ateatro 108.11
Dossier Ivrea 1967 Le opinioni di chi partecipò
I ricordi di Ambrosino, Bajini Barba, Calenda, Capriolo, De Berardinis, Fo, Mango, Moscati, Ricci, Ronconi, Scabia, Trionfo
di Francesco Bono
 

Nel settembre 1987, per celebrare i vent’anni dal primo, si tenne, sempre a Ivrea, un nuovo Convegno dal titolo Memorie e Utopie, organizzato dalla Provincia di Torino e dall’associazione culturale ITACA. Per l’occasione, che si proponeva come consuntivo a vent’anni di distanza del Convegno storico, furono intervistati dagli organizzatori - Alfredo Tradardi, Roberto Pellerey e Lorenzo Mango – i partecipanti di allora. Ecco i giudizi di alcuni di loro.

Nuccio Ambrosino
“Era il momento in cui la borghesia aveva bisogno di stimoli nuovi, e queste cose si facevano, anche se faticosamente. […] Il Teatro era già un fenomeno di elite allora, come lo è tutt’oggi. Già allora il Teatro aveva delle manifestazioni di fiacchezza, si invocava un pubblico nuovo perché non c’era grande frequentazione. Il Teatro, come qualunque altro mezzo di comunicazione, è anche un fenomeno proiettivo, e quando coincide la proiezione di un pubblico con quello che sta accadendo sulla scena succede un grande evento. Si diceva che un teatro nuovo vuole un pubblico nuovo. E allora cosa succedeva? Si incrociavano da una parte le esigenze artistiche di ricerca autentica, di gratificazione personale, di ambizione, e dall’altra l’esigenza di vedere se questa nuova situazione poteva essere gestita in termini politici. […]
Avevamo aderito a Ivrea perché il manifesto cercava di mettere sul tappeto quello che c’era di nuovo nel Teatro.
Di nuovo, in fondo, non si stava inventando proprio niente, era tutta aria fritta che si rimasticava, anche se si era influenzati dalla velocità della comunicazione che avevamo visto fare dal Living, oppure da altri gruppi stranieri che avevano acceso le più scatenate fantasie, e soprattutto avevano buttato giù i tabù della scena italiana, del salottino, dei personaggi costruiti in un certo modo. Si avvertiva un clima diverso, si rompeva lo schema della tradizione accademica. […] Ivrea aveva l’ambizione di mettere insieme tutte queste cose, sulla carta più che altro, con una grande volontà democratica di sincero confronto, e mischiava un po’ le carte in tavola: avevamo dei gruppi di critici, c’era Fadini come responsabile dell’Unione Culturale di Torino, c’era Bartolucci, Franco Quadri, Augias, il quale aveva avuto già esperienze estere oltre che italiane, e tutto questo, era un po’ calderone.
Allora, con molta demagogia, erano stati invitati un po’ tutti, perché questo faceva ben figurare, e naturalmente, come in tutti gli inviti, come al matrimonio del Duca e della Duchessa, si invita anche la servitù, che però rimane servitù, anche se invitata a un matrimonio del Duca e della Duchessa.
Secondo me in questo Convegno di Ivrea, i giochi erano fatti in partenza; era un modo di incontrarsi ma soprattutto di far incontrare delle persone perché capissero che aria tirava. C’erano già gli idoli emergenti e i ruffiani di corte: insomma, c’era Carmelo Bene che stava egemonizzando l’attenzione per la sua spavalderia. Secondo me il Convegno di Ivrea è stata una vetrina messa su a disposizione di chi voleva mettersi in mostra, un po’ come tutti i convegni, e chi fa notizia è quello che fa la parte del leone. […]
La contestazione che a Ivrea noi [del Teatro d’Ottobre] sollevavamo, era che la situazione fosse abbastanza ipocrita nelle sue valenze squisitamente politiche. Ipocrita perché secondo noi aveva dietro un atteggiamento molto falso, che era quello di sostenere che i gruppi come il Teatro d’Ottobre che proponevano la costante di un teatro politico facessero didascalia. La loro ipotesi era di fornire strumenti al pubblico con una progressione e con una ricerca da fare insieme.”

