ateatro 45.4
Oggetti perturbanti: le marionette
Dalla Festa delle Marie a Kantor
di Concetta D'Angeli
 
E’ luogo comune o automatismo del pensiero, prodotto, a dire la verità, soprattutto da ignoranza intorno all’argomento, quello che, in modo particolare in Italia, collega strettamente il teatro di marionette all’infanzia: attribuzione che ha tutta l’aria di essere una degradazione e che pone il teatro di marionette in un oggettivo stato di inferiorità rispetto al teatro cosiddetto maggiore. In questo senso c’è una sorta di parallelismo tra la degradazione che viene riservata alla marionetta1 e la degradazione medesima alla quale è costretto il bambino, considerato dall’adulto una sua copia imperfetta. Afferma Brunella Eruli, con una frase che mi pare da sottoscrivere per intero: "All’uomo incompleto si offre la marionetta, attore incompleto perché privo di umanità" 2.
Per introdurre dubbi nella falsa persuasione che proprio le sue (presunte) semplicità e elementarità rendano la marionetta adeguata alla semplicità e elementarità del mondo infantile, è opportuno fornire alcune rapide informazioni storiche sul teatro di marionette nel mondo occidentale, dove esso ha avuto un ruolo molto più importante di quanto attualmente si supponga3. Diverso, e del tutto eterogeneo rispetto alla linea del mio discorso, è quello che si può dire a proposito della marionetta del teatro orientale; perciò trascurerò di affrontare questo argomento.
Il nome della marionetta si deve a una usanza veneziana, la "Festa delle Marie". Si racconta che nel 944 dodici ragazze di Venezia, che si avviavano, per sposarsi, alla chiesa di Santa Maria della Salute, vennero rapite dai pirati; ma i veneziani seppero rapidamente reagire e, inseguiti i rapitori, riuscirono a ucciderli e a riprendersi le spose. L’episodio dette origine a una festa annuale, durante la quale si portavano in processione dodici ragazze, che rappresentavano le spose rapite e che ottenevano il diritto di ricevere una ricca dote dalla Repubblica veneziana. Così racconta Yorick: "La scelta delle ragazze era un munus publicum del Doge; ma coll’andar del tempo, cotesta faccenda accattando infinite brighe allo Stato, invalse l’uso di sostituire alle donne altrettante figure scolpite, abbigliate con lusso, e chiamate dal popolo le Marie di legno… o le Marione, per indicare che erano più grandi del vero. Nella settimana delle Marione i baloccai veneziani mettevano in vendita certe piccole riduzioni dei grandi simulacri, che si smerciavano a migliaia; e perché erano precisamente un diminutivo delle Marione, si chiamarono le Marionette" 4.
La marionetta era ben conosciuta e molto utilizzata nel mondo antico: nella VII del II libro delle Satire, il poeta latino Orazio la definisce "mobile lignum", dandoci così anche un’informazione sul materiale, il legno appunto, col quale essa era prevalentemente costruita. Più tardi sono i Padri della Chiesa ad occuparsi del teatro di marionette: severissimi contro gli attori in carne e ossa, parlano invece senza biasimo del "gioco" delle marionette, che evidentemente risultava ai loro occhi meno pericoloso degli altri spettacoli teatrali. Nel Medioevo appaiono le marionette sacre, che la Chiesa tollera per rappresentare i Misteri o alcuni episodi delle vite dei Santi, soprattutto i loro martìri; ne accetta la presenza in occasione di particolari festività o processioni; se ne serve per la raffigurazione di mostri o demoni spettacolari.... Però mantiene una certa diffidenza e seguita a vigilare con sospetto, perché non avvengano abusi che potrebbero coinvolgere la religione.
Legato ai riti della fertilità e della nascita, il teatro di marionette ha contenuto fin dalle sue origini l’elemento comico, ma ha sempre teso ad appropriarsi anche di altri contenuti della cultura dominante e ufficiale. Il suo repertorio è stato perciò molto vasto, inglobando episodi della letteratura cavalleresca, ma anche argomenti più complessi e in qualche misura metafisici, come quello della creatura umana che vende l’anima al diavolo: è il tema di Faust, che trova la sua prima espressione in Germania, nel teatro per marionette della monaca Hroswita, prima di approdare, attraverso una serie lunga di passaggi, al teatro di Goethe. Del resto, anche i legami di Goethe con le marionette furono stretti e importanti, come si deduce dal ruolo di rivelazione, che alle marionette è attribuito nel Wilhelm Meister.
Alle marionette è strettamente legata la musica, e soprattutto e fin dal suo primo nascere, il melodramma: nel Settecento Franz Joseph Haydn compone cinque piccole opere per marionette, oltre alla "Sinfonia Burlesca"; di opere per marionette fu autore anche Cristopher Winnibald Gluck; Il Flauto Magico di Mozart avrebbe dovuto essere rappresentato da marionette.
Ma un grande cambiamento avviene dall’inizio dell’Ottocento, quando gli spettacoli di marionette, da una parte, si perfezionano tecnicamente e si arricchiscono come impatto teatrale, ma d’altra parte smettono gradualmente di rivolgersi alle classi popolari, per diventare soprattutto territorio infantile. Comincia così la decadenza delle marionette classiche, che assume l’aspetto specifico anticipato all’inizio: nella loro destinazione prevalente le marionette vengono utilizzate per rappresentare favole da bambini e finiranno per essere soppiantate anche negli spettacoli infantili, da quando, a Novecento avanzato, la televisione diffonde la rivoluzione dei cartoni animati.
In strettissima sintesi, questa è, per così dire, la storia documentabile della marionetta nelle vicende del teatro occidentale. Ma ce n’è un’altra, parallela e più affascinante, alla quale si riallacciano quegli sperimentatori teatrali del primo Novecento, che decidono, nei loro progetti o sogni o utopie di rinnovamento teatrale, proprio di ricorrere a un oggetto desueto come la marionetta. Mi riferisco in particolare a Edward Gordon Craig e, in anni più recenti, a Tadeusz Kantor – ma si potrebbe pensare anche a Mejerchol’d, in Russia; o in Germania a George Grosz, che allestisce spettacoli satirici con marionette; o, in Svizzera, a Adolph Appia, che collabora con il marionettista Otto Morach, e alla scuola del Bauhaus; in Francia, a Gaston Baty, che teorizza la superiorità della marionetta sull’attore in carne e ossa… e si potrebbe continuare. Il fatto è che marionette e burattini riuniscono alcune importanti caratteristiche che, soprattutto nel primo Novecento, vengono molto amate negli ambienti teatrali che perseguono finalità di rinnovamento o di sovvertimento: "il sapore dell’Oriente e la massima disponibilità all’invenzione, il divertimento satirico e il gusto del grottesco, la ruvidità del popolare e del primitivo e il piacere di sperimentare i materiali più insoliti, l’improvvisazione e il massimo rigore" 5.
Alcuni degli autori che ho citato sopra si riferiscono al saggio, bello e anticipatore, che il drammaturgo tedesco Heinrich von Kleist, scrisse nel 1810, Sul teatro di marionette6, indirizzandosi agli artisti di teatro, e in particolare ai ballerini, nella convinzione che dovrebbero essere principalmente loro ad assistere agli spettacoli di marionette.

