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BP2010 Un pensiero sulle Buone Pratiche del Teatro
Con un aneddoto di Leo
di Marco Sgrosso
 

Vorrei innanzitutto ringraziare Mimma ed Oliviero per averci invitato a trasmettere una testimonianza relativa alla nostra esperienza, in un ambito così necessario e così “illuminato” come quello descritto con mirabile equilibrio di sintesi e di lucidità nel loro articolo del 10 gennaio sulle Buone Pratiche del Teatro.
Rispondere sulla complessità degli argomenti analizzati richiederebbe un tempo ed uno spazio eccessivi, mi limiterò quindi a sfiorare quella complessità cercando di essere sintetico, con riflessioni che scaturiscono dalla mia esperienza diretta e da una pratica teatrale appassionata e continua di oltre 25 anni.
L’incipit dell’articolo citato è il motivo che ha alimentato la mia ‘passione’ per tanti anni, permettendomi di mantenerne vivo lo smalto, a dispetto delle “cattive pratiche” che ho scoperto rapidamente in quello che l’entusiasmo giovanile mi dipingeva come un mondo incantato : il Teatro è un edificio, una casa di solida pietra!
Credo sia necessario interrogarsi sugli strumenti, sui tempi e sui modi necessari ad una solida costruzione, e non di meno sull’impegno indispensabile al mantenimento e al nutrimento di una simile costruzione.
Io ho avuto la fortuna di ‘formarmi’ con Leo, un maestro indiscutibile non soltanto dell’arte e dello stile teatrale, ma anche del pensiero ‘etico’ sotteso a questa professione.
Lavorando al suo fianco con un’indimenticabile e preziosa intesa per oltre 15 anni, ho imparato un senso del teatro dove la pulizia e il rigore della forma non erano disgiunti da altre necessità, che riguardano l’indipendenza delle scelte, la difesa dell’autonomia creativa, il rispetto profondo per la professione e per la funzione del teatro come arte capace di aprire la via alla libertà del pensiero. Tutto ciò ha comportato una chiarezza di intenti che cerco di preservare facendo i conti con una realtà che non favorisce questi percorsi, e di conseguenza la consapevolezza che questa è una via più dura e più solitaria, anche se non priva di molti compagni di percorso per i quali il Teatro è una necessità vitale ed uno strumento di unione, liberazione e civiltà.
La presenza di un pensiero ‘etico’, e non moralistico, sotteso alla prassi della professione penso sia dunque il primo indispensabile passo verso un percorso di “buona pratica teatrale”.
Esso regola il rapporto con i compagni di lavoro innanzitutto, ma anche la relazione con tutti i livelli interlocutori della produzione e della creazione.
Attraverso una fase di apprendistato coltivata con l’esortazione a definire una mia identità non solo attorale ma anche autoriale, ho imparato un ‘modo’ di concepire il Teatro che tenesse conto del rispetto profondo, non acritico e non museale, della tradizione e al contempo l’importanza della ricerca e della sperimentazione per allargare gli orizzonti creativi, nonché appunto della necessità di un’etica professionale che desse un senso più compiuto alla pratica della professione stessa.
Al di là di alcune inevitabili distanze dal pensiero di Leo maturate con la crescita e con la consapevolezza che è impossibile non fare i conti con la varietà delle condizioni e delle situazioni, questo ‘modo’ lo condivido pienamente e mi stupisco di quanto frequentemente sia difficile farne comprendere l’assoluta necessità per migliorare le condizioni del lavoro di tutti quanti sono impiegati in questo settore.
Credo sia molto importante e utile – sebbene non facile – saper definire il proprio percorso attraverso l’apertura a situazioni a volte inaspettate e difendere il proprio pensiero ‘artistico’ senza erigere barriere di incomunicabilità ma al tempo stesso senza cedere a meccanismi fuorvianti e malati che rischiano di inquinarne il percorso.
Purtroppo questi meccanismi sono vari e frequenti, e sono generati esattamente da una spinta propulsoria opposta, cioè quella di cercare di imporre il proprio interesse a dispetto del rispetto reciproco e di un senso etico della professione.
La lunga esperienza di attore nella compagnia di Leo assieme ad Elena Bucci, mi ha condotto a fondare con lei una nostra compagnia autonoma, in cui oltre che attori e autori delle nostre produzioni, siamo curatori della progettualità e responsabili dell’organizzazione, dell’amministrazione e di tutti gli altri aspetti relativi alla vita della compagnia stessa.
