ateatro 65.7
Concetta D'Angeli intervista Fausto Paravidino
Pisa, 18 novembre 2003
di Concetta D'Angeli
 

Concetta D’Angeli
C’è un aspetto dei tuoi lavori che mi ha colpito tantissimo quando ho cominciato a leggerli: i tuoi sono testi lunghi, che hanno la struttura del testo teatrale tradizionale, o comunque la ereditano. Non sono monologhi, come oggi tendono ad essere molti testi di teatro. Di conseguenza c’è, da parte tua, il bisogno di reimpostare in altri termini, di rifare i conti con problemi che nella scrittura drammatica hanno una tradizione antichissima, risalgono a Aristotele: ad esempio il problema degli spazi e dei tempi. E mi pare anche che tu questi problemi te li ponga fortemente, ed è per risolverli, mi pare, che ci costruisci intorno delle strutture. Alcune delle soluzioni che prospetti le ho trovate molto interessanti. Parlo adesso solo di drammaturgia, cioè di scrittura, a prescindere dalla messinscena. Alcune soluzioni che adotti a proposito del punto di vista o del tempo mi sembrano significative: quando, per esempio, operi degli improvvisi ribaltamenti del punto di vista dominante fino a quel momento, oppure introduci differenti punti di vista, anche contrastanti, che alla fine determinano lo svelamento di intrecci, diciamo così, “difficili” - una sorta di moderno colpo di scena. Oppure quando, come succede in 2 Fratelli, per risolvere il problema del tempo teatrale, ne frazioni la durata, segnalando l’ora e il minuto in cui si collocano i singoli quadri di cui è costituita la “tragedia da camera” (come recita il sottotitolo dell’opera). Per incominciare vorrei che tu mi parlassi di come si pone per te il problema dello spazio e del tempo, che è stato sempre assai spinoso per tutti i drammaturghi.

Fausto Paravidino
In teatro sono arrivate ultimamente delle influenze extra-teatrali molto importanti: il cinema, in particolare, ha rotto tanti tabù. Per esempio, adesso si può partire da un tableau in qualsiasi momento: questo significa, in concreto, che non hai bisogno di aprire e chiudere una porta ogni volta che vuoi partire da zero. Io uso moltissimo questa nuova libertà, proprio perché quello che fa perdere tempo drammatico sono i: “Oh, buongiorno, buonasera; oh, ma chi si vede, ma guarda qua…”, e poi per entrare nel vivo del dramma, tutte le volte, serve una rincorsa, a meno che non si riesca ad avere un ingresso-colpo di scena. A proposito degli ingressi e le uscite dei personaggi però, è importante che ogni personaggio entri al momento opportuno, perché ogni ingresso ha una funzione drammatica fondamentale; sennò far entrare e far uscire i personaggi è una specie di balletto noioso. Nel caso di 2 Fratelli è dichiarato perfino il minuto nel quale avviene l’azione determinata, così che si viene a creare un tableau molto incorniciato. Comunque, anche quando non è incorniciato, io uso moltissimo il tableau, che consente anche di non sconfinare in territori troppo virtuali. Il tableau ha un altro vantaggio, e cioè permette di tagliare via facilmente le parti noiose dell’azione. E’ insomma molto comodo poter decidere: “Voglio che questa scena duri solo un minuto, perché di tutta l’azione possibile solo quel minuto mi interessa: prima c’è un buio, dopo c’è un buio, in mezzo c’è il minuto utile”. Questo per quanto riguarda il tempo, che comunque in genere io gestisco con poco imbarazzo, non avendo regole temporali da seguire: in genere colloco le scene in progressione, però ormai Pinter ha già messo tutte le scene in de-progressione, quindi si può seguire il suo esempio e ribaltare la successione temporale lineare. Lui ha aperto una strada e anch’io la percorro, per esempio usando molti flashes-back. Questa mia predilezione, in teatro, diventa un problema per i registi che mettono in scena i miei testi; ma è un discorso diverso. Un’altra cosa che mi piace e che mi diverto a fare, ma che non è una novità perché si è sempre fatta, sebbene si leghi male con il tableau, è passare dalla situazione con quarta parete a quella senza, portare insomma il tempo a un non-tempo, che poi è un tempo della finzione. Se io oggi entro in scena e dico: “Accidenti quanta neve! Quest’anno gennaio si è fatto sentire!” e invece lo spettacolo avviene in primavera o in estate, risulta palese che io sono da un’altra parte, anche temporalmente; e cioè sono nella dimensione della finzione. Ma se invece mi rivolgo al pubblico direttamente e dico: “Signore e signori! qui sta succedendo un problema!”, cambio le regole e i riferimenti alla temporalità, faccio un salto immediato in un tempo altro da quello teatrale. La compresenza di tempo teatrale e tempo reale si verifica spesso in 2 Fratelli, dove è vero che sono indicati perfino i minuti in cui avvengono le singole azioni, ma per tre volte i personaggi si rivolgono al pubblico direttamente, creando una frattura evidente del tempo e dello spazio.