Sandro Bajni
“Durante il Convegno di Ivrea, assunsi una posizione molto polemica. Le mie erano chiaramente affermazioni molto provocatorie. Ho fatto queste dichiarazioni perché ero deluso e sconfortato dalla piega che ad un certo punto aveva preso il Convegno. Era diventato una sorta di vetrina delle vanità dalle affermazioni più avanguardistiche che si potessero immaginare, sempre oltre, sempre al di là di tutto, con una caratterizzazione estetico formalistica.
Così ad un certo punto ho detto: ‹‹Bè, allora io intervengo››, e ho detto esattamente il contrario, in modo polemico, per fare un po’ da contro altare a questi suggerimenti che mi sembravano di uno snobismo culturale mostruoso. Ero deluso dalla scarsa consistenza culturale che aveva assunto la cosa, e quindi ho assunto questo atteggiamento per dire ‹‹Insomma, semettetela!›› E allora naturalmente ho fatto una specie di show, come del resto lo avevano fatto loro, e per farlo l’unica strada che avevo era quella di oppormi polemicamente a questi atteggiamenti che consideravo, e che considero tutt’ora, eccessivamente estetici e formalistici.
Qualcuno potrebbe dire ‹‹Adesso cambi bandiera››: sono contento e mi dispiace che siano state registrate queste cose, però devo dire che il Convegno di Ivrea non mi ha certamente entusiasmato, ma soprattutto non mi aveva entusiasmato per l’atteggiamento poco serio di tutti gli interventi. Parlo di poca serietà nel senso che l’obiettivo che si ripromettevano tutti era quello di precisare una serie di parametri di tipo estetico, di tipo ideologico che ci potevano interessare, ma si era trasformato nell’idea di scardinare il teatro ufficiale per farne un altro, cercando di mettersi al suo posto. Nessuno lo diceva, e naturalmente tutti avevano qualche poetica bizzarra da portare avanti, ma non mi sembravano in buona fede. […]
È stato un Convegno che si è trasformato; forse anche loro sono partiti inizialmente con degli altri obiettivi, poi strada facendo si sono trasformati. È stata una delusione proprio perché credevo di andare ad un incontro sul teatro alternativo, invece ho assistito alle guerre di un gruppuscolo contro un altro gruppuscolo!”

Eugenio Barba
“Io mi domando come mai fui invitato a Ivrea, dato che tutti i partecipanti erano italiani; in realtà si trattava di un’iniziativa che con un’intuizione eccezionale riuniva tutti i rappresentanti di una determinata “nicchia ecologica” teatrale che quasi non erano coscienti di appartenervi, avendo profili ed energie differenti.
Ricordo che fu Franco Quadri ad invitarmi. Io rimasi meravigliato arrivando con i miei attori e scoprendo che era un’iniziativa molto nazionale. […]
Noi eravamo completamente isolati e ignorati in Danimarca, il fatto che fossimo stati invitati a Ivrea è stato il nostro primo riconoscimento all’estero, che ebbe a livello psicologico un’importanza estrema per gli attori e per me. […] Io mancavo da molti anni dall’Italia, e quella fu la prima volta che vi ritornavo. Ivrea rappresentò soprattutto l’incontro con Dario Fo: da questo incontro è nata, oltre all’amicizia, una serie d’incontri professionali a Holstebro in Danimarca che hanno avuto un’importanza enorme per la Scandinavia.[…]
Con Ivrea ebbi la sensazione che esistevo perché uno esiste se la coscienza dell’altro te lo fa notare, se vi è un osservatore, che a volte chiamiamo spettatore, ma soprattutto se vi è un osservatore dal di fuori che ti conferisce, ti investe di un significato o di un importanza, di un profilo che uno a volte sopravvaluta o sottovaluta.
Non so se portammo qualcosa di nuovo a Ivrea. Debbo dire che era un Convegno in cui soprattutto c’era lo scambio di idee; era il tentativo di sintonizzare tutte le diverse energie di questa “nicchia ecologica” che prevaleva durante i dibattiti; per cui noi che non eravamo abituati a questo tipo di presenza, a parlare, a lavorare in questo modo, dove il confronto era sia a livello tecnico e professionale che di metodo di lavoro, di tappe in cui uno si trovava in quel momento, noi ci sentivamo un po’ spaesati. […]
Ivrea nel ’67 rappresenta forse per noi uno dei ricordi più netti nel nostro passato di gruppo, della fase che ci fece passare da un bozzolo a una crisalide, la sensazione di essere una crisalide che probabilmente aveva la possibilità di volare; il fatto che la gente si rivolgesse a noi significava moltissimo, e significava poi avere la coscienza, la consapevolezza della propria identità, delle proprie possibilità e del proprio potenziale.
Rispetto a quello che si sentiva dire a Ivrea, io penso che in questi anni tutti i desideri, le aspirazioni, i bisogni, le necessità, l’urgenza di qualcosa d’altro si siano realizzate, e il bilancio è molto, molto positivo.
Credo che con Ivrea si può datare il momento in cui si è rivelata la falsa unità del fenomeno teatrale. Allora il teatro era considerato un’emanazione della letteratura, del testo, un edificio dove degli attori presentavano degli spettacoli, e con Ivrea si defila chiaramente la presenza, sempre esistita ma ignorata, trascurata da tutti i critici o storici del teatro, di un teatro parallelo, di un altro teatro che non è solamente quello di avanguardia, ma è un teatro con tanti altri aspetti. Comunque questa falsa unità, questa falsa armonia viene distrutta, e ne appare un’altra complementare del fenomeno teatrale che è quella che abbiamo conosciuto da quel tempo in poi.”

