a terra continuamente la colofonia (la pece greca per l’archetto). Lo fa apposta, secondo il domatore, così il giocoliere gliela raccoglie come un cagnolino. Un ben preciso cenno della testa e il berretto del buffone cade suscitando puntualmente la risata della trapezista. E che si tratti ancora di un dispositivo metateatrale lo rivelano non pochi indizi. All’ennesima caduta del cappello del contrabbassista, per esempio, Caribaldi esasperato propone di avvitarglielo in testa, di legarglielo alla gola con lo spago. Ma il giocoliere gli ricorda che è proprio del suo ruolo di buffone che il cappello gli cada. È di ciò che la gente ride. La conseguente disputa per stabilire quando il buffone sia o non sia in servizio così da imporgli, nel secondo caso, di calcare ben bene il copricapo, sembra un’impresa ardua quanto quella di distinguere tra attore e personaggio.
Come con Glenn Gould e le Variazioni Goldberg nel Soccombente, Bernhard indaga qui con Carbaldi e compagni l’ossessione dell’interprete come figura della malattia di vivere. Anche la coazione a ripetere che inchioda il vecchio direttore di circo all’inutile esercizio quotidiano al violoncello ha a che fare con una ricerca di senso destinata allo scacco ma insopprimibile. Caribaldi suona come se si trattasse di “penetrare la morte con un movimento dell’archetto”. In fondo lui e gli altri derelitti di quel circo che è l’esistenza umana sanno che non riusciranno mai a suonare decentemente Schubert, ma “devono” suonare lo stesso. Così come noi “non chiediamo la vita, eppure la dobbiamo vivere”.
La grande forza teatrale dei testi di Bernhard si deve al fatto che l’autore austriaco pensa l’opera come un organismo in cui tutto si corrisponde e in cui non ci sono facili concessioni al plot. Bernhard, ha sottolineato Bernardi – scherzando sull’omofonia tra tradotto e traduttore – diceva che appena vedeva profilarsi nella sua scrittura una storiella l’ammazzava. Ha sempre scritto e poi distrutto la propria scrittura. Non a caso il suo ultimo testo è intitolato alla cancellazione (la traduzione italiana è Estinzione). Classico anticlassico, Bernhard regge alla prova di un allestimento che ne cambia linguaggio e ambientazione. La scelta di collocare il circo in una tournée siciliana e di far parlare il domatore in dialetto marsicano, rendendolo quasi incomprensibile eppure efficacissimo, ha contribuito ad avvicinare la sua prosa fatta di infinite variazioni sul tema ad un pubblico come quello italiano che in passato ha dovuto subire letture più grigiamente rigorose e libresche. Nei primi allestimenti italiani infatti – ha ricordato Franco Quadri – prevaleva una rigidità che allontanava gli spettatori e non faceva comprendere il senso di certe ossessioni, l’insistenza monotematica. Da Alla meta con Valeria Moriconi (1989) al Nipote di Wittgenstein con Umberto Orsini (1992, la regia era di Patrick Guinand) al Ritter Dene Voss di Carlo Cecchi (1991), la lettura italiana sembrava più bernhardiana di Bernhard, mentre gli austriaci erano molto più liberi nonostante la presenza e il controllo diretto dell’autore. La svolta, secondo Quadri, si è avuta nel 2000 con L’apparenza inganna dei Magazzini, improntata a un assoluto realismo che si dimostrò funzionale a far emergere altri livelli di lettura. Tra le altre messinscene importanti si è citato Il riformatore del mondo, con la grande interpretazione di Gianrico Tedeschi, e la recentissima versione di Alla meta del Teatrino Giullare, nella quale gli attori sono mascherati da fantocci dando così all’azione un’inquietante impronta meccanica.
C’è da aspettarsi che l’interesse di Gassman per Bernhard produca presto qualcos’altro, visto che il popolare attore sta lavorando su due testi del drammaturgo austriaco: L’ignorante e il folle e Immanuel Kant.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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