ateatro 126.46
Le reincarnazioni del signor Rossi Paolo e la maga Carolina
La prefazione a Paolo Rossi, La commedia è finita. Conversazione delirante con Carolina De La Calle Casanova, elèuthera, Milano, 2010
di Oliviero Ponte di Pino
 



Nell’arco di questi trent’anni sono stato testimone di numerose incarnazioni – o saranno state reincarnazioni? – di Paolo Rossi. E, sono certo, altre ne vedrò in futuro.
Paolo Rossi è l’ultimo dei comici lanciati dal mitico Derby Club in viale Monte Rosa, dove lo vidi una sera tra gli ultimi Settanta e i primissimi Ottanta (poco dopo lo chiamai a fare uno di suoi pezzi, Libano rosso, in una trasmissione che conducevo su Raitre: glielo feci fare in diretta, perché altrimenti non sarebbe andato in onda). Ma Rossi fu anche l’apripista della nuova leva dei comici dei locali della movida della “Milano da Bere”, facendo ridere in controtendenza. Poi fu il personaggio genio-e-sregolatezza di Comedians, spettacolo-manifesto di quella nuova leva, ma anche l’attore di un altro spettacolo-simbolo come Nemico di classe. Insomma, in quella vita era il “Lenny Bruce dei Navigli”, insuperato portavoce della poetica della sfiga, piccolo, incazzato e interista (nell’epoca felice in cui Evaristo Beccalossi sbagliava diversi rigori nella stessa partita). E naturalmente fu anche profeta: quando vide tra i primi (nel 1982!) il Pianeta Craxon, destinato ad autodistruggersi nell’esplosione di Tangentopoli dieci anni più tardi.
Nel frattempo, in quelle vite o in una vita parallela, è stato il monologhista che s’accorse per primo che la formula rischiava di diventare ripetitiva, e dunque si è reinventato “attore jazz” per intrecciare le sua parole con le musiche di una rock-pop-jazz-folk band. E’ stato “riattivatore” di capolavori, misurandosi con i classici della comicità: l’Opera da tre soldi (tradotta in “due lire” anche per motivi di copyright), e dopo Brecht ecco Molière, Rabelais, Jarry... A leggere questa sfilza di autori, sembra quasi che abbia studiato alle “scuole alte” e non all’istituto per diventare chimico, ma forse, in una precedente incarnazione... E’ stato il primo che in Italia s’è accorto dell’esistenza di un genio eccentrico e caustico come George Tabori e ha portato in scena Jubiläum, un testo dove si ride di Hitler ma anche degli ebrei.
Si è anche manifestato come star televisiva, in una trasmissione rivoluzionaria (per il linguaggio televisivo e per i contenuti) come Su la testa!, fiorita in un tendone da circo alzato a Baggio, un tempo leggendaria periferia sud di balordi e delinquenti (il tendone che ha lanciato Zelig, piazzato a Sesto San Giovanni, un tempo leggendaria periferia nord di operai e immigrati – dal sud –, è figlio di quel tendone). Finita quella stagione, diventato dunque una ex star televisiva che sa fare a meno della televisione, ha usato le tecniche dell’animazione – quelle nate per le scuole e le comunità del disagio, poi utilizzate per allietare le serate nei villaggi turistici – per rianimare un pubblico paralizzato da anni di televisione e recuperarlo alla partecipazione teatrale (rubacchiando qualche suggerimento a Shakespeare, se vi pare poco...).
Finché il guitto, il buffone, il “signor Rossi” non è sceso in campo con uno spettacolo in difesa della Costituzione. E’ stato il comico di successo che ha messo in scena il proprio fallimento in uno degli assoli più veri e belli degli ultimi anni, Sulla strada, ancora. E’ stato l’attore di richiamo che finisce per fare il protagonista – ma con il nome in locandina piccolo piccolo – della Cimice di Majakovskij, nei panni di un ubriacone (un altro? sarà una coincidenza...) che risorge (questa volta il personaggio, non Paolo) dopo essere rimasto a lungo ibernato e getta lo scompiglio in un mondo che vorrebbe essere perfetto. L’attore di nome che fa il protagonista nello spettacolo di una giovane compagnia semi-sconosciuta, Baby Gang, nei panni di un poeta ubriacone – e morto – in D'ora in poi, ispirato a Luci di Bohème di Ramon del Valle-Inclán (con la regia di Carolina de la Calle Casanova).
Ecco, queste sono solo alcune delle reincarnazioni, o se preferite delle morti e resurrezioni, di Paolo in questi anni, alcuni scampoli di una storia teatrale che sembra avere per motto “Solo chi cade può risorgere”.