Antonio Calenda
“Bisogna partire dal senso che ha avuto il Convegno, perché, in effetti, in quel momento c’era il desiderio di fare il punto di una situazione che ci vedeva tutti un po’isolati: il solipsismo è la caratteristica del teatro in genere, soprattutto nell’ambito della ricerca. Quel momento è stato importante perché sentivamo la necessità di confrontarci, ma forse non eravamo preparati a farlo.
Una delle volontà dell’organizzazione consisteva nel fatto che ognuno doveva proporre il proprio materiale, per esempio io avrei dovuto portare, se non mi sbaglio, dei testi di Wilcock, ma siccome Wilcock non li aveva finiti, io non ero pronto e non portammo niente, con grande delusione di alcuni. Loro volevano che ognuno andasse lì proponendo un proprio modo di fare teatro; io e Gazzolo venimmo tacciati di pigrizia perché non portammo niente.
Invece Leo e Perla fecero il loro Amleto, che apparve come un fondamento, e poi vi fu un altro spettacolo, molto antiquato, di un gruppo che faceva capo ad Ambrosino, che fu subito contestato violentemente da Carmelo Bene e da altri. In quel frangente si spaccò tutto perché ci accorgemmo che ancora non erano mature le necessità culturali, c’era solamente il confronto che, tutto sommato, era un confronto di curiosità soprattutto per alcuni, come noi, che lavoravano da parecchio tempo. […] Quindi, sentirsi insieme agli altri non significava dare luogo a una crociata, ma perlomeno conoscersi. E in quel momento c’era veramente il desiderio di coesistere, di essere in qualche modo, di essere dotati anche di elementi anagrafici. Per noi Ivrea era questo. […]
Sta di fatto che questo Convegno fu importante perché fu innanzi tutto un momento di verifica dei risultati meramente estetici e del momento storico. In quella situazione si istituzionalizzava un fatto, cioè che esisteva un nuovo mondo, un modo diverso di fare teatro, esistevano delle volontà, esisteva un movimento che cominciava ad avere un suo peso. […]
Il Nuovo Teatro era il desiderio di opporci a strutture ormai asfittiche. E non era invece la rivoluzione del dover dire a tutti i costi qualcosa di nuovo sul piano estetico.
Ivrea fu un momento importante sul piano estetico, anche se poi i risultati non furono eclatanti, anche perché Carmelo Bene creò subito le fazioni, si affiliò con alcuni e rinnegò altri, per cui lui fu il momento discriminante di questo Convegno. Ci furono infatti dei gruppi che non riconobbe, creando spaccature che non si erano verificate fino ad allora. Rinnegò subito il teatro cosiddetto di parola, perché lui già si riconosceva come assertore di un teatro diverso, che fosse più deformante e più immaginifico. […]
Ci furono commissioni, sottocommissioni: sembrava un congresso di partito. Oggi possiamo dire che è stato un momento importante per un fatto: inquietò moltissimo i teatranti ufficiali. Paolo Grassi mandò i suoi a controllare cosa accadeva. […]
La mancanza di storiografia su quel periodo del teatro di ricerca colpisce molto e fa male, perché allora fare queste cose era un gesto autenticamente rivoluzionario. […]
Finito quel Convegno, tutti partimmo con l’amaro in bocca, perché tutti s’aspettavano chissà cosa, invece ritornammo ognuno a casa con gli stessi problemi e la propria solitudine. È il caso di dire che il teatro in Italia si fa in assoluta solitudine.”