Concetta D’Angeli
Restiamo ancora un pochino sul tempo. Tu continui a sottolineare che le tue presunte “novità” sono già consuetudini teatrali, ed è vero; però mi colpisce molto l’eleganza e la naturalezza con le quali adotti le soluzioni introdotte in teatro in tempi abbastanza recenti, sebbene non da te. Appunto il tuo modo di adottare le soluzioni altrui non mi pare tanto ovvio. Quando descrivi il tuo lavoro sembra insomma che tu voglia inserirti nel solco di una tradizione moderna: nomini spesso Pinter, oppure, con mia grande soddisfazione, ieri, durante l’incontro con gli studenti, ti ho sentito parlare ammirato di Samuel Beckett, ponendolo in una condizione di assoluto isolamento rispetto agli altri drammaturghi del Teatro dell’Assurdo, compreso Ionesco… Mi fa piacere ritrovare una tale coincidenza di vedute con te…

Fausto Paravidino
Beckett non utilizza il teatro per filosofeggiare, come gli altri...

Concetta D’Angeli
... Oppure per fare dei giochi: che sono anche divertenti, per carità, però sono proprio giochi.

Fausto Paravidino
Lui è un teatrante vero, lui non fa giochetti.

Concetta D’Angeli
Tu dunque ti riferisci ai tuoi “padri di drammaturgia” (Pinter, Beckett), tutti sperimentatori della scrittura drammaturgica, come autori dei quali hai seguito la lezione; però io sono colpita da un fatto, che può darsi sia da mettere in relazione con il dato che sei italiano. Le sperimentazioni drammaturgiche, di cui stiamo parlando, nel teatro italiano recente ci sono state molto poco; perciò il fatto che tu ti senta addosso, con tanta naturalezza, l’eredità di una rottura degli schemi tradizionali, come pure l’acquisizione di prospettive nuove dei fondamenti del linguaggio teatrale, il fatto che tu dica “È ovvio, si è già fatto…”, mi stupisce un po’. Io infatti tenderei a sottolineare come una novità, almeno per l’Italia, l’acquisizione recente di una scrittura drammaturgica molto innovativa, che è d’ambito soprattutto inglese, e per l’Italia è nuova.