Per la chiarezza del mio discorso devo a questo punto introdurre una distinzione fra marionette, burattini, pupazzi e automi. Fatti di materiali diversi, dotati di caratteristiche antropomorfiche ma spesso simili ad animali o rivestiti di forme fantasiose e non realistiche, la vera differenza che distingue le quattro categorie che ho elencato è il loro rapporto con il movimento. Esso si potrebbe articolare in una successione progressiva, sulla base dell’autonomia e della vivacità. A sua volta, tale progressione induce, nel pubblico del teatro e comunque nei fruitori (a qualunque titolo) di marionette, burattini, pupazzi e automi, esiti psichici molto differenziati e che situerei anch’essi in una sorta di escalation: i pupazzi, privi di movimento, sono i più dipendenti dall’intervento della fantasia umana e anche da un intervento manuale, non travestito, esplicito e visibile; i burattini sono pupazzi vuoti all’interno e azionati dalla mano del burattinaio, che lavora prendendo posto nella loro cavità. Proprio per l’approssimazione dei movimenti di cui sono dotati, pupazzi e burattini appartengono in modo più evidente al territorio del comico, al quale li lega prevalentemente l’estremizzazione parodica: fanno ridere perché sono parodia di corpi umani e animali, perché si muovono impropriamente, perché, dei loro modelli, accentuano i comportamenti poco spirituali, eccessivi, sommari, privi di sfumature…
Le marionette sono azionate da fili che, maneggiati dall’alto dal marionettista, obbediscono spesso a un meccanismo complesso e permettono movimenti anche molto sofisticati e in grado di raggiungere, a volte, tali livelli di perfezione tecnica, da riprodurre i gesti umani o animali con un altissimo livello di somiglianza. Gli automi sono capaci di muoversi per conto proprio, grazie a meccanismi nascosti al loro interno. Anche nel caso delle marionette e degli autonomi non sono irrilevanti le reazioni comiche che producono, a causa della ripetizione imprecisa (e dunque avvertita come parodica) delle caratteristiche antropomorfiche, o comunque a causa di un movimento che viene percepito come inadeguatamente e ridicolmente affine alla vitalità e vivacità umana o animale. Ma accanto al comico, nel loro caso diventa importante un’altra conseguenza, anch’essa ascrivibile alle stesse cause, e cioè appunto alla ripetizione e alla parodia: voglio dire che, nel caso delle marionette e più ancora nel caso degli automi, si manifesta, in chi ne fruisce, una reazione poco decifrabile dal punto di vista psichico e capace di provocare sia repulsione sia attrazione ambigua: è una sorta di inquietudine, che non annulla del tutto, ma certo stempera molto l’effetto comico. Sulla natura di tale reazione voglio ritornare a interrogarmi più avanti.
Prototipo comune per marionette, burattini, pupazzi e automi è certamente la bambola, oggetto non rassicurante in termini psichici, e a sua volta diventato materia di gioco infantile dopo aver occupato uno spazio di rilievo nei riti religiosi e magici – e a grandi bambole sono assimilabili i manichini, ai quali pure mi occorrerà di riferirmi.