Ettore Capriolo
“I punti che Bartolucci, Fadini, Quadri ed io avevamo fissato attraverso le riunioni erano un po’ folli, un po’ utopistici, un po’ generici, erano cose studiate a tavolino in due o tre week-end passati a Ivrea a discutere.
Nonostante fossero invitati esponenti già inseriti, seppure marginalmente, nell’ufficialità, come Ronconi, Trionfo, Luzzati, il risultato fu che il Convegno divenne il “Convegno dei marginali”, al di là delle nostre intenzioni, anche se noi non eravamo affatto contrari che accadesse questo. È successo quello che non poteva non succedere dal momento che chi era interessato a venire a Ivrea per parlare, per dare uno scossone erano i gruppi emarginati, cioè i vari Carmelo Bene ecc. Questi gruppi si comportarono con una strana cautela, nel senso che le discussioni finirono quasi subito con il “come tiriamo avanti?”. Quello che doveva essere principalmente un convegno di studio divenne un convegno organizzativo, anche per impulso di Fo che fece un bel discorso. Fo, allora, lavorava nei teatri normali, cioè non aveva ancora iniziato la sua attività di teatro politico.
Il Convegno durò tre giorni: mattina e pomeriggio si fecero interventi, discussioni, non si formò nessun tipo di commissione. Era una cosa molto mal organizzata, noi l’avremmo voluta fare diversamente, con maggiore libertà di intervento. Alcuni venivano ascoltati, alcuni no, alcuni suscitavano applausi e così via…
I maggiori esponenti dell’avanguardia teatrale di allora, e cioè Carmelo Bene, Quartucci e Ricci, non presentarono assolutamente niente, si guardarono bene dal mostrare materiali di lavoro, li presentarono invece coloro che aspettavano un’occasione per farsi vedere.
Insomma, quello che si verificò fu una strana cosa, perché noi partimmo con l’idea di fare una vera e propria riflessione generale ma questa riflessione generale in realtà non ci fu. Il documento che noi avevamo presentato rimase lettera morta, probabilmente perché non eravamo stati capaci di gestirlo. Fatto il documento, ci sembrava più che sufficiente, e fummo anche molto ingenui in questo. Volevamo uno scambio di esperienze di lavoro, pensavamo di poter fare un bel laboratorio dove ciascuno si esprimesse, ma nessuno aveva voglia di scoprirsi.
I soli che si scoprirono furono Barba, che se ne fregava, Leo e Perla che avevano tutto da guadagnare e niente da perdere, e poi questi sciagurati con il loro Gorizia, sciagurati nel senso che avevano proprio sbagliato porta.
Quella situazione del teatro italiano si trasformò nella possibilità di una alternativa, e fu una cosa che spaventò parecchio. Alcuni tra i critici e i giornalisti e la gente del teatro ufficiale erano un po’ terrorizzati. […]
Ivrea fu il momento in cui, per la prima volta, una serie di problemi venivano posti all’attenzione del teatro italiano. Quello che mancò poi fu una nostra capacità di approfondire il discorso fatto nel Manifesto programmatico.”