Accanto alla realizzazione dei nostri spettacoli, a Russi (dove la nostra associazione ha sede) abbiamo organizzato piccole rassegne teatrali a budget ridottissimi, e da Russi è partita la cura di un’attività dedicata alla conduzione di laboratori di formazione possibilmente mirati ad esperienze continuative e non occasionali, come pure l’ideazione di eventi dedicati alla valorizzazione del territorio, tra i quali una lunga e fortunata battaglia per la ristrutturazione del Teatro Comunale, convinti appunto della necessità di un ‘edificio di solida pietra’ che raccogliesse, ampliasse e sviluppasse gli sforzi, gli stimoli e i bellissimi frutti coltivati con tanta pazienza e tanta passione.
Da alcuni anni infine, dedichiamo una parte della nostra produzione alla rilettura del patrimonio teatrale attraverso la scelta di celebri testi della drammaturgia classica.
Questa progettualità si è sviluppata lavorando in stretta collaborazione con altre compagnie private o con alcuni Teatri Stabili.
La varietà di aspetti della nostra esperienza mi ha consentito di riflettere su molti degli argomenti dell’articolo di Mimma e Oliviero, poiché – pur senza la passione e le capacità che ci anima nella sfera creativa – abbiamo dovuto imparare a fare i conti con aspetti meno appassionanti ma altrettanto necessari, dal rapporto con le Istituzioni a quello con direttori artistici e organizzativi, responsabili di circuiti, personale di servizio e di ufficio, etc.
Nel nostro caso, ad esempio, la contaminazione produttiva di una compagnia indipendente come la nostra e non sovvenzionata dal Ministero (scelta, questa, voluta per sottrarsi al meccanismo infernale delle sovvenzioni statali benché sempre campo di dubbi e riflessioni in corso) con un Teatro Stabile non ‘pachidermico’ e forte di una storia produttiva da sempre vivace ed interessante come il Centro Teatrale Bresciano, credo sia il segnale molto positivo di una possibilità collaborativa che torna a favore di entrambe le strutture nonché di una progettualità non destinata ad esaurirsi in un episodio occasionale ma capace di definire un percorso, ed essere quindi il segno di una via percorribile anche per altre realtà.
Logicamente, queste formule coproduttive funzionano se alla base della collaborazione si stabilisce un rapporto reciproco di fiducia, di reale interscambio e rispetto delle reciproche necessità, e se l’attenzione alla cura per i progetti comuni è condivisa. Non sempre questo è possibile, poiché spesso i vantaggi e le agevolazioni produttive dei Teatri Stabili sono vanificati dalle difficoltà gestionali di strutture complesse, dove può accadere che le esigenze artistiche - e cioè il nucleo stesso della ragione primaria di esistenza di quegli stessi organismi - sono ostacolate da assurdità incomprensibili quali la necessità di doversi adeguare alla totale mancanza di flessibilità degli orari, dei turni, delle pianificazioni del personale, e alla mancanza di comunicazione diretta e chiara tra le categorie dei diversi settori.
In simili circostanze accade che il motivo primo dell’esistenza di un Teatro Stabile – e cioè la produzione di arte e/o cultura – sia compromesso o comunque osteggiato dalle funzioni secondarie, che invece dovrebbero fungere da sostegno ed essere pianificate e organizzate a favore della produzione stessa.
In genere ciò accade tanto più frequentemente quanto maggiori sono le dimensioni della struttura, ed in simili circostanze è quasi sempre inevitabile che la maggior parte del personale impiegato all’interno della struttura stessa sia completamente disinteressato alle esigenze e alla buona riuscita del prodotto artistico.
Si determina così una situazione paradossale: laddove ci sarebbero i mezzi e gli strumenti per un lavoro agevolato tutto diventa più difficile e faticoso, mentre - in modo inversamente proporzionale – la felicità creativa e la soluzione dei problemi fiorisce più spesso nelle situazioni economicamente meno salde delle compagnie indipendenti.
Il,motivo di questa differenza è semplicissimo: mancanza o presenza di entusiasmo, di passione e di etica nella propria professione!
Nella parte conclusiva dell’articolo di Mimma e Oliviero, vengono poste alcune domande molto importanti e molto necessarie:
quale il senso e la funzione di un teatro pubblico…
come difendere l’identità e la continuità di un progetto culturale…
come risolvere una più corretta gestione del denaro tra pubblico e privato…
come si può oggi parlare di ricerca e sperimentazione…
quali sono i limiti e i rischi nella ‘contaminazione’ delle esperienze…
fino ad arrivare all’annosa questione del ricambio generazionale…
Confesso di essere sommerso dalla quantità di riflessioni in merito a questi argomenti, le risposte possibili sono molte e complesse, ma - pur con il rischio di dire un’ovvietà - penso sia opportuno recuperare due concetti basilari, che sono appunto figli di un approccio ‘etico’ alla professione: competenza e trasparenza!