Che le marionette siano molto attraenti anche per gli adulti è un fatto sperimentabile con facilità: ci si può domandare di quale natura sia la suggestione che esercitano.
I meccanismi fascinosi del teatro, sperimentati, lungo il discrimine che separa e unisce realtà e incantesimo, sia sul piano delle esperienze sensoriali sia sul piano emotivo, che coinvolge affetti e sentimenti, sono smossi in un modo molto particolare da uno spettacolo (quello delle marionette appunto) dove non sono i corpi umani ad agire sul palcoscenico, come succede quando lavorano gli attori; ma dove il riferimento antropomorfico, pur restando molto forte, è nello stesso tempo esibito e rifiutato - o collocato in posizione parodica. Esibito, in quanto è il corpo, la pura materialità del corpo, ad emergere in primo piano: su questo punto insiste Kleist nel saggio Sul teatro di marionette, quando addita nel movimento meccanico della marionetta la perfezione, da lui definita senza mezzi termini "divina", che ogni ballerino desidererebbe trovare anche nei propri gesti. E’ però una perfezione che, a suo avviso, mai può cogliersi, alla stessa misura, nelle movenze umane: in primo luogo, perché essa nasce dall’assenza di gravità, che rende unici i corpi delle marionette, fra tutti i corpi materiali, permettendo loro di muoversi, sospese come sono ad un filo sorretto dalle mani del marionettista, senza soggiacere alla forza di gravità, che inevitabilmente attira gli altri corpi verso terra. E sono perfette, ancora secondo Kleist, a causa della totale mancanza di coscienza da cui gli arti delle marionette sono caratterizzati; dal fatto insomma che il corpo della marionetta, quali che siano i suoi gesti, ha un unico centro di gravità e che la gestione di questo centro di gravità è estranea alla marionetta, dal momento che risiede nelle mani del marionettista:

Ora, siccome il marionettista, mediante il filo di ferro o lo spago, non ha in suo potere nessun altro punto se non questo [il centro di gravità del movimento], tutte le altre membra sono ciò che devono essere, morte, semplici pendoli, e seguono soltanto la legge di gravità.7

E della materialità dei manichini parla più di una volta, nel suo libro prodigioso, Le botteghe color cannella (1934) 8, il narratore polacco Bruno Schulz, proclamando l’aspirazione umana alla creazione, ma ad una creazione che non entri in competizione con quella divina, che si serva di materiali inferiori, di scarto, e non ne nasconda la volgarità dietro la ricchezza e la fantasmagoria mutevole del gioco della vita:

Questo […] è il nostro amore per la materia come tale, per la sua pelosità e porosità, per la sua unica, mistica consistenza. Il Demiurgo, grande maestro e artista, la rende invisibile, la fa sparire dietro il gioco della vita; noi, invece, amiamo la sua dissonanza, la sua resistenza, la sua maldestra rozzezza. Ci piace vedere dietro ogni gesto, ogni movimento, il suo sforzo greve, la sua inerzia, la sua mite goffaggine da orso.9

