ateatro 126.51
Nostalgia. Separazioni e ritorni
Il progetto I ritorni a Cagliari
di Remo Bodei
 

Il tema dei "ritorni" ha costituito il filo conduttore di un ciclo di laboratori promosso dal Teatro Stabile della Sardegna, e la suggestione per una riflessione sul teatro e sui suoi strumenti espressivi - dal racconto alla poesia, dalla musica al linguaggio del corpo - grazie all’incontro con docenti di formazione e generazioni diverse. I Ritorni: ovverosia le odissee antiche e moderne, dall’avventura mitica coi suoi ricorrenti motivi – naufragi, perdite, ritrovamenti – alla peripezia del viaggio, che fino ai nostri giorni ha caratterizzato ogni “ritorno a casa”. I ritorni, che di ogni viaggio costituiscono l’approdo necessario, la via nella quale tutte le strade percorse confluiscono, tracciando il sentiero che riporta a sé, alla propria origine, alla propria terra; dove la multiformità delle esperienze vissute si fa ricerca della propria identità, e quindi del proprio futuro.
Domenica 13 e martedì 15 giugno, presso il Teatro Massimo di Cagliari, Il Teatro Stabile della Sardegna, da pochi mesi diretto da Guido De Monticelli, con il patrocinio del Comune e la collaborazione della Regione (assessorato al Turismo, Artigianato e Commercio), presenta i primi esiti pubblici dei laboratori: con tre spettacoli-studio a cura di Franco Graziosi (Mille anni di poesia), Veronica Cruciani (Su ballu 'e is animas) e dello stesso De Monticelli (Storie a mare! Verso l'America).
Martedì interverrà anche Remo Bodei, uno dei massimi filosofi italiani, sardo, che "torna" a Cagliari dalla California dove insegna, riceverà dal Sindaco un simbolico "premio del ritorno" e terrà una conversazione sul tema Nostalgia. Separazioni e ritorni. www.ateatro.it ne anticipa lo schema.


La vita di ciascuno di noi sperimenta continuamente la separazione: dal corpo della madre, dai genitori, dagli amici, dalla propria città. L’esistenza individuale e sociale è un alternarsi di separazioni e ricongiungimenti, di fratture e di saldature, di addii del passato e di scoperte del nuovo. Siamo incessantemente come potati da noi stessi e dagli altri, dalla casa natale e dalla comunità di origine, isolati, levigati o resi aspri dal dolore del distacco (un aspetto che spesso si dimentica quando si pensa ai migranti, avendo in mente il nostro disagio e non il loro). Ci si sforza, per lo più, di abituarsi al distacco e di farsene una ragione, specie quando coincide con una perdita irreparabile Si sopravvive così alle separazioni elaborando diverse strategie, che permettono di svettare nuovamente al di sopra del sentimento luttuoso della perdita.
Un immane cumulo di dolore e di nostalgia si nasconde dietro ogni esilio o emigrazione, dietro gli innumerevoli distacchi dai luoghi e dalle persone che si amano. Vi sono esili e ritorni spaziali, geografici, ma anche temporali. Il mero trascorrere del tempo introduce in ogni individuo una frattura con il passato, crea un vuoto che lo aspira e rischia di farlo rinunciare alla pienezza del presente.
Tuttavia, una volta precipitati nei “flutti del tempo”, che senso ha macerarci per sempre nel melanconico sentimento della perdita, nella paura che tutto ci sfugga e precipiti nel nulla? Più saggio, ma senz’altro più difficile, è convincerci del fatto che, come diceva un filosofo francese, “colui che è stato non può più non esser stato: ormai questo fatto misterioso e profondamente oscuro dell’esser stato è il suo viatico per l’eternità” .
Nella nostra navigazione nel mare senza rotte prefissate dell’esistenza il passato si mostra come patria perduta e la memoria come veicolo per viaggiare a ritroso solo mentalmente. Come tamponare questa emorragia di vita? È pericoloso e autodistruttivo votarsi al lutto, non rielaborare il trauma della perdita di quel che eravamo nelle comunità precedenti che si sono dissolte: della famiglia come la conoscevamo da bambini e da adolescenti, dei compagni di scuola e di università, dei commilitoni, dei colleghi nel posto di lavoro che abbiamo lasciato. Ciò da cui ci si è staccati rimane certo custodito nel ricordo e anima passioni come la nostalgia, la malinconia, e il rimpianto, ma conserva anche la dolcezza, la tenerezza e la memoria di sprazzi di allegria.
Ma come comportarci davanti all’irrealizzabile desiderio di ritornare a quel passato da cui incessantemente ci allontaniamo? Una strategia consiste nel concentrarsi nel presente, nel far valere la saggezza di Goethe contro la nostalgia di ciò che è stato e le vacue speculazioni sul futuro: “Solo il presente è la nostra felicità”. Un’altra - possibile solo nello spazio, dove ci si può muovere in tutte le direzioni, e non nel tempo, la cui freccia si muove nella sola direzione dal passato al futuro - è quella del mirare al ritorno. Soprattutto in chi è vissuto lontano e sogna la sua Itaca, tale nostalgia traccia “una specie di geografia patetica”, al centro della quale si situa “la città natale, quella dove fuma, all’ombra del campanile, il cammino della casa materna”. Ma questa “nostalgia chiusa” è talvolta esposta alla delusione del ritorno, quando si scopre che non è la terra natia, in quanto tale, quella cui si aspira, ma qualcos’altro. La patria geografica si mostra allora come un pretesto, una forma di razionalizzazione di un desiderio inespresso. Esso, anche in relazione al passato, ha infatti a che vedere con l’impossibilità del ritorno: ciò che rende la nostalgia incurabile, è l’irreversibilità del tempo”.
Noi tutti siamo esiliati nello spazio, ma tutti lo siamo nel tempo. Attraverso la traballante passerella del presente transitiamo da un passato relativamente noto verso un futuro ignoto. Abbiamo quindi bisogno sia della memoria, per mantenere la nostra continuità, sia dell’oblio, per non restare attaccati al passato ed aprirci al nuovo. Dobbiamo quindi imparare a vivere, simultaneamente nelle tre dimensioni del tempo: memori del passato, vigili nel presente, proiettati verso il futuro.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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