ateatro 65.22
Ora o si taccia per sempre
Stato di emergenza
di Massimo Paganelli
 

Avrei voluto scrivere d’altro. Provare a portare un contributo, da tecnico di provincia, al dibattito in corso attorno alle questioni, da sempre aperte, che riguardano il teatro ed il suo farsi e la sua non necessaria "necessità", che da oltre due anni appaiono ancora più gravi di quanto non lo fossero nel recente passato e che in molti sostengono essere giunte al punto del non ritorno; scrivere attorno al tentativo, ormai sempre più palesemente concreto, di cancellare quel non poco, anche se non organizzato e sistematico, che pure questo strano paese, l’Italia, ha saputo esprimere nel campo della produzione artistica e, nella fattispecie teatrale; scrivere attorno a questo scenario di vita quotidiana, da cui se ne potrebbe desumere che il teatro è allo spasimo, perché "quel" teatro non serve più, se mai a qualcosa è servito. Di tutto ciò avrei voluto scrivere. Provando, come tanti altri amici e colleghi hanno fatto, ad indicare terapie, percorsi normativi e regolamentari che potessero, in qualche modo, arginare intanto l’esondazione della cattiva politica, e lavorare quindi, più o meno carsicamente, alla costruzione di scenari futuri. Meno inquietanti, confusi e disastrosi. Non solo per il teatro. Ma per la tenuta di un paese che per definirsi "civile", non può rinunciare alla poesia, al "sentimento". Di conseguenza al teatro che è il luogo, per antonomasia, della poesia e del sentimento.
Sullo stato dell’arte attorno ai regolamenti, alle normative, a ciò che è ed a ciò che avrebbe potuto essere, ne hanno scritto in molti, più di me a conoscenza dei fatti, e tutti, fino alle ultime considerazioni di Franco D’Ippolito, declinano pensieri, tra loro anche diversi, che testimoniano la necessità di radicali innovazioni. Ciò mi esime da ulteriori considerazioni sul tema, anche perché non posso non esser d’accordo con quanto è gia stato detto. Anche se con gli inevitabili distinguo, che mi appaiono però meno urgenti rispetto ad altre considerazioni che ritengo più utili.
E’, infatti, il fil rouge che ha segnato fino ad ora il dibattito («Hystrio», ateatro) che mi interessa approfondire. Resistere, citando Adriano Gallina, en attendant Cofferati. E nell’attesa, appunto, per quanto e se sarà possibile, RESISTERE. Resistere provando nel concreto a far sì che la prassi comportamentale di "quel" teatro sappia, tra simili anche se non uguali, riconoscersi, e provi, pur rimanendo dentro gli schemi ed i regolamenti di riferimento, poiché con questi, qui e ora, si gioca, ad inventarsi percorsi che più attengono alla poesia e meno alle "chiacchiere ed al distintivo". En attendant, appunto, un qualche Cofferati che sappia poi cogliere e praticare le istanze del "sentimento". Quel sentimento che Silvio Castiglioni riassumeva nelle "ragioni del radicchio".
E’ esprimere una opinione, sul radicchio e sulle sue ragioni, la mia urgenza.
A partire dalla prima delle considerazioni che non può prescindere dall’occasione perduta: cinque anni di governo del centro sinistra e non è accaduto niente; al contrario, la situazione, già precaria, si è ulteriormente degradata. Il radicchio, per rimanere nella metafora di Silvio, si è bruciato, e la terra di coltura rischia di non essere più fertile. Errori, sottovalutazioni e incapacità. Da una parte il teatro non ha saputo, né voluto avanzare in maniera unitaria ed a prescindere dalle poetiche, una proposta sistematica, che desse luogo alle istanze di rinnovamento e che ponesse la "questione" teatro (non si possono avere tentennamenti e false pudicizie) tra le priorità in un paese, il nostro, che lo ha lasciato vivere in stato perennemente emergenziale; d’altra parte, il Centro Sinistra al governo non ha incentivato il dibattito, dimostrando di non conoscere i reali bisogni cui occorreva dare risposte, ha agito come ritenesse marginale il ruolo dell’arte, ha assunto atteggiamenti spesso supponenti, quando non arroganti. Non ha saputo ascoltare ed ha privilegiato l’interesse verso l’evento piuttosto che verso una politica di reale radicamento del teatro nel tessuto, non tanto urbano, quanto in quello dell’immaginazione e della creatività. Personalmente ho da sempre creduto in un teatro che sapesse emozionare ed inventare e non intrattenere, né tanto meno educare, che ponesse domande anziché proporre rassicuranti conferme, che favorisse la naturale evoluzione di processi in atto, cercando di privilegiare la vitalità di un percorso artistico piuttosto che perseguire la riuscita di un singolo evento: ho da sempre creduto a flussi di idee più che a tesi precostituite. Così come ritengo fondamentale ed imprescindibile ragionare, anche quando si parla di teatro, in termini di progetto anziché di programmazione, stagione o festival che sia. Progettare per il teatro significa, questa la mia opinione, progettare anche per la città e per il suo governo. Credo che il teatro, il fare teatro, l’organizzarlo non debba essere pensato come la somma dei lavori compiuti, né per il numero degli spettacoli che possono essere proposti, né, paradossalmente, per misurarne la