Leo De Berardinis
“Ivrea fu importante più che altro perché fece il punto sulla situazione in termini reali. […] Alcuni di noi a Roma avevano l’esigenza di un cambiamento, non come aspirazione ma come necessità: per alcuni di noi la realtà teatrale era già cambiata, ma c’era bisogno di farla funzionare, di organizzarla.
In effetti doveva essere un modo per conoscersi: per esempio io non conoscevo affatto Carmelo Bene – lo conoscevo solo di nome e in quel periodo avevo visto soltanto un suo spettacolo – come non conoscevo personalmente Mario Ricci. […] Ci si conobbe lì. Io e Perla portammo anche uno spettacolo, La faticosa messa in scena dell’Amleto di William Shakespeare, costruito con cinema e teleschermi.
Da un altro punto di vista, abbiamo capito anche un’altra cosa da Ivrea, e cioè che queste cose non si possono organizzare. Infatti – fu un punto molto dibattuto – io fui uno di quelli che sosteneva l’impossibilità di organizzarci proprio nel momento in cui si voleva fare un tipo di teatro diverso. Nel momento in cui lo organizzi, travisi completamente tutto, quindi fai un’altra cosa, e questo è ciò che è successo. […] Infatti poi si fece l’associazione Nuovo Teatro che ebbe vita si e no per un mese. Come era prevedibile mancò l’organizzazione; certi fatti a mio parere non possono venire organizzati perché nel momento in cui li organizzi non sono più produttivi.
Però il Convegno è l’unica cosa importante accaduta in Italia per quanto riguarda il Teatro da un punto di vista di incontri e di conoscenze. Poi gli errori non sono errori, sono conoscenze: non si è sbagliato in niente perché non si poteva fare altrimenti. Però fu importante.”

Dario Fo
“Quel convegno è stato il punto di partenza, a Ivrea ci siamo incontrati per la prima volta e abbiamo parlato insieme, abbiamo verificato le opposte dimensioni, abbiamo fatto discorsi in pubblico completamente diversi e poi ci siamo confrontati. E’ stato importante […]. E’ stata la prima volta che si è parlato di teatro d’avanguardia, di che cosa significava fare teatro politico.”

Achille Mango
“Chiunque in qualche modo abbia attraversato il territorio del teatro da allora in poi, non può non aver riconosciuto l’importanza di quel Convegno.
Ivrea fu il primo momento di riflessione su un fenomeno di trasformazione del teatro italiano che era cominciato alla fine degli anni Cinquanta e soprattutto all’inizio degli anni Sessanta con le azioni di Mario Ricci. Quindi Ivrea è il primo momento in cui un gruppo di persone si mette insieme partecipando direttamente alla manifestazione, oppure indirettamente, attraverso forme di intervento più svariato. […]
Il senso di Ivrea tutto sommato è questo: i momenti di riflessione intervengono quasi sempre quando la spinta di un fenomeno produttivo-creativo si sta esaurendo, per le ragioni più disparate. […] Quindi in primo luogo Ivrea è il momento in cui si comincia a tentare di capire cosa sta avvenendo: nel momento in cui si comincia a capire questo si ha una luce abbastanza accesa su quello che sta per avvenire il giorno dopo.
Il tentativo riuscì: Ivrea è servita a far capire prima di tutto che c’era stato un movimento – chiamiamolo scuola romana – che aveva in qualche senso rappresentato un poco la pietra angolare di tutto il sistema innovativo del teatro in Italia, e che da quel momento ne sarebbe partito un altro, quello che poi qualcuno ha chiamato, più o meno appropriatamente, “Teatro-immagine”.
Quindi il primo senso di Ivrea è stato quello di fermare l’attenzione speculativa, l’attenzione riflessiva su dei fatti che sono avvenuti e che hanno trasformato la scena italiana. […]
Il secondo motivo, il secondo elemento che dà un significato e un’importanza particolare al Convegno di Ivrea, è che, vicini o lontani, partecipò direttamente o indirettamente un numero eccezionalmente alto di persone; forse nessuna manifestazione di quel genere aveva una partecipazione quantitativamente e qualitativamente così apprezzabile. A Ivrea c’era gente che la pensava in una maniera e gente che la pensava nella maniera completamente opposta, oppure che apparendo in linea con certe cose era in realtà abbastanza diversa.
Terzo elemento di importanza è quello che ha meno scalfito o, per meglio dire, non ha grattato la superficie della situazione teatrale italiana: è che Ivrea ha contrapposto dei temi a una situazione completamente centrata sui teatri a gestione pubblica. Cioè sui teatri stabili, e quindi sul segno fortemente tradizionale che questi teatri stabili hanno avuto dopo pochissimi momenti di speranza e apertura. Il terzo elemento è stato quello di contrapporre una linea sufficientemente forte ad una linea, quella del teatro stabile, purtroppo fortissima.”