A Schulz, e con ammirazione grandissima, si richiama un altro polacco, un regista stavolta, Tadeusz Kantor, che nei suoi spettacoli inquietanti ha ripetutamente utilizzato le marionette e i manichini, attribuendo loro un significato fondamentale per la sua arte. 10 Rispetto a Schulz, Kantor fa un passo avanti nel definire il tipo di attrazione che lega la creazione umana alle marionette: egli pensa che ogni atto di creazione, da parte dell’umanità, sia un gesto di ybris e abbia a che fare con il demoniaco, con ciò che è proibito e inaccessibile alla natura umana; perciò le marionette, creazione dell’uomo che ha voluto riprodursi, sono oscuramente legate a tutto ciò che per l’uomo è terrifico, ma anche a tutto ciò che è attraente, e prima di tutto alla morte. Già in uno dei primi spettacoli di Kantor, Balladyna, su testo di Slowacki, messo in scena nel 1943, i singolari manichini utilizzati11 rappresentavano i doppi dei personaggi vivi, diventavano i loro modelli, ma dotati di una coscienza superiore, acquisita proprio attraverso la morte.
Nel manifesto Il teatro della morte, pubblicato a Cracovia nel 1975, Kantor scrive:

L’esistenza di queste creature [i manichini] foggiate a immagine dell’uomo in modo quasi sacrilego e clandestino, frutto di procedimenti eretici, porta il segno dell’aspetto oscuro, notturno, sedizioso del processo umano, l’impronta del crimine e le stigmate della morte come fonte di conoscenza. L’impressione confusa, inspiegabile, che la morte e il nulla liberino il loro messaggio inquietante attraverso una creatura che manifesta illusoriamente i caratteri della vita, benché sia priva di coscienza e di destino – è questo che provoca in noi quella sensazione di trasgressione, a un tempo rifiuto e attrazione. Proibizione e fascino. 12

Il collegamento tra le marionette e la morte è evidente anche in quello straordinario capolavoro italiano che è Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi. Che Pinocchio sia una marionetta a tutti gli effetti è quanto dichiarano, con l’entusiasmo di una agnizione, Arlecchino, Pulcinella, Rosaura e gli altri attori del teatro di Mangiafuoco:

Quando all’improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare e, voltandosi verso il pubblico e accennando con la mano qualcuno in fondo alla platea, comincia a urlare in tono drammatico:
- Numi del firmamento! Sogno o son desto? Eppure quello laggiù è Pinocchio.
- E’ Pinocchio davvero, - grida Pulcinella.
- E’ proprio lui, - strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo alla scena.
- E’ Pinocchio, è Pinocchio! - urlano in coro tutti i burattini, uscendo a salti fuori dalle quinte. -E’ Pinocchio! E’ il nostro fratello Pinocchio! Evviva Pinocchio.
- Pinocchio, vieni quassù da me! - grida Arlecchino, - vieni a gettarti fra le braccia dei tuoi fratelli di legno!
13

Ma l’indiavolato ritmo delle avventure si interrompe mestamente nel finale del romanzo che, sebbene obbedisca alle necessità pedagogiche del ravvedimento del ragazzo ribelle, esprime attraverso una cupa immagine di morte il probabile dissenso dell’autore, e la sua presa di distanza da norme educative basate sulla repressione.14:

- E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?
- Eccolo là, - rispose Geppetto; e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto.
15

La morte, di cui la marionetta appare la portatrice, è al tempo stesso anche il passato di un bambino in carne e ossa, che di quella abbandonata marionetta è il doppio ostentatamente trionfante: al bambino restano il presente e il futuro vitali, insieme alla dimenticanza di ogni volontà trasgressiva, mentre la condanna per l’intemperanza proibita e il ridicolo di cui la norma spesso dipinge le trasgressioni, restano, insieme a un cupo senso di morte, sulla marionetta rinnegata:

"Com’ero buffo, quand’ero burattino! E come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!" 16

