ateatro 63.16
Ritmo e misura per un teatro possibile
I soldi, l'anima e il corpo nel paese di Michelangelo
di Teatro delle Albe/Ravenna Teatro, Fanny & Alexander e Cristina Ventrucci
 

A proposito di teatro, parliamo di soldi. Se i gravissimi dubbi sui bilanci e sui criteri di spesa dell’Ente Teatrale Italiano espressi dal presidente della Tedarco Paolo Aniello dovessero essere confermati nelle prossime settimane, le conseguenze da trarre dovrebbero essere serie e adeguate. Anche in termini di Diritto. Aspettiamo che il Ministro riferisca in Parlamento in risposta all’interrogazione di Chiaromonte ed altri per sperabilmente fugare almeno le notizie apparse sull’«Espresso» di spartizioni su sponsorizzazioni fatte senza controllo e al di fuori delle finalità dell’Ente. Il dubbio ci allarma, e ci appare pericoloso, non per un pregiudizio giustizialista, ma per la totale disfatta della credibilità che l’ETI si era faticosamente guadagnato in anni recenti, proprio nel momento in cui esce da un’anomala situazione di commissariamento. Se qualcuno è capace di dirci cosa abbia fatto di progettuale l’ETI per il teatro italiano negli ultimi due anni, per piacere ci informi, gliene saremmo grati.
Più in generale, l’incertezza normativa e regolamentare che ha caratterizzato gli ultimi due anni di vita teatrale ha rallentato e ostacolato uno sviluppo già di per sé difficile, togliendo opportunità al pubblico e non valorizzando l’alto interesse europeo per il nostro teatro. In particolare, il sud Italia è stato abbandonato e restituito con prepotente miopia a quella mancanza di tessuto connettivo che con determinazione ha cominciato a costruire da qualche tempo. Non basta l’edificazione di un nuovo teatro pubblico a Napoli per pensare di creare sviluppo, la politica delle cattedrali nel deserto la conosciamo fin troppo bene, al sud con più cognizione di causa, e le annotazioni di Aniello sul ruolo dell’ETI a questo proposito sono illuminanti.

Parliamo allora di soldi. Partiamo dalla considerazione che l’Italia investe molti meno soldi nello spettacolo dei suoi partner europei, con distacchi clamorosi. Qualche mese fa «Il Sole-24 Ore» ci informava che siamo generalmente surclassati anche negli investimenti per il patrimonio artistico, pur vantando tra il 60 e il 70% del patrimonio artistico mondiale. Considerando che siamo una delle prime dieci potenze industriali del mondo, membro di diritto del prestigioso G8, possiamo ragionevolmente concludere che la nostra politica in termini di sviluppo culturale è una politica da taccagni, quando non da pezzenti. Oppure c’è in questo una progettualità positiva che non si coglie a prima vista?
Proviamo a chiederci allora: che bisogno c’è, in fondo, di spendere soldi pubblici per il teatro e per lo spettacolo dal vivo in generale? La domanda è legittima. Esistono economie al mondo che non prevedono finanziamenti pubblici consistenti, un Paese ricco e vitale come gli Stati Uniti d’America è un esempio. Negli Stati Uniti chi fa teatro si finanzia con soldi privati, e alcuni sostengono la propria attività teatrale alternandosi sui set di Hollywood, o facendo un qualsiasi altro lavoro; nei festival che frequentiamo in Europa capita talvolta di conoscere compagnie americane prestigiose che trovano naturale fare le prove di notte, perché di giorno guadagnano i soldi per fare teatro. Non è poi un caso se negli Stati Uniti il teatro è molto meno diffuso che in Europa, ma è un fatto di scelte. Noi, Albe e Fanny & Alexander, saremmo messi a dura prova da una simile situazione dal momento che non facciamo gli attori a ore bensì ci impegniamo anima e corpo nella costruzione di una cultura teatrale, ed è proprio per questo che, di fronte a una simile alternativa, da bravi romagnoli testardi e intraprendenti ci metteremmo subito a cercare risorse nel libero mercato, e siamo convinti che avremmo ben più di una chance di riuscita. Se volete siamo anche pronti. Ma il guaio è che per passare da un mercato truccato ed ingessato come quello attuale ad un mercato libero, "americano", e ad un’economia generosa e aperta, dovremmo rivoltare l’Italia come un calzino, e dovremmo sancire quella piena autonomia degli artisti dal potere politico che i nostri amministratori e burocrati aborrono, come dimostra la stratificazione costante di norme tese ad istituire un rapporto quotidiano, inevitabile, con la politica e le sue emanazioni burocratiche. Il nostro è un Paese in marca da bollo, e dunque o finanzia il teatro, o si rassegna a perderlo.

Parentesi patriottica: guardiamo alla nostra immagine nel mondo. Siamo il Paese della buona tavola, della mafia, delle scarpe e del bel mare (cementificazioni permettendo). Ma, insomma, siamo per tutti soprattutto il Paese dell’arte, della cultura, della bellezza! Ma ci stiamo rendendo conto che l’arte contemporanea sta passando sempre più dal Nord Europa senza toccarci? Ci stiamo rendendo conto che Spagna e Grecia stanno correndo con una vitalità culturale ed urbanistica che noi neanche ci sogniamo? Vogliamo fare le belle statuine, nei nostri bei musei, mentre diventiamo uno sfondo per cartoline, o vogliamo mettere a frutto le nostre capacità e continuare ad essere una cultura che ha qualcosa da dire nel presente? Fine della parentesi patriottica.