Il primo dei due mi sta particolarmente a cuore e sono convinto che andrebbe difeso con maggiore forza e complicità da parte di artisti, intellettuali e addetti al settore.
La plateale mancanza di competenza – non soltanto teatrale e culturale ma anche relativa ai meccanismi e alle necessità di una produzione creativa – da parte di molti organi decisionali e individui ‘potenti’ è un cancro micidiale e purtroppo sempre più sviluppato. E’ un problema a vasto raggio, che contamina aspetti diversi della situazione teatrale italiana.
Attori, registi, organizzatori e altri professionisti del teatro, nonché compagnie indipendenti e non, si trovano troppo spesso ad avere a che fare con l’ignoranza di amministratori, direttori, critici, consiglieri di amministrazione che hanno il potere di determinare o di influenzare i loro percorsi professionali e di giudicare il loro lavoro senza avere la minima competenza necessaria per farlo.
Questa ‘cattiva’ pratica è piuttosto recente e sempre più diffusa e riguarda anche molti altri settori e professionalità, e tuttavia continuo a stupirmi dell’indifferenza e della mancanza di reazione con cui venga accettata.
È chiaro che questa pratica va a braccetto con l’altra sua cattiva gemella, e cioè la politicizzazione delle cariche, l’ingerenza partitica in tutte le sfere della gestione pubblica e anche di quella privata, sorella a sua volta della mancanza di trasparenza nell’assegnazione dei ruoli e delle cariche, dove l’eventuale competenza in materia diventa un possibile (e purtroppo sempre più raro) valore aggiunto piuttosto che un motivo sine-qua-non, quando non è addirittura considerato una possibile ragione di fastidio!
Le conseguenze delle ‘cattive pratiche’ dovute al proliferare della mancanza di competenza e di trasparenza nell’universo teatrale italiano ammalano tutti gli argomenti delle domande poste da
Mimma e Oliviero, e ne suggeriscono per contrapposizione le risposte possibili.
Il senso e la funzione di un teatro pubblico non possono essere definiti da amministratori o assessori inetti o corrotti, la cui preoccupazione principale è spesso quella di interrompere progetti culturali in atto solo perché promossi da cariche precedenti di altro colore partitico oppure quella di favorire interessi di stampo massonico.
Lo stesso problema riguarda la difesa di quei progetti culturali che necessitano di un tempo lungo di maturazione e che invece sono spesso interrotti o sviliti appunto dalla successione di quelle cariche che dovrebbero essere preposte a favorirne lo sviluppo.
Episodi a dimostrazione di questo meccanismo malato - nemico di ogni crescita culturale e artistica, nemico di chi opera nel proprio settore con passione e dedizione, nemico di chi è fruitore e destinatario del prodotto creativo - sono purtroppo molto frequenti e l’indignazione generale che in alcuni casi provocano non sembra sufficiente ad impedirne la monotona reiterazione in altri luoghi o in situazioni simili.
Il recente caso della Civica Scuola Paolo Grassi di Milano, dove la revoca dalla carica al direttore artistico è stata imposta in modo barbaro da un Consiglio di Amministrazione ignorante o disinteressato delle reali necessità didattiche della Scuola stessa e privo di argomenti sussistenti, è parente di altri casi più o meno noti in cui direttori artistici competenti e motivati sono soffocati dal rapporto con i “poteri” che li sovrastano e che spesso ne interrompono progettualità intelligenti, senza motivazioni comprensibili, senza alternative valide e soprattutto senza la competenza e la trasparenza di cui il proprio ruolo decisionale dovrebbe essere garanzia.
Lo stesso problema si pone purtroppo anche per quanto riguarda il discorso del ricambio generazionale, questione delicata e complessa.
Il rispetto per la tradizione non va confuso con il perdurare atavico di personalità o di situazioni che hanno esaurito – per stanchezza, per comodità o per assopimento - la loro funzione-guida; ma al tempo stesso la promozione di quadri e di nomi nuovi non può essere avulsa dall’acquisizione di competenze professionali che vanno verificate sul campo.
Non basta certo la proclamazione da parte di intellettuali o critici di parte - ossessionati dall’ansia della scoperta di nuovi talenti, nuovi linguaggi e nuove proposte oppure preoccupati di dare credibilità ai propri ‘protetti’ - a rendere legittime investiture improbabili, senza contare che non basta essere ‘nuovi’ per essere significativi e che la giovinezza anagrafica non sempre è sinonimo di novità creativa.