Sul ridicolo che la marionetta/Pinocchio manifesta, alla fine delle Avventure, voglio restare, per allargarlo a una considerazione più generale: il teatro delle marionette esibisce il riferimento antropomorfico, ma d’altra parte, e contemporaneamente, quest’ultimo è rifiutato - o collocato in posizione parodica, cioè nel territorio del comico, per il fatto che i corpi delle marionette duplicano quelli umani in una forma inferiore in quanto approssimativa, non autonoma e priva di intelletto e spiritualità; e dunque non possono che essere la parodia dei loro modelli. Anche qui devo fare appello all’ambiguità, che è forse l’elemento costitutivo della marionetta, per collegarla stavolta ai fenomeni del comico, dove pure l’ambiguità svolge un ruolo essenziale, essendo il comico, almeno nelle sue forme più alte, fenomeno complesso, e certamente ambiguo.17 Se le marionette sono parodia del modello umano, al quale si richiamano, esse, mentre fanno ridere, si prestano, come molte formazioni parodiche, ad ospitare quanto nel modello umano viene accantonato o respinto nel fondo, mai fatto emergere all’apparenza e alla dicibilità, perché rimosso oppure dimenticato: ma se i contenuti proibiti trovano una forma ridicola, il divieto a manifestarsi si attenua, perché in questa forma essi sembrano "pesare di meno", e dunque avere una forza di rottura meno pericolosa - sembrano caricarsi di minori responsabilità.
In un travolgente spettacolo di Tadeusz Kantor, La classe morta (1975), misto di momenti comici e momenti tragici, c’è un punto estremamente emozionante, in cui i personaggi, i vecchi compagni di scuola, entrano in scena "facendo corpo" con dei manichini, che rappresentano cadaveri di bambini. E’ un’immagine molto intensa, che Kantor spiega in questi termini:

cerco in questo spettacolo di mettere in evidenza che il nostro passato finisce col diventare una riserva dimenticata dove, a fianco dei sentimenti, dei clichés, dei ritratti di coloro che un tempo ci erano cari, si trascinano alla rinfusa dei fatti, degli oggetti, dei vestiti, dei volti. La loro morte è soltanto apparente: basta toccarli perché comincino a far vibrare la memoria e a far rima con il presente. Questa immagine non è affatto il frutto di una nostalgia senile, ma traduce l’aspirazione a una vita piena e totale che abbraccia passato, presente e futuro18

Se i manichini/marionette portati in scena consentono l’epifania del rimosso con tanta evidenza e con tanta forza, è anche perché l’immagine suggerisce con efficace persuasività l’analogia fra le marionette che, inanimate, trovano energia, vita, capacità di comunicazione sotto l’azione delle dita del marionettista; e i ricordi, dimenticati e rimossi sì, però capaci, a un piccolo tocco, di rianimarsi e ritrovare il loro ritmo e il loro movimento.
Torno ancora sulla parodia per sottolineare come essa, nel caso delle marionette, sia giocata accentuando la innaturalità dei corpi artificiali, che si sforzano di imitare quelli umani – e non ci riescono mai, e meno che mai proprio quando la loro (eventuale) perfezione tecnica li rende capaci di riprodurre con molta somiglianza tutti i movimenti dei corpi umani. Ma nell’ostinato persistere della innaturalità delle marionette, anche quando è fortissima l’intenzione mimetica, molti rinnovatori del teatro novecentesco trovano il modo di saldare al teatro di marionette la polemica che tutti conducono contro il concetto troppo semplicistico del naturalismo teatrale e della sua applicazione alla recitazione degli attori. Se infatti il riferimento alla marionetta, proprio per la sua attitudine parodica verso il corpo umano, raddoppia il valore di specularità che tradizionalmente il teatro assume nei confronti del reale, e dunque riproduce a un secondo livello, sia pure straniato, il gioco di specchi sempre rappresentato dal teatro; dall’altra parte, esso contribuisce, e ancora una volta a causa del suo aspetto parodico, a rendere inservibili le idee troppo ingenue della naturalezza e del naturalismo applicate allo spettacolo.
Se ne accorse per primo Edward Gordon Craig, che in un saggio apparso nell’aprile 1908 sulla rivista "Mask", da lui diretta, provocatoriamente ebbe l’aria di proporre l’abolizione degli attori e la loro sostituzione con le marionette. In realtà la sua proposta non andava in questo senso: Craig riteneva solo che fosse necessario liberare il teatro dalle debolezze dell’attore. La supermarionetta equivale, nella sua proposta provocatoria, all’attore che, avendo acquisito alcune qualità della marionetta, dovrà manifestare una tecnica di recitazione completamente diversa da quella in uso da parte del prim’attore del teatro d’eredità ottocentesca. Al di là delle polemiche, l’aspetto più importante e innovativo della proposta di Craig è il suo rifiuto di riferirsi al corpo dell’attore come all’equivalente dei corpi reali e il ricorso a quanto c’è di ambiguo, distante, ironico, innaturale nel corpo e nella recitazione della marionetta.