Italo Moscati
“L’idea del Nuovo teatro era un’idea semplicissima. Esisteva allora come discorso culturale e come modello il teatro stabile. C’erano i teatri stabili, i loro spettacoli e soprattutto le loro chiacchiere: perché il teatro stabile non è stato soltanto produzione di spettacoli, ma anche una grande produzione di cultura teatrale parlata, ammesso che si possa usare il termine cultura. Era una linea, anche ideologica, che ha trascinato dietro di sé una serie di strutture che producevano rappresentazioni che tendevano ad assimilarsi agli stessi teatri stabili. Quindi si era formata una situazione teatrale non rigogliosissima […]. Non esistevano altre realtà teatrali, se non per opera di Carmelo Bene, di Leo De Berardinis, di Carlo Quartucci e di pochi altri, cioè quello che veniva definito teatro di cantina.
E allora è stato facile, per mettere insieme la gente, coniare la definizione di Nuovo Teatro.[…]
Non si può scambiare il Manifesto di Ivrea per il Manifesto dei futuristi, o per qualsiasi altro manifesto di Avanguardia o di posizione polemica. Era semplicemente un’indicazione di alcune persone interessate a fare il punto su alcune iniziative che stavano nascendo, e soprattutto per esprimere l’esigenza, al di là di quei modelli che esistevano, di realizzare un teatro aperto alle esperienze straniere, alle nuove esperienze di linguaggio ideologicamente non imbrigliate. […] Si era nell’illusione, nella speranza, o anche nella convinzione che questi flussi che venivano dall’estero, incontrandosi con quelli che da noi si stavano presentando, potessero produrre qualche cosa di originale. […]
La mia posizione era di simpatia e di istintiva adesione a tutto ciò che era nuovo, era nella convinzione che i teatri stabili - dopo aver visto diversi loro spettacoli - non avessero gran che da comunicare a quegli spettatori giovani o non giovani che cercavano nel Teatro tutta una serie di elementi e di stimoli già presenti nel cinema, nelle arti figurative e nelle arti visive.
Era un bisogno di modernità, di aggiornamento, e soprattutto il bisogno di un teatro capace di incidere nella contemporaneità, capace anche di scuoterla, e quindi di provocarla, di entrarci in conflitto.
Non mi facevo illusioni sul fatto che potesse nascere qualche cosa, perché già mi sembrava chiaro che le persone che andavano lì non erano disposte a fare un’azione comune, ma casomai a confrontarsi, o a darsi battaglia tra di loro, cercando di porsi come punto di riferimento per l’Avanguardia.
Io ho l’opinione che Ivrea sia servita per innescare una serie di processi che poi si sono irrobustiti, che hanno poi generato iniziative, gruppi e talenti, ma è anche servita come scarico, cioè come fatto di riepilogo di una serie di tematiche, di scontri sui temi dell’Avanguardia, del teatro politico, del teatro d’impegno ecc. Tutto questo forse in altri Paesi era già stato consumato: non voglio dire che quello di Ivrea fosse un atto di provincialismo, ma vorrei dire che dimostrava quanto ritardo avesse da noi il dibattito culturale. […]
Ivrea ha fatto bene perché ha determinato un punto di riferimento, e di lì in poi sono nati fenomeni importanti.”