Vogliamo a questo punto raccontare un esperimento di servizio pubblico e di imprenditoria privata che ci riguarda da vicino, per sostanziare la nostra convinzione che "un altro mondo è possibile".
C’era una volta, a Ravenna, un funzionario comunale, direttore dei teatri, che dovendo andare in pensione, non volle far piombare nella normalità burocratica le stagioni che aveva gestito con tanta passione e competenza in lunghi entusiasmanti anni. Guardandosi intorno, considerò una giovane compagnia ravennate, con poco più di dieci anni di attività, valutò la loro professionalità e la loro furiosa devozione all’arte, e si inventò la privatizzazione del servizio pubblico teatrale, passando le consegne a quei giovani, coi quali il Comune stipulò una convenzione per la gestione dei due teatri cittadini. Lui, intanto, sarebbe diventato sovrintendente di un prestigioso festival musicale da inventare ex novo, un festival che avrebbe poi collaborato spesso con le realtà teatrali di Ravenna et ultra. Nei successivi dieci anni la privatizzazione, fatta secondo criteri di interesse pubblico inteso in senso creativo, e non come appalto d’impresa al minor costo possibile, ha prodotto una vera e propria esplosione teatrale, intere generazioni di ragazzi coinvolti a partire dalle scuole, un pubblico in costante crescita, ha prodotto anche posti di lavoro e un’economia forte, con ottimi risultati sia per la stagione di teatro contemporaneo, che per quella di prosa. Il Comune, che non ha mai dato direzioni, fidandosi dell’autonomia della direzione artistica, ma ha sempre sostenuto e incoraggiato l’esperimento, si ritrova oggi con minori costi di gestione, un pubblico più numeroso e una città più viva, più felice, con maggiori opportunità, e gongola. Ci tiene al teatro, ne va fiero, lo considera un valore della città.
Dopo dieci anni un’altra giovane compagnia ravennate, nata non a caso in un humus particolarmente fertile, è cresciuta, è stata sostenuta e poi finanziata con una convenzione pluriennale dal Comune, si è sentita abbastanza appoggiata da lanciarsi nell’acquisizione di un proprio spazio, prima affittandolo, poi acquistandolo, tutto coi propri soldi. Il Comune ha sponsorizzato questa volta non in denaro, ma in coordinamento, convincimento, fiducia. Ne è nato un nuovo spazio teatrale, che recupera alla città una zona artigianale da riqualificare, mescola teatro e feste danzanti, sfiora il migliaio di associati in un anno e collabora con la stagione di teatro contemporaneo. Il Comune rigongola, e va ancora più fiero.
Non è una favoletta, e non abbiamo un contratto di adulazione con l’Assessore alla Cultura di Ravenna, è un semplice caso di politica intelligente, fatta con uno scopo, possibile, esportabile, migliorabile, banalmente naturale in un mondo sensato.
È a questo proposito, è al cospetto di quella che oggi viene definita come una città-teatro, che vogliamo qui ricordare le parole di Paolo Grassi e Giorgio Strehler alla fondazione nel 1948 del Piccolo Teatro di Milano, il primo "comunale" d'Italia, capostipite dei teatri a vocazione pubblica:

"Questo teatro nostro e vostro è promosso dall'iniziativa di taluni uomini d'arte e studio, che ha trovato consenso e aiuto nell'autorità fattiva di chi è responsabile della vita cittadina. Noi non crediamo che il teatro sia una decorosa sopravvivenza di abitudini mondane o un astratto omaggio alla cultura. Il teatro resta il luogo dove la comunità adunandosi liberamente a contemplare e a rivivere, si rivela a se stessa; il luogo dove fa la prova di una parola da accettare o da respingere: di una parola che, accolta, diventerà domani un centro del suo operare, suggerirà ritmo e misura ai suoi giorni."


Non vi sembrano incendiarie oggi queste parole se confrontate con la marmellata mediatica in cui siamo immersi o con lo spettacolo che sta dando il nostro bel governo inadempiente?

Tutti gli anni presentiamo i nostri consuntivi alla Regione Emilia Romagna, che finanzia i nostri progetti. Sono consuntivi minuziosi, vogliono avere parecchi dati, da studiare, per capire, per valutare, ma non esistono minimi recitativi, giornate lavorative ecc., i criteri sono artistici. Se il progetto si sostiene finanziariamente, se si rispettano le attività preventivate e giudicate interessanti, che bisogno c’è di stabilire dei minimi? La Regione Emilia Romagna ha una legge triennale sul teatro, stipula convenzioni con le Province e con i Teatri Stabili e conosce dettagliatamente le realtà presenti.
E poi: perché in Italia non abbiamo il coraggio di togliere il FUS dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e non lo diamo direttamente in mano al Ministero del Lavoro? In fondo è per quello che siamo finanziati, per pagare dei dipendenti, dare lavoro, e replicare degli spettacoli. Non esistono in Italia finanziamenti per l’attività teatrale, mettiamocelo in testa, ci sono solo degli incentivi all’occupazione, siamo nelle quote latte, il teatro non c’entra, siamo finanziati come vengono finanziati gli agricoltori, per non spopolare le campagne, e per non mettere sulla strada dei disoccupati. Siamo considerati un caso sociale, non una priorità culturale.
Questo è lo Stato della nostra miseria, e da qui bisogna partire per fondare un rapporto vitale tra interesse pubblico e sviluppo culturale, nel Paese di Michelangelo.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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