La condizione psichica che lo spettacolo di marionette suscita negli spettatori (e non faccio adesso alcuna differenza tra il pubblico adulto e quello infantile) mi pare insomma che sia ben interpretato dal concetto freudiano di "perturbante".19
Il perturbante è, secondo Freud, qualcosa di spaventoso, collegato a ciò che ci è stato familiare, ha subìto una rimozione e ritorna come rimosso, portandosi dietro una sensazione d’angoscia. Questa sensazione è nuova, ma finisce per fare tutt’uno con l’immagine ritornante, di per sé neutra o perfino attraente, che il passato ci consegna. Dunque l’elemento perturbante non è niente di estraneo o insolito, ma è anzi qualcosa di familiare alla vita psichica fin dai tempi più antichi - qualcosa che si è estraniato soltanto a causa del processo di rimozione.
Freud elenca molti oggetti e molte condizioni che assumono il carattere perturbante: per esempio, il motivo del sosia, cioè la comparsa di personaggi che, presentandosi con il medesimo aspetto, devono essere considerati identici anche se sono distinti; o ancora, la ripetizione involontaria, che rende inquietante ciò che di per sé sarebbe innocuo, insinuando l’idea della fatalità e dell’ineluttabilità là dove avremmo semplicemente parlato di caso. Ma fra i numerosi esempi addotti da Freud a me preme sottolinearne in particolare due: in primo luogo, il rapporto con la morte, con i cadaveri e con il ritorno dei morti, con gli spiriti e gli spettri – e abbiamo già visto come alcuni artisti (Schulz e soprattutto Kantor) mettano esplicitamente le marionette in relazione al regno della morte e al demoniaco. Ancor più mi interessa sottolineare l’altro esempio freudiano, e cioè gli automi, i quali fanno nascere il dubbio, terribilmente inquietante, che un essere in apparenza animato sia vivo davvero, e viceversa che un oggetto privo di vita possa animarsi.
L’automa è certo diverso dalla marionetta, ma è anche analogo ad essa e, sebbene le due immagini non vadano confuse, l’impressione inquietante che producono si assomiglia. Nel corso del Novecento, dopo il saggio di Freud, l’automa ha goduto, nella letteratura, in teatro e poi nel cinema, di un’ampia fortuna, che molto probabilmente dipende dalla capacità, che l’automa possiede per le sue stesse caratteristiche, di interpretare con pertinenza alcune ossessioni tipiche dell'uomo moderno. Queste sono l'alienazione, lo spossessamento e la schizofrenia: i territori che, in termini freudiani, appartengono propriamente alla psicosi, cioè alla piena patologia psichica. Il disagio inquietante, il più innocuo perturbante che, all’inizio del Novecento, Freud connetteva all’automa, ha dunque virato, nel corso del secolo e sempre restando di pertinenza dell’automa, e si è spostato nella direzione della piena angoscia psicotica – è diventato infine paura, nel pubblico dei fruitori (o degli spettatori).
Alla marionetta, figura interpretata come più casalinga e addomesticabile, è rimasto in proprietà il territorio del comico e quello dell'infanzia: un’appartenenza che, come si è visto, ne ha determinato il declassamento. Ma a distanza di un secolo circa dall’intuizione freudiana, mi pare che si possa dire che, proprio per non aver interpretato, a causa della sua marginalità, la "tragedia dell'uomo moderno", la marionetta resti tutt’oggi l'immagine che assume con maggiore precisione il concetto del perturbante definito da Freud: e cioè una condizione psichica sfuggente e ambigua ma certamente "normale" e che mi sembra adeguato legare allo statuto teatrale e al misto di identificazione, distanziamento, proiezione, illusione, molto spesso inesplicabilmente inquietanti, che determinano il fascino dello spettacolo.

Ma non voglio trascurare il legame con il femminile, che si manifesta già, sia pure di sfuggita, all’interno del saggio di Freud, con il breve riferimento a Olimpia, la ragazza misteriosa della quale, nel racconto Il mago sabbiolino di Hoffmann, centrale per le considerazioni freudiane sul perturbante, si innamora Nathaniel, il protagonista del racconto, per poi scoprire, con delusione angosciata, che la ragazza non è altro che un automa, costruito da un ingegnere demoniaco.
D’altra parte, è perfino banale sottolineare il legame tra le donne e il mondo infantile, che è, come ho detto, l’interlocutore principale, in età moderna, degli spettacoli di marionette. Per ancorare a un’immagine precisa e ancora una volta teatrale l’ovvietà di questo legame, ricorro al personaggio di Nora, in Casa di bambola di Ibsen (1879): all’inizio del dramma Nora vi appare simile a una bambina fra i suoi figli bambini, allegra e spensierata come si suppone che i bambini debbano essere – e coccolata, anche, da un marito adulto e responsabile, allo stesso modo in cui si coccola una bambina fatua e seducentissima:

HELMER E io non vorrei averti diversa da quello che sei, mia cara piccola lodola canterina. Però… mi viene in mente una cosa. Oggi, hai un’aria così… così… come dire?… così sospetta...
NORA Io?
HELMER Sì. Guardami un po’ negli occhi.
NORA Ebbene?
HELMER La ghiottona è andata forse in città a sgranocchiare?
NORA No. Perché ti viene questa idea?
HELMER La ghiottona non ha fatto proprio una scappata nella pasticceria?
NORA No, Torvald, ti assicuro...
HELMER Non ha leccato qualche dolcino?
NORA No, davvero.
HELMER Non ha neanche assaggiato qualche amaretto?
NORA No, Torvald, ti assicuro, davvero…
HELMER Via, via, faccio per ridere…
20

Dunque, le donne si occupano dei bambini perché sono le più simili a loro, sono anzi bambine come loro. In tal modo offrono all’immaginario degli uomini un doppio motivo di seduzione: è verso donne adulte, sì, ma anche verso delle bambine che così si indirizza l’erotismo maschile. Per mezzo di questo passaggio, agendo sull’ambiguità di una immagine che è funzionale alle strategie dei ruoli sociali non meno che eccitante per gli echi sessuali che suscita, si legittima l’attrazione pederasta dei maschi adulti: avvertita come intensamente erotica anche nel mondo contemporaneo e nella civiltà occidentale, attraverso un tale travestimento o gioco in controluce essa si può affermare senza cadere sotto il tabù rigoroso che la vieta e la reprime.
Un doppio ordine di motivi concorre a avvicinare oggettivamente la dimensione delle donne e quella delle marionette. Un primo motivo è di tipo culturale: Casa di bambola mostra il modo in cui si definiscono il ruolo e gli attributi sociali e culturali della donna nella famiglia e nella società, in un Ottocento che segna il pieno trionfo della borghesia e dei suoi valori; in anni coevi la marionetta viene gradualmente sottratta alla fruizione che le era per gran tempo appartenuta, quella popolare, e diventa dominio del pubblico infantile. L’altro motivo di vicinanza appartiene a un ordine emotivo: il gioco in controluce che si instaura fra la donna adulta e la bambina, centrale nel conservare un desiderio proibito che assume però aspetto irreprensibile, obbedisce allo stesso meccanismo di ogni travestimento – lo stesso che sottostà al gioco in controluce delle marionette, rendendolo inquietante nella misura in cui, dietro i movimenti inanimati dei fantocci mossi dai fili, si delineano, straniati ma ben riconoscibili, i movimenti consapevoli dei corpi umani.
Anche in questo caso, dunque, le marionette riportano a galla un rimosso, che fa perno stavolta sui legami tra il femminile e l’infantile. Se, per quanto riguarda la psiche maschile, tale legame fa affiorare i fantasmi della pederastia, terrorizzanti tanto più quanto maggiormente appaiono suggestivi in un universo maschile che l’emancipazione delle donne priva delle sue certezze e mette profondamente in crisi; nei riguardi della psiche femminile la rimozione può essere individuata in una sorta di vergogna culturale, può cioè affondare nel rinnegamento di un passato recente, così disprezzabile e degradante da identificare la donna con la non piena umanità dei bambini. Ma può riguardare anche un meccanismo infantile, che si estende a tutti i cuccioli animali: sentendosi minacciati dalla aggressività adulta e consapevoli di essere impari a contrastare vittoriosamente tale minaccia sullo stesso terreno dell’aggressività, essi usano la loro inermità e la loro bellezza per convertire in tenerezza e affetto un impulso che nasce come distruttivo. Però sulla natura della tenerezza maschile, nella quale l’aggressività si riconverte, come pure sulle modalità della seduzione infantile pesa una fortissima componente erotica; ed è questa che si attiva con probabile consapevolezza, quando la donna adulta, a sua volta minacciata dal prepotere maschile, compie una regressione verso l’infanzia ricorrendo al grande teatro della seduzione travestita. E’ un gioco che agisce sulle grandi proibizioni culturali, scardinate proprio da chi se ne fa, come ogni donna nella famiglia, la trasmettitrice.
In questo modo è come se le marionette riproponessero un’oscura e terrorizzante immagine di sovversione, ambigua e sleale, da parte delle donne: testimonianza di una guerra di sessi che mina i principi istitutivi della civiltà e delle sue norme – e proprio perciò immagine evocata con fastidio e paura da un’emancipazione femminile che fatica a prendere atto di tutti i tormenti e le bassezze, morali e psichiche, dalle quali vuole liberarsi.




