ateatro 110.26
Giorgio Barberio Corsetti racconta le sue regie: Portopalo. Nomi, su tombe senza corpi e La pietra del paragone
L’uso drammaturgico del video in scena tra documento e miraggio scenografico
di Andrea Balzola
 

Le ultime due regie di Giorgio Barberio Corsetti sono opposte per toni e contenuti: il primo lavoro, Portopalo. Nomi, su tombe senza corpi, presentato a dicembre al RomaEuropa Festival, è una suite musicale, poetica e visiva dedicata alla tragedia di Porto Palo, nelle cui acque il 26 dicembre del 1996 s’inabissò una carretta del mare provocando la morte di 286 profughi provenienti da Oriente; il secondo è invece una regia lirica molto particolare che rimette in scena il fortunato debutto rossiniano La pietra del paragone (scritto a vent’anni), in collaborazione con il geniale videomaker francese Pierrick Sorin, coproduzione Teatro Regio di Parma e Théâtre du Châtelet di Parigi. Nel primo caso è una tragedia che rievoca un episodio di cronaca, nel secondo caso è un divertissement di teatro musicale, ma un denominatore comune c’è e si trova sia nella dominante musicale sia nell’uso drammaturgico del video in scena, di cui Corsetti è uno dei principali pionieri italiani e che continua, con differenti collaboratori videomakers, a rinnovarsi, integrandosi in modo sempre originale ed espressivamente forte nel suo linguaggio teatrale. Abbiamo chiesto a Giorgio di raccontarci la genealogia di queste due messinscene.

G.B.C. Porto Palo nasce a dieci anni esatti dal naufragio e dopo un’ennesima estate di sbarchi clandestini e di tragedie dell’immigrazione. L’idea originale era quella di uno spettacolo musicale, sulla base di una proposta fattami da Guido Barbieri e Oscar Pizzo, che mi hanno presentato anche i materiali video esistenti sulla tragedia: un documentario di Artè, uno della televisione egiziana, e le riprese effettuate dal robot sottomarino grazie alle quali il giornalista Giovanni Maria Bellu (autore di un bellissimo libro sulla vicenda, I fantasmi di Porto Palo, edito da Mondadori) ha scoperto il relitto della nave. Facendo luce su quest’episodio paradossale di una nave che scompare e che nessuno vuole più ritrovare, completamente rimossa sia dalla popolazione di Porto Palo, che aveva paura di danni alla pesca e al turismo, sia dai politici sui quali pesava l’incapacità o la mala fede nel gestire il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Tra le tante storie simili che purtroppo si potrebbero raccontare, questa mi è sembrata particolarmente emblematica dei turbamenti che oggi attraversano il pianeta, dello scontro tra Nord e Sud, tra Oriente e Occidente, delle distorsioni dell’economia globale per cui le merci viaggiano e si scambiano facilmente, mentre le persone spinte dal bisogno rischiano la vita per approdare altrove.
Lo sfruttamento spietato della legittima aspirazione a una vita migliore che è sempre stato motivo di rinnovamento delle civiltà, la trasformazione di una specie di grande lago pacifico qual è il Mediterraneo in un cimitero marino per migliaia di sventurati. Si trattava inoltre di una storia conosciuta dal grande pubblico e quindi ancora presente nella memoria collettiva.



Quindi avete fatto un importante lavoro preliminare di ricostruzione dei fatti, delle testimonianze e dei personaggi, per arrivare a costruire lo spettacolo...

G.B.C. Sì, il progetto iniziale era di raccontare le storie di alcune vittime e di alcuni sopravvissuti al naufragio, poi abbiamo deciso di intraprendere noi stessi un viaggio alla ricerca di nuovi materiali e di testimonianze dirette. Così, nel processo di costruzione del lavoro, si sono intrecciati il nostro viaggio nelle terre originarie dei profughi (il Punjab indiano, il Pakistan, la comunità Tamil dello SriLanka) e la dimensione di angoscia delle loro famiglie, che convivevano con l’attesa di notizie sul destino dei loro cari e il grande vuoto da essi lasciato. Volevamo andare dall’”altra parte”, a vedere quale traccia era rimasta di questa tragedia e diventava simbolica anche la differenza tra il nostro viaggio a ritroso, di poche ore in aereo, e il viaggio di quattro mesi per mare di quei profughi stipati nelle stive delle imbarcazioni della morte. E’ emersa così, poco alla volta, la storia di quel viaggio maledetto, attraverso l’attesa delle famiglie, la memoria e la testimonianza dei pochi sopravvissuti. Per me il teatro, nella sua essenza, deve far parlare l’essere, deve essere testimonianza della condizione umana contemporanea, della sua dignità o indegnità, in relazione agli altri uomini. Allora tutti i personaggi coinvolti sono protagonisti e testimoni della vicenda, anche il giornalista, che è coinvolto umanamente fino al punto di farsi paladino solitario di una ricerca apparentemente disperata, grazie all’aiuto del pescatore Salvatore che trova in mare e consegna dei documenti delle vittime, indizio determinante per la localizzazione del relitto, mettendosi contro la sua stessa comunità che cerca la rimozione dell’evento. Tutto questo intreccio di destini, di presenze e di assenze emblematiche costituiscono il tessuto della messinscena. C’è stato anche un importante risvolto sul piano concreto, infatti grazie al loro coinvolgimento nello spettacolo, molti superstiti hanno potuto raggiungere l’Italia e testimoniare ai due processi che si stanno svolgendo sulla vicenda.