Mario Ricci
“Ricordo che era un po’ tutto ridicolo; non c’è nessun astio nel mio racconto, ma esprime un po’ il clima di quelle giornate. Sarebbe un grandissimo errore adesso voler rendere tutto serioso: a Ivrea c’era anche il sapore della scampagnata per merito di personaggi abbastanza singolari e curiosi come Carmelo Bene, come Leo De Berardinis, e non aveva niente in comune con certi convegni di partito dove tutti si annoiavano a morte.
A Ivrea si sono dette delle cose importanti e si sono fatte delle cose importanti. Soprattutto si è scoperta l’esistenza in Italia di una vitalità che forse nessuno sospettava ci fosse. Si è scoperta, al di là delle tendenze, della gente che aveva parecchie cose da dire, non solo in Italia ma anche all’estero. Infatti nel ’67 era al massimo splendore il Living Theatre, che era stato da noi all’inizio con uno spettacolo che non era d’avanguardia ed era poi tornato nel ’65 con questo bellissimo Mysteries and smaller pieces, l’unico bello spettacolo del Living Theatre, e, dal mio punto di vista, l’unico veramente d’avanguardia.
Ivrea rimane una cosa unica, non perché si è fatto solo Ivrea, ma perché c’era una vitalità ineguagliabile.”

Luca Ronconi
“Io del Convegno di Ivrea non mi ricordo molto. Si parlava di Avanguardia, già allora ero una presenza anomala al Convegno, infatti non lavoravo modo specifico in quel campo: a quel tempo ero titolare di una compagnia che faceva regolarmente le sue turnée; non mi sono mai riconosciuto nei temi dell’Avangardia. Firmai il manifesto perché, anche se non partecipavo a delle correnti teatrali dell’Avangurdia, ero e sono abbastanza in sintonia con quello che si affermava a Ivrea. Anche se in qualche modo ho sempre lavorato fuori dal teatro d’Avanguardia, e sono sempre stato abbastanza obiettivo rispetto al teatro ufficiale.
Secondo me, “non c’è niente di meno pericoloso dell’Avanguardia” è una delle definizioni più gratificanti. Chiunque è orgogliosissimo di essere all’avanguardia, qualsiasi spettatore è felicissimo di contribuire e di partecipare ad un fenomeno di Avanguardia, magari si sente più in pericolo quando si tratta di partecipare ad altre forme di Teatro, forse più tradizionali, ma che comunque lo toccano in profondità”

Giuliano Scabia
“Non c’era una piattaforma comune, se non la stanchezza per questo teatraccio che abbiamo alle spalle, e la voglia di aprire degli spazi nostri di lavoro. C’erano persone diverse, alcune molto forti con delle poetiche già vive: si confrontavano e si scontravano tra di loro, ci furono delle belle liti!
Il bello è stato proprio l’agglomerato di persone che di fronte a una situazione statica si ritrovavano lì.”

Aldo Trionfo
“Il termine Avanguardia mi dà un enorme fastidio. Prima di tutto perché non so bene che cos significa Avanguardia: il termine ha preso mille significati nella storia del Teatro, dell’arte, della letteratura, di tutto.
Generalmente si chiama Avanguardia tutto quello che è fuori dalle regole, spesso non per ragioni effettive ma per questioni di necessità: uno si trova a non avere soldi, ad avere pochi mezzi, un teatro non riscaldato e allora di colpo quello che fa si chiama Avanguardia. No, Avanguardia non è un teatro non riscaldato o un teatrino da 100 posti.
C’è stato un periodo, invece, in cui tutto quello che riuniva quanto di non confortevole c’era nel Teatro veniva chiamato Avanguardia.
Avanguardia significa “che viene prima”, prima di che cosa, non si sa.
Secondo me il Teatro, se è Teatro, è sempre d’Avanguardia, come l’arte è sempre d’Avanguardia, in quanto viene sempre in seguito a una ricerca di qualche altra cosa.
Per cui fare un Convegno sull’Avanguardia, come se fosse uno stile, come se fosse un modo di fare Teatro, come se fosse un modo di tirarsi fuori da un certo teatro, questo è sbagliato, perché non esiste teatro che non sia d’Avanguardia.”


 
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