NOTE

1 Brunella Eruli adotta una espressione efficace: "Recuperata dal teatro ufficiale, essa [la marionetta] viene inserita nel ghetto del teatro per bambini", B. ERULI, Introduzione, in AA. VV., La marionetta: un'ipotesi di trasgressione, in "Quaderni di teatro", a. II, n. 8, maggio 1980, p. 4.
2 Ibidem.
3 Ricavo molte delle notizie storiche sulle marionette dal vecchio libro, ma gradevole e colto, di YORICK (Pier Coccoluto Ferrigni), La storia dei burattini, Firenze, Bemporad, 1902.
4 YORICK, La storia dei burattini, cit., p. 84. Yorick polemizza contro altre ipotesi avanzate per spiegare il nome della marionetta: ad esempio, contro l’opinione che "marionetta" sia un gallicismo derivato da Marion, un burattinaio che durante il regno di Carlo IX avrebbe introdotto in Francia la novità dei burattini mossi da fili.
5 Vittoria OTTOLENGHI, Morte e tormenti del burattino, in "Quaderni di teatro" cit., p. 96.
6 Heinrich von KLEIST, Sul teatro di marionette, Parma, Guanda, 1986.
7 Heinrich von KLEIST, Sul teatro di marionette, cit., pp. 33-34.
8 Bruno SCHULZ, Le botteghe color cannella, Torino, Einaudi, 1970.
9 Bruno SCHULZ, Trattato dei manichini, ovvero secondo libro della Genesi, in Le botteghe, cit., p. 30.
10 Per alcune notizie e commenti sull’opera teatrale di Kantor, rimando a: Jerzy POMIANOWSKI, Tadeusz Kantor, in Antonio Attisani, Enciclopedia del teatro del 900, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 235-240; Denis BABLET (a cura di), T. Kantor. Le Théâtre Cricot 2, La classe morte, Wielopole-Wielopole, Paris, Éd. Du Centre National de la Recherche Scientifique, 1983; Lido GEDDA (a cura di), Kantor. Protagonismo registico e spazio memoriale, Firenze, Liberoscambio, 1984.
11 "insieme sculture antropomorfe, elementi scenografici e bizzarre macchine sonore", Renato PALAZZI, Il genio clandestino, in Maurizio BUSCARINO, Kantor, Milano, Leonardo Arte, 2001, p. 12.
12 Tadeusz KANTOR, Il teatro della morte, a cura di Denis Bablet, Milano, Ubulibri, 1979, p. 216.
13 Carlo COLLODI, Le avventure di Pinocchio, Torino, Einaudi, 1968, pp. 31-32.
14 Fernando TEMPESTI (Chi era Collodi, in Carlo COLLODI, Pinocchio, Milano, Feltrinelli, 1972, p. 36) riferisce la testimonianza di Ermenegildo Pistelli che, avendo rimproverato lo scrittore per la brutta conclusione del romanzo, ne ebbe una risposta sconcertante: "Sarà, ma io non ho memoria d’aver finito a questo modo". E’ possibile che Pistelli abbia inventato l’episodio; ma è anche possibile che, sebbene le carte autografe di Pinocchio dimostrino che il finale è stato indubbiamente scritto da Collodi, l’autore stesso avvertisse un qualche disagio nell’adottare una normalizzazione tanto repressiva.
15 Carlo COLLODI, Le avventure di Pinocchio, cit., p. 170.
16 Ibidem.
17 Sui meccanismi psichici del comico rimando a Sigmund FREUD, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Torino, Boringhieri, 1975; Francesco ORLANDO, Due letture freudiane: Fedra e Il misantropo, Torino, Einaudi, 1990; Concetta D’ANGELI-Guido PADUANO, Il comico, Bologna, Il Mulino, 1999.
18 Tadeusz KANTOR, Il teatro della morte, cit., p. 233.
19 Sigmund FREUD, Il perturbante (1919), in L’Io e l’Es e altri scritti. 1917-1923, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, pp. 81-114.
20 Henrik IBSEN, Casa di bambola, Milano, Mondadori, 1986. Traduzione di Ervino Pocar.

 
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