Tu hai presentato questo lavoro come un requiem, come una suite musicale, poetica e visiva dove s’intrecciano materiali e linguaggi diversi...

G.B.C. Riccardo Nova ha realizzato le musiche, lui si è appassionato molto al progetto e inoltre conosce molto bene la musica indiana, la sua idea musicale si è poi materializzata in scena con l’esecuzione dal vivo dei musicisti italiani Basile, Dillon e Pizzo, del percussionista indiano Manjunath B.C., di Faheem Mazhar e Thevamanohari Janathas, un cantante pakistano e una cantante della comunità Tamil di Palermo, che aveva vissuto in prima persona, con la sua gente, l’attesa e il lutto collettivo per la tragedia. Si può dire che tutto il lavoro è il risultato di una elaborazione collettiva, il tentativo di integrare tutti gli elementi espressivi e informativi in un’unica direzione, attraverso un processo di costante e attenta limatura. Il risultato non mi piace chiamarlo “spettacolo”, mi sembra quasi offensivo nei confronti di chi lo ha vissuto e in un momento in cui i media tendono a spettacolarizzare tutto, anche la morte e la sofferenza. La definizione migliore mi sembra “Requiem per musica, immagini e testimonianze”.

Quale ruolo hanno le immagini video in questo contesto?

G.B.C. Le immagini video sono a cura di Paolo Pisanelli. C’è una proiezione multipla, su un unico grande schermo e su altri due schermi gemelli, collegati fra loro da un’unica immagine che li attraversa, passando dall’uno all’altro come da una stanza all’altra, oppure disgiunti tramite proiezioni simultanee ma differenti. Volevo un’immagine che non fosse solo documento ma che diventasse più mentale, più astratta e simbolica, un’immagine che si espandesse nello spazio creando un ambiente, questo fa parte della mia idea di un uso drammaturgico e non semplicemente scenografico o illustrativo del video in scena.

Invece con la regia dell’opera comica La pietra di paragone di Rossini, che debuttò con grande successo nel 1812 alla Scala ma che oggi è di rara esecuzione, cambia totalmente il clima e la strategia registica...

G.B.C. Quest’opera è divertimento puro, quindi esattamente l’opposto di Porto Palo. In questo caso è stato determinante la collaborazione con il grande videomaker francese Pierrick Sorin, dotato di uno straordinario senso dell’umorismo e di una grande sensibilità per le immagini. Il denaro è “la pietra di paragone” sul quale si concentra l’opera rossiniana, il Conte protagonista finge il fallimento economico per smontare le apparenze che lo circondano, per verificare la sincerità dei comportamenti delle sue aspiranti spose e dei suoi cortigiani. Noi abbiamo interpretato questo gioco di mascheramento e di svelamento usando l’ormai classica tecnica televisiva del blue screen. Abbiamo trasformato la scena in un set completamente vuoto, tutto blu, dove agiscono i cantanti dal vivo, simultaneamente, su sei schermi posti sopra i cantanti, si vedono loro stessi ma duplicati all’interno degli ambienti artificiali della villa dove si svolge la vicenda.





Questi ambienti sono dei modellini scenografici visibili in scena, ripresi in diretta dalle telecamere e incrociati con le riprese, sempre in diretta, dei cantanti. Si crea così una distorsione percettiva e comica perché gli attori gesticolano e si muovono in modo insensato sul palco vuoto e soltanto sulle immagini degli schermi le loro azioni acquistano un senso e trovano un ambiente in cui collocarsi, ma è solo un mondo illusorio, appunto di apparenze, come quello generato da un mondo regolato dal denaro. Metafora quanto mai attuale.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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