Gran parte del sistema teatrale è oggi schiacciato nella morsa stretta tra la difesa di situazioni inamovibili da un lato e dall’affannosa ricerca di espressioni ‘nuove’ dall’altro, nella colpevole dimenticanza che il teatro è un’arte artigianale che si costruisce in un tempo lungo, paziente, necessario di approfondimenti meditati più che di rapidi risultati le cui tracce sono labilissime. Costruiamo sui frutti di quanti ci hanno preceduto, e penso sia opportuno farlo con amore e con il giusto rispetto, soprattutto quando si aprono spiragli nuovi che difficilmente non sono debitori almeno in parte delle esperienze passate. Eppure vedo prolificare più spesso situazioni di contrasti e di rivalità che non esempi di convivenza leale e di rispetto che tanto più sarebbero utili alla definizione di un fronte comune per correggere almeno in parte le ‘cattive pratiche’ citate prima.
Difendere e promuovere la propria identità artistica non implica necessariamente atteggiamenti di sufficienza per identità di segno diverso, senza contare che spesso la visione di esperienze differenti dalla nostra può aprirci utili spunti di riflessione e magari anche stimoli inaspettati.
La mia esperienza di allievo di un grande maestro, di attore, regista e pedagogo mi ha insegnato che la complicità aiuta il processo creativo tanto quanto il contrasto lo inibisce e lo irrigidisce in forme vuote di vita e di gioia. È semplice e scontato quello che dico, ma allora perché è così complesso favorire le condizioni perché ciò accada?
La politica gestionale delle grandi produzioni, i criteri più diffusi nella definizione delle programmazioni teatrali, i meccanismi ostinati e oscuri della distribuzione e della vendita, la ridicola mancanza di relazione tra accademie drammatiche e centri di formazione con teatri e centri di produzione, il rapporto assurdo e malato tra critici e artisti, basato più spesso su alleanze di segno massonico o sulla completa indifferenza reciproca che non su un dialogo aperto e utile ad entrambe le categorie…tutte queste situazioni lavorano in segno opposto alla collaborazione necessaria per la creazione di un teatro pubblico forte.
Un teatro capace di superare l’autoreferenzialità, di favorire uno scambio produttivo tra artisti, critici, intellettuali e studiosi ma soprattutto capace di parlare allo spettatore reale e non soltanto all’adepto di questa o quella setta. Un teatro necessario alla comunità e quindi più facilmente alieno da gestioni discutibili.

Leo ci raccontava spesso l’aneddoto di una sua conversazione con un personaggio ‘importante’ disposto ad aiutarlo a patto che – dopo tanti anni di “ricerca” – si decidesse finalmente a realizzare uno spettacolo vero: mi auguro che ogni commento sia superfluo, ma insidioso e birbantello riaffiora il fantasmino della competenza!
Quale competenza e trasparenza ha oggi chi è chiamato a garantire sulla validità di un progetto culturale o della programmazione di un festival o della stagione invernale di un teatro?
Come interrompere la cattivissima pratica degli “scambi” nelle programmazioni tra le produzioni dei teatri stabili, un malcostume che dovrebbe essere non soltanto vietato ma addirittura multato dal Ministero dello Spettacolo in quanto strangola la possibilità di sopravvivenza di tante compagnie e artisti privi di ‘protezione’ ma dotati di ispirazione creativa più sincera e più utile alla comunità pubblica?
E non dovrebbe forse lo stesso Ministero individuare una formula valida per dissuadere il proliferare in tante programmazioni teatrali degli stessi titoli e degli stessi autori, promuovendo attivamente la proposta di autori meno rappresentati ma non meno interessanti?
Pochissimi sono i direttori artistici capaci del coraggio e dell’intelligenza necessari a proporre cartelloni di segno diverso, così come quelli capaci di intuire con sensibilità viva la curiosità di un pubblico che da un lato sembra timoroso di avventurarsi in territori poco noti ma che in realtà è stanco di vedersi propinare sempre le stesse proposte.
E quei pochi non soltanto non sono sostenuti ma spesso addirittura ostacolati. Non dovrebbe essere funzione di un teatro ‘pubblico’ favorire questo processo?
E chi infine ha le competenze e la trasparenza necessarie per indicare una via condivisibile nel “ricambio generazionale”?
Non ho una soluzione per questi interrogativi, e non suggerisco utopie irrealizzabili, ma sono convinto che il primo passo sulla via di una ‘buona pratica teatrale’ sia da un lato quello di avere il coraggio e la determinazione di mettere a fuoco la propria identità artistica senza temere esclusioni e senza il bisogno di sentirsi omologati, e dall’altro quello di recuperare alcuni concetti semplici che – per quanto possano essere schiacciati dalle cattive pratiche – sempre riaffiorano e indicano vie percorribili con evidenza lapalissiana per il motivo semplicissimo che il teatro – a dispetto della sua fantastica “finzione” - non mente, e che quasi sempre il segno di queste buone pratiche è quello della collaborazione e della condivisione.


 
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