Fausto Paravidino
Lo prendo per un complimento e ti ringrazio. Se poi devo dire da dove viene questa che hai chiamato naturalezza, credo che venga proprio dal gioco attoriale, dal momento che abitando con tanti attori, stando a scuola insieme, lavorando insieme, cenando insieme, si gioca moltissimo a fare il teatro; quando sei con una compagnia di persone che hanno un po’ di commedia sulle spalle, la maggior parte delle quali in comune, alla fine, chiacchierando a tavola, usi Shakespeare, usi tutto quello che ti ricordi, tutto quello che ti ha colpito. Non è però solo una questione di contenuti: porti dentro anche la forma, per far ridere, per fare le battutine… Magari a cena fai una conversazione, poi la interrompi con un a-parte rivolto verso la porta, così, perché è una battuta tra attori, perché il linguaggio comune di riferimento è quello teatrale, e influenza, in qualche modo, tutta la tua percezione della realtà. E poi, quando decidi di metterti a scrivere, quel linguaggio te lo ritrovi come tuo patrimonio, e puoi giocare con il teatro - dentro e fuori la realtà, dentro e fuori il teatro...

Concetta D’Angeli
In effetti alcuni tuoi testi, soprattutto quelli d’esordio, prendono spunto dal fatto che ti trovavi a condividere la vita quotidiana con un gruppo di amici che facevano/fanno gli attori: mi interessa molto la relazione che si istituisce fra la tua scrittura e la condivisione della quotidianità spicciola.

Fausto Paravidino
La prima cosa importante che questa condivisione mi ha dato è farmi uscire dalla scrittura autoreferenziale, testimoniata per esempio da Trinciapollo. Nella scrittura autoreferenziale uno scrive di se stesso e di una serie di funzioni sue; invece se ti rapporti con persone diverse da te, con le quali magari litighi di continuo ma che sono anche amici, ti accorgi che nella loro differenza da te portano qualcosa con cui devi fare i conti e venirne a capo. Questo per me è stato un grande arricchimento. In Gabriele i personaggi sono legati alle persone in carne e ossa: è stato con questa commedia che ho fatto il passaggio di utilizzare più punti di vista reali, che entrano in un conflitto reale nel quale io, come scrittore, non sono in grado (per fortuna!) di prendere posizione. Con questo non voglio sconfessare Trinciapollo, che resta per me un testo importante per molti motivi; ma la vera scoperta del teatro è legata a Gabriele. E’ un testo che ho scritto insieme a Giampiero Rappa: né io né lui eravamo consapevoli del fatto che non riuscivamo a prendere posizione per un personaggio o per l’altro, che cioè non riuscivamo a imprimere un senso, una morale alla commedia. E forse, se ce ne fossimo accorti, l’avremmo visto come un limite. Poi dopo, a conti fatti, questo “limite” mi si è rivelato come una ricchezza irrinunciabile.

Concetta D’Angeli
Visto che hai nominato Trinciapollo, ho una curiosità: è l’unico dei tuoi testi teatrali che non compare nella raccolta di Ubulibri. Lo hai escluso per un motivo preciso?

Fausto Paravidino
No, poveretto! Piuttosto direi che non è stato escluso lui, ma sono stati inclusi gli altri. Quando si è pensato al volume, con Franco Quadri, prevedevamo di pubblicare un paio di cose, a cominciare da 2 Fratelli; ma c’erano altri testi che a me piacevano, e allora “perché no questo? perché no quest’altro?...” Alla fine ci siamo accorti che sarebbe venuto un libro troppo grosso e troppo costoso. E ci siamo dovuti fermare; a quel punto ci siamo accorti che Trinciapollo era rimasto fuori. In fondo, potevamo metter dentro anche lui... Vabbe’, vuol dire che mi è rimasto un po’ di materiale già pronto per un altro libro...

Concetta D’Angeli
Hai già altre cose pronte per la pubblicazione?

Fausto Paravidino
Veramente no: a parte quello che ho pubblicato nel volume di Ubulibri e a parte Trinciapollo, c’è solo il radiodramma, Messaggi, e poi c’è una sceneggiatura cinematografica... ma sai, le sceneggiature si firmano ma non si pubblicano... e poi di solito le sceneggiature che si pubblicano sono false perché il regista mon ha certo girato il film sulla base di quella sceneggiatura lì...