Una delle sue reincarnazioni più recenti è per me la più magica. Perché Paolo Rossi si è reincarnato in un Maestro. In un Maestro di Teatro. E forse anche in un Maestro di Vita: in base al metodo scientifico, dove si impara “per prove ed errori” (e di errori ce ne sono molti), ma anche per colpi di genio.
E’ una reincarnazione sorprendente, perché quella di Paolo Rossi (che sarebbe anche la mia) è nata come generazione senza padri e senza maestri: li avevano già azzerati tutti, quelli buoni nel ’68 e quelli cattivi nel ‘77... Ci siamo dunque formati da soli, a prescindere da istituzioni e curricula, vagabondi tra le speranze e le rovine, in un orizzonte confuso e feroce ma pieno di energie.
E’ una reincarnazione sorprendente, anche perché uno dei primi gesti teatrali di Paolo – uno di quelli che fanno curriculum – è stato farsi espellere (o abbandonare) la scuola di teatro che frequentava: quando lo racconta fa molto ridere, così viene il sospetto che l’abbiano diplomato a pieni voti e che questo pseudo-fallimento sia un’invenzione.
(Una piccola parentesi: passato qualche tempo, questa generazione i Maestri se li è andati a cercare, se li è trovati, o se li è addirittura inventanti. Così, arrivato a una certa età, Paolo ha deciso che i suoi maestri sono stati soprattutto Dario Fo, con cui ha lavorato agli inizi, e Giorgio Strehler, che ha visto in lui l’Arlecchino del terzo millennio e per questo l’ha allenato. In queste pagine troverete più di una traccia della loro lezione, che non è un metodo, ma una costellazione di segreti che chi guarda in quel cielo può collegare in una costellazione).
Ecco, a un certo punto, come per miracolo – complice la durezza tutta femminile (e andalusa) della maga Carolina de la Calle Casanova – Paolo si è reincarnato in uno straordinario maestro di teatro. Anche se “straordinario” in realtà non lo si potrebbe ancora dire: un maestro non lo si giudica dalle lezioni, ma dai risultati dei suoi allievi, e adesso è ancora troppo presto... E invece no! Lo si può dire, che Paolo è diventato un maestro straordinario, perché è un Maestro molto diverso dagli altri.
In questi anni, lui e Carolina sventolano una bandiera, una piccola utopia, quella del Nuovo Teatro Popolare. E’ una pedagogia rivolta in primo luogo agli attori, ovviamente, ma anche al pubblico: non ci sono trucchi del mestiere da custodire gelosamente, solo piaceri da condividere, sfide da affrontare insieme. Oppure, se esistono segreti del mestiere, non rientrano nella parte esplicita di questa pedagogia: vanno piuttosto rubati – come insegna la lezione fondamentale di questo non-metodo.
Il Nuovo Teatro Popolare di Paolo e Caterina è un teatro d’emergenza. Anche se, a dire il vero, il teatro è sempre d’emergenza, sottoposto alle mutevoli fantasie dei potenti e ai mutevolissimi desideri dei signori spettatori. Ed è diverso ogni sera per i mille imprevisti che dalla vita vera (e dalla platea) tracimano sulla scena: così quella utopia ben temperata, dove tutto sarebbe previsto in anticipo (il testo, lo spazio, i gesti, le intonazioni, gli incroci di sguardi...), si può scombussolare in qualunque momento, obbligando gli attori a scivolare come surfisti sull’onda dell’improvvisazione.
Così anche il “non metodo” del Nuovo Teatro Popolare è pedagogia d’emergenza. Per un mestiere precario. Per un’epoca precaria, per una compagnia precaria (tanto che la pedagogia può contribuire alla sua sussistenza). Per un pubblico precario – al quale bisogna far capire ogni volta che cosa è il teatro (che non è televisione e non è cinema, e nemmeno internet! Il teatro è più vero, necessario e meglio...). E perché il teatro è magico. E perché il teatro li riguarda.
Proprio per le sue caratteristiche di “non metodo”, la pedagogia di Paolo e Carolina (che nel duetto incarna la sponda necessaria, è la voce della ragione, che obbliga Paolo a tessere il filo segreto della sua lezione di teatro e di vita) può essere somministrata in vari modi. Poi sta all’intelligenza, alla costanza e all’astuzia di ogni allievo prendere o rubare quel che gli serve. Del metodo fanno parte anche i seminari e i dibattiti, le lezioni e le conferenze (volendo), e poi le pubbliche dimostrazioni di lavoro, che diventano veri e propri spettacoli, divertenti e coinvolgenti.
