ateatro 113.16
Il 1939 dei Sacchi di Sabbia
Cinque ipotesi di scena di Giovanni Guerrieri
di Andrea Lanini
 

Non ingannino la patina cinematografica e le aperture al riso: sono del tutto apparenti, posticce, ingannevoli. Ci sono, è vero, la parodia, lo sberleffo, la caricatura. Ci sono anche un divertito spaziare tra stili/generi diversi e deliziosi escamotage linguistici che sfaccettano il testo giocando coi grandi classici del teatro. In realtà, però, mai lo sguardo dei Sacchi di Sabbia era stato così impietoso. Come sempre, è rivolto verso di noi, che mentre li guardiamo muoversi sul palco siamo portati a cercare tra le loro ombre il riflesso di noi stessi. 1939, il loro ultimo lavoro, ci racconta da dentro. Parla di noi, dei voli pindarici che amiamo compiere sulle nostre memorie patrie, della nostra capacità di digerire e dimenticare tutto. Lo fa in maniera dura, girando il coltello nelle piaghe della nostra coscienza civile. È uno spettacolo politico: ma politico per sottrazione, per prospettive ribaltate. Non ciò che dovremmo essere, ma ciò che crediamo di essere (e invece non siamo mai stati).
1939, un simbolo fatto di numeri, l’ultimo passo prima del burrone, poi la guerra. Che si intuisce, ma non si vede. Il Ventennio invece fa capolino, con la sua logorroica retorica da petto in fuori: però potrebbe anche non esserci. Se fossimo stati nel 1914, o nel bel mezzo degli anni di piombo, sarebbe stato lo stesso. Perché questi cinque quadri scritti da Giovanni Guerrieri, queste cinque “Ipotesi di scena” giustapposte e tenute insieme da un meccanismo basato sulla suspense raccontano soprattutto una cosa: cambiano le epoche, ma noi restiamo sempre uguali a noi stessi. Sempre così alla ricerca di miti, gesti eroici (come quello di Gaetano Bresci), ansie di liberazione; ma anche disposti a dimenticare tutto per il bel viso di un divo del cinema (Amedeo Nazzari). Sempre così affascinati dall’ideale, ma anche così indifferenti ai suoi presupposti. Sono tutti lì, i Sacchi - Giovanni Guerrieri, Giulia Gallo, Gabriele Carli, Enzo Illiano – per confezionarci un falso storico che potrebbe anche essere stato vero (in fondo è vero tutti i giorni). Un fantomatico ministro sta arrivando in una cittadina di provincia per una visita ufficiale: un gruppo di anarchici gli sta preparando un attentato. Forse riuscirà, forse no. Non è questo ciò che conta. Ciò che conta è il nostro modo di guardar scorrere la Storia: dalla finestra. Ciò che muove le nostre vite ci piace farcelo raccontare dagli altri: da Nazzari ma anche da Amleto, da Ibsen ma anche da Salgari. Così, alla fine, niente è successo ma tutto poteva succedere: l’importante è che qualcuno ce lo rappresenti, meglio se con belle parole o una bella faccia. Si esce con una consapevolezza: la distanza che corre tra i silenzi di Tràgos e la fiction di 1939, tra quel nichilismo e questa loquacità iperattiva è fatta dello stesso vuoto.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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