Concetta D’Angeli
Torniamo alla tua esperienza di scrivere quello che ti è successo di vivere con i tuoi amici-teatranti: credo che sia una delle esperienze che fanno o scandalizzare o entusiasmare, a seconda dei casi, tutti quelli che stanno da sempre a discutere sul rapporto tra la finzione e la realtà. Sembra che tu istituisca una continuità tra queste due dimensioni, dalle quali entri ed esci con assoluta naturalezza, passando dall’una all’altra come se fossero due dimensioni di vita che si intrecciano strettamente. E poi è molto interessante anche il continuo riferimento all’esperienza della tua vita, che io però non chiamerei propriamente autobiografico.…

Fausto Paravidino
No, non lo trovo autobiografico, lo trovo biografico, nel senso che tratto di…

Concetta D’Angeli
… esperienza di vita...

Fausto Paravidino
Sì, ecco. D’altronde io non sono una persona con una grandissima fantasia: quello che scrivo o lo scrivo perché è capitato a me, o perché qualcuno me lo ha raccontato, o perché l’ho letto da qualche parte, o perché l’ho sentito dire sull’autobus… Così, a un certo punto, mi ritrovo circondato da battute, da situazioni, da storie ecc, che posso comporre e rimontare.

Concetta D’Angeli
Vorrei fermarmi ancora un po’ anche sulla saldatura che istituisci fra la tua scrittura per il teatro, la tradizione della scrittura teatrale che ti precede e la consuetudine verso l’ambiente teatrale, che è anche l’ambiente della tua quotidianità; e intendo, per consuetudine verso l’ambiente teatrale, non soltanto il fatto che tu frequenti il teatro quotidianamente, ma soprattutto il fatto che a quell’ambiente appartengono le persone con cui da molto tempo tu vivi, con cui condividi la casa, il mangiare e tutti i gesti e le contingenze minime della quotidianità. In questo modo il teatro non è un fatto d’eccezione e nemmeno la condizione un po’ strana e poco condivisa di qualche attore o operatore teatrale; ma è un fatto normale, è, diciamo, il tuo mondo…

Fausto Paravidino
Credo che quello che manca alla cultura teatrale italiana sia la normalità del teatro, che, per dire, in Germania o in Gran Bretagna è abbastanza assodata. In Italia invece il teatro è sempre un evento: o è un evento spettacolare, o è un evento culturale, ma è pur sempre un evento. Questo gli mette addosso un carico di ansia, che non gli permette mai di essere considerato un gioco. Stando tra attori, invece, ogni sera è commedia...

Concetta D’Angeli
Passiamo all’altro aspetto difficile da gestire in una drammaturgia “complessa”, quale è quella che tu pratichi, con testi lunghi e strutturati in atti o almeno in scene, con diversi personaggi, con passaggio del tempo, eccetera. Vorrei parlare un po’ dello spazio nel testo di teatro.

Fausto Paravidino
Quando ho cominciato a scrivere, lo spazio mi dava un po’ di problemi. Mi dava problemi anche il numero dei personaggi, che volevo contenere per ragioni economiche, in vista dell’allestimento, ma mi mancava un salto di fantasia verso le forme semplici. La soluzione che ho trovato all’inizio è stata di inserire i personaggi e le storie in un ambiente unico, come ho fatto con Gabriele e 2 Fratelli. Di solito l’ambiente unico era una cucina; sicchè, quando ho capito che stavo diventando “quello delle cucine”, ho cercato di uscire da questo ruolo. Ma il rischio è rimasto, anche ne La malattia della famiglia M., per esempio, a proposito della quale mi ero detto: “Facciamo che non sia una cucina, ma una specie di ingresso”. Più tardi sono riuscito a contaminare l’ambiente unico degli inizi con un paio di altri ambienti al massimo, mentre adesso sto acquisendo un po' più di libertà nei confronti degli spazi. Però lo spazio resta un problema per me. Il fatto è che o la vicenda è semplicemente ambientata in teatro, ma allora non si fa finta di essere da un’altra parte e è abbastanza semplice; oppure m’accorgo che un ambiente unico mi basta. D’altra parte, mi pare che nella mia scrittura sono già molto libero riguardo all’azione, che non sempre è ordinata, visto che mi piace raccontare tante cose. Per quanto riguarda il tempo, mi diverto ad andare su e giù e non rispetto nessun ordine… Se resiste almeno il vincolo spaziale, non mi dispiace: è come una piccola regola esterna. Lo so che non ce ne sarebbe bisogno e che in qualche modo è inutile; però diciamo che mi impongo questa regola per limitare una libertà che rischia di essere eccessiva, e voglio questa autolimitazione perché mi pare che così la creatività si sviluppa meglio.