Ma c’è anche un altro segreto, che è il seme di questo libro. Uno dei sistemi pedagogici più efficaci, in teatro, sono da sempre le chiacchiere dopo lo spettacolo tra gli interpreti, il regista, i tecnici, e magari qualche altro amico capitato lì apparentemente per caso.
Chiacchiere svagate, in cui si scarica l’adrenalina accumulata durante la recita. Chiacchiere spesso alcoliche, in apparenza divagatorie. A una prima lettura, quello che ci regalano in queste pagine il signor Rossi e la maga Carolina è solo un pezzo della loro vita: un pezzo addirittura un po’ segreto, intimo, pur trattandosi di gente di teatro, abituata a esibire in pubblico anche un po’ di privato. Entriamo a spiare in camerino mente si cambiano dopo gli applausi, origliamo mentre passeggiano verso il ristorante, ascoltiamo la loro conversazione dal tavolo accanto durante la cena...
In realtà questo è un piccolo dialogo teatrale (con qualche comparsa...) in cui due teatranti parlano di teatro. “Teatrale”, “teatranti”, “teatro”, che noia! Ma quella ripetizione in realtà nasconde un’ossessione... E nasconde un trucco che in scena funziona da sempre: usare il teatro per raccontare il teatro. Gli esempi si sprecano. C’è la celebre scena dei comici nell’Amleto di Shakespeare e, geograficamente più vicini a noi, Le due commedie in commedia di Andreini, Il teatro alla moda di Benedetto Marcello, Il teatro comico di Goldoni. E poi I sei personaggi in cerca d’autore e la sfilza delle divagazioni pirandelliane sulla poetica del “teatro nel teatro”, e magari Eduardo quando faceva Sik Sik l’artefice magico o La grande magia...
Da un lato dietro questa ossessione c’è il narcisismo dei teatranti, convinti che tutto quel che capita loro sia interessante. E che, già che ci sono, ne approfittano per regolare qualche conticino con i rivali e le malelingue (che nell’ambiente abbondano da sempre).
Ma c’è un’altra ragione, molto più importante, dietro questa necessità di mettersi in scena. Il teatro – meglio la dimensione teatrale, più o meno nascosta – da sempre fa parte della nostra vita quotidiana. Siamo tutti, insomma, “attori naturali”. Dunque questa “educazione teatrale” non serve solo per farci ridere quella sera delle sciocche invenzioni dei buffoni e delle loro buffe pene. Non serve solo per educare il nostro gusto teatrale (due nobili obiettivi, peraltro). Serve soprattutto, a noi spettatori, per insegnarci qualche meccanismo della nostra vita quotidiana, e magari per regalarci qualche trucco del mestiere.
Ecco, quel che ci raccontano Paolo e Carolina nel loro dialogo notturno, mentre s’avvicinano le luci dell’alba, è una lezione che, se rubiamo i loro segreti, ci può servire nella vita, in quel continuo gioco di maschere in costante mutazione. Perché questo gioco di maschere è, tra le altre cose, anche la politica - come sanno da sempre tutti i leader politici, con i loro exploit retorici, le loro uscite teatrali, i loro tempi ben calibrati.
Ci serve perché ogni società (compresa la nostra) ha il teatro che si merita (compresi Paolo e Carolina, per fortuna) – e spesso il teatro avverte e anticipa il bene e il male dell’evoluzione politica.
Però poi, per fortuna, malgrado questo sovraccarico di responsabilità, il teatro resta teatro. Per il bene di tutti. Resta quel gioco inutile e necessario dove il giovane diventa vecchio e viceversa. Dove l’uomo diventa donna, e viceversa. Per esempio, in questo dialogo il personaggio di Paolo è il vecchio che, dopo averne combinate di tutti i colori, ha raggiunto una sorta di paradossale e provocatoria saggezza. Maturo, cioè mezzo rovinato dalla vita. Esperto, per aver commesso mille errori. Il personaggio di Carolina incarna invece la giovane in parte affascinata – e forse sedotta – da quell’uomo più esperto e famoso. Al tempo stesso, la ragazza si fa forte delle proprie certezze, e della loro logica apparentemente inattaccabile, sempre curiosa e a momenti polemica. E’ graziosa e a tratti seduttiva, anche e soprattutto nella sua polemica irruenza – con quel pizzico inevitabile di petulanza. Un po’ ingenua, convinta di essere innocente, vogliosa di scrivere il libro del destino e del teatro.
Ecco, mi piacerebbe vederlo sulla scena, o al cinema, questo dialogo. Con il signor Rossi che interpreta il personaggio della maga Carolina, e la maga Carolina che interpreta il signor Rossi.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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