qualità contando il numero dei biglietti strappati a fine serata. Non penso ci si debba accontentare di contare il numero dei presenti, che è comunque un gran bel viatico e rimane tra i principali traguardi che "quel" teatro deve tagliare, l’interesse di un progetto attiene alla partecipazione consapevole di coloro i quali scelgono di contribuire alla costruzione del percorso progettuale medesimo che ha necessariamente bisogno di un tempo che non si lega all’immediatezza di un evento. Quindi la somma è data da un’idea centrale che attiene alla civiltà che una comunità deve saper esprimere, per mescolarsi, senza confondersi, ad altre occasioni che possano contribuire a tenere alto il tono del dibattito attorno alla cultura, al suo farsi e alla necessità di essere "altri" e più vicini all’obiettivo di restituirci cittadini della polis, senza vergogna. Di un progetto possiamo conoscerne i luoghi di partenza ma abbiamo altrettanta certezza sull’impossibilità di calpestare "tratturi" conoscibili a priori, ed ancor meno abbiamo consapevolezza dei possibili approdi. Dovremmo abituarci alla pratica di una dimensione spesso negletta, quella che riguarda "il di là dal conosciuto": questo ci appare essere il primo tra i compiti cui è chiamato qualsiasi ambito che attiene la ricerca, la sperimentazione, l’organizzazione della cultura. Il cittadino di una qualsiasi città, luogo, che voglia, con la dignità che compete all’uomo, definirsi "cittadino", non può rinunciare alle emozioni, non può prescindere dalla meraviglia e dallo stupore, dall’esser consapevolmente disponibile al confronto, sapendo affrontare il dubbio, la contraddizione, con la semplicità del ragionamento unito al cuore, al sentimento, alla coscienza ed ai suoi flussi. Certo, mi si dirà che tutto questo non può esser lasciato al teatro; altri obietteranno che il teatro, tutte le componenti necessarie al suo farsi, rappresentano una, quasi irrilevante, parte dei bisogni dell’uomo contemporaneo. E’ vero. E’ senza dubbio così. Il teatro non può esser considerato un bene primario. Ma è pur vero che il teatro è: emozione, meraviglia stupore, dubbio, contraddizione, ragionamento e cuore, sentimento e coscienza. E’, in definitiva, la declinazione di un alfabeto di cui il mondo, questo che oggi viviamo, ha un bisogno estremo. Un alfabeto facile da apprendere se solo si riesca a rompere il velo della vergogna e la pigrizia intellettuale. Come tutti i processi di apprendimento, ha l’urgenza del "sostegno", mancando il quale, nemmeno ha inizio, e quando lo ha può, se non convenientemente sostenuto, deperire e morire. Per quel che mi riguarda ritengo che il sostegno non può che essere pubblico. Danaro pubblico e molto di più di quanto sino ad oggi non sia stato investito. Parlo di INVESTIMENTI e non di spese. E già sarebbe una piccola rivoluzione se la politica cominciasse a praticare nel concreto questa parola. Ritenere la cultura, nella fattispecie il teatro, non una spesa, al contrario, una necessità. Più necessaria degli immondi spettacoli cui siamo costretti, nostro malgrado, ad assistere ed a subire quotidianamente, peggiori degli spettacoli di giro, dove comunque vige la stessa regola, lo scambio. Io do una cosa a te, tu dai una cosa a me dove troppo spesso le merci che vengono scambiate sono così tanto marce da ammorbare l’aria. Ecco perché il teatro, quando riesce ad esser vero, è necessario oltre il teatro. Qui poco ci "azzeccano" il FUS, il decentramento, la devolution, l’ETI, l’AGIS, gli Stabili e l’innovazione, i circuiti, più o meno organizzati, il mercato. Si tratta di ripensarlo, il teatro. Ripensarlo mentre proviamo a concimare tanti piccoli campi, tra i quali quello che deve appartenere al teatro, nuovi che si ritagliano comunque sui vecchi, dei quali è fondamentale mantenere l’humus, la saggia pazienza della terra, la sua storia, le sue tradizioni. Forse allora il "radicchio" potrà crescere rigoglioso! Occorre scrivere nuove regole, occorre saper distinguere la qualità dell’arte, dall’artigianato e dal dilettantismo. Sarà più facile se sapremo tornare ad esser "partigiani", scegliere una parte e per quella batterci. Forse avremo ancora bisogno di un qualche Cofferati, ma avremo l’imbarazzo della scelta.

«……forse proprio per costoro (i seri) sarà in genere scandaloso veder preso tanto sul serio un problema estetico, nel caso cioè che essi non siano in grado di vedere nell’arte più di un piacevole accessorio, di un tintinnio di sonagli di fronte alla "serietà dell’esistenza", di cui certo si potrebbe fare a meno: come se nessuno sapesse che cosa voglia dire questa contrapposizione a una tale "serietà dell’esistenza". A questi seri serva da ammaestramento il considerare che io sono convinto dell’arte come del compito più alto e della vera attività metafisica di questa vita, nel senso dell’uomo a cui io qui, come al sublime combattente che mi precede su questa strada, voglio che questo scritto sia dedicato.»
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, Prefazione a Richard Wagner.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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