Concetta D’Angeli
Ti dai questa piccola regola esterna anche per favorire la comprensione del pubblico, perché ti pare che, se gli presenti un contenitore unico, non gli confondi troppo le idee?

Fausto Paravidino
Un po’ sì, dato che anche a me, come spettatore, fa piacere quando i posti sono ben riconoscibili. Ogni spazio lo devi raccontare bene, dato che lo spazio parla molto. In questo senso lo spazio assomiglia ai personaggi: anche i personaggi li devi raccontare bene: e sai, tre personaggi si riesce a raccontarli bene, sette è già più difficile, per raccontarne quindici servono parecchi atti, altrimenti i personaggi finisce che te li perdi per strada. Per lo spazio vale la stessa cosa: lo spazio è, per certi versi, un personaggio ed è un personaggio abbastanza forte, per cui ha bisogno di tempo, va presentato bene; per di più, visto che io credo più nella situazione che nella volontà dei personaggi e la situazione è molto legata allo spazio, spesso le mie commedie sono la storia di uno spazio e la soggettiva è quella del luogo: in particolare questo vale per 2 Fratelli e Gabriele.

Concetta D’Angeli
Che ruolo ha nella tua scrittura la psicologia, la rappresentazione delle identità psichiche dei personaggi? Te lo domando perché i tuoi personaggi hanno indubbiamente un linguaggio che è sempre un segnale forte della loro dimensione psichica, però sono molto incardinati alle situazioni, e quindi riesce difficile pensarli come entità psichiche astratte. Quello che mi piacerebbe sapere è come ti appaiono questi personaggi quando incominci a farne parlare uno, a dare la vita a uno di loro.

Fausto Paravidino
Nascono privi di psicologia: prima parlano, poi pensano. Generalmente io prima scrivo, poi, alla fine, vedo che cosa quel personaggio voleva dire.

Concetta D’Angeli
Ma questi personaggi hanno una loro coerenza per te, nel momento in cui parlano? Voglio dire: ti senti obbligato a farli comportare in relazione al modo in cui parlano? Compiono già delle scelte, fin dal loro primo delinearsi, scelte che poi ti si impongono quando articoli meglio le loro esistenze?

Fausto Paravidino
Principalmente mi si impongono; poi succede che di solito litighiamo, ma alla fine gliela do vinta quasi sempre. Nella maggior parte dei casi inizio a scrivere e non so mai come va a finire la commedia: scrivo una prima scena, poi faccio una scaletta ipotetica delle successive; a quel punto scrivo la seconda, la terza, ma a quel punto m’accorgo che la scrittura va prendendo una direzione autonoma, che non ha niente a che vedere con la scaletta. Allora mi chiedo: "Correggo la scaletta o correggo le scene?" In genere correggo la scaletta, perché di solito sono i personaggi che hanno ragione. Così, rifaccio una scaletta sulle prime tre scene, su come la storia può andare a finire o come può andare avanti rispetto alle prime tre scene. Poi succede che arrivo alla quinta, e la scaletta va rifatta completamente. Molto spesso io non so come andrà a finire la storia fino a quando arrivo alla penultima scena. 2 Fratelli, per esempio, doveva essere un colosso, una commedia in tre atti con nove personaggi.

Concetta D’Angeli
Nella scaletta originaria?

Fausto Paravidino
Sì, nell’idea originaria: nella prima scena pensavo di presentare due personaggi, poi entra Boris, che è il terzo… Pensavo che a ogni scena entrasse un nuovo personaggio, e invece mi sono fermato a tre perché ho visto che il dramma c’era già, che i tre personaggi avevano da macerarsi per i fatti loro; e a quel punto ho detto “Maceratevi!” e non ho fatto entrare nessun altro.

Concetta D’Angeli
Spesso si ha l’impressione, a leggere i testi teatrali, di una conflittualità tra l’autore e i suoi personaggi, quella che, per esempio, Pirandello ha raccontato, fra l’altro, nella Prefazione ai Sei personaggi in cerca d’autore: i personaggi e l’autore si odiano, si cercano, si perseguitano ecc. Adesso anche tu racconti la storia di un conflitto, almeno in parte perché tu dai sempre ragione ai tuoi personaggi e Pirandello no.

Fausto Paravidino
Sì, do sempre ragione ai personaggi, così come non prendo posizione, in linea di massima, sulle storie e sulle ragioni parziali dei personaggi. Il conflitto per me riguarda i personaggi, che sono in tensione fra loro. Penso che senza conflitto non c’è teatro, ma io non entro mai a quel livello nel gioco conflittuale che coinvolge i personaggi: mi limito a prestare pezzetti di me un po’ all’uno e un po’ all’altro personaggio. E questo vale anche per i testi che ho scritto dopo Gabriele, quando ho smesso di pensare, mentre scrivevo, “io e gli altri” e mi sono messo a lavorare su personaggi immaginari. Anche a loro presto parti di me: mi faccio a pezzetti e mi infilo un po’ in tutti loro.

Concetta D’Angeli
E se il conflitto che si crea fra loro va verso direzioni che non ti sembrano interessanti o verso soluzioni che non ti piacciono, in che misura intervieni a orientarlo, al di là delle strategie della scrittura?

Fausto Paravidino
Be’, se succede una cosa di questo genere, è un grosso rischio, che mi impedisce di andare avanti a scrivere la commedia e mi fa proprio fermare. Adesso, per esempio, è un anno e mezzo che sono fermo.

Concetta D’Angeli
Per questo motivo?

Fausto Paravidino
Mi succede che scrivo tantissime prime scene che mi sembrano molto interessanti; però poi mi accorgo che non reggono le scene successive, e allora la scrittura si ferma. In questo senso dicevo che la scrittura teatrale per me è una scommessa. Ma non conosco particolari trucchi per riuscire a pilotare i personaggi. Se loro vanno in una direzione che non mi interessa, devo abbandonare la commedia.

Concetta D’Angeli
Quale è il punto di partenza della tua scrittura?

Fausto Paravidino
Di solito parto da un’immagine...

Concetta D’Angeli
... Che può essere anche un ambiente: nella Malattia della famiglia M, per esempio, è certamente un ambiente...

Fausto Paravidino
Sì, era un ambiente; poi c’era l’immagine di due donne, che però erano avvolte in una specie di nebbia; poi c’era un ragazzo che mi era molto simpatico, e poi c’era un vecchio. Insomma, la prima immagine ne provoca altre. Se sono fortunato, le immagini provocate dalla prima sono per me emotivamente all’altezza della prima; se invece sono sfortunato, sono immagini banali, sempliciotte, che non riescono a trasformarsi in commedia. E’ quello che mi sta succedendo adesso: ho immagini di partenza che mi divertono molto ma non riescono a mettere in moto un meccanismo che mi piaccia.

Concetta D’Angeli
Dunque si tratta di immagini e di personaggi. Il caso di Genova 01 è a sé però...

Fausto Paravidino
Be’, sì, quello è un caso particolare. E poi lì non ci sono i personaggi, o meglio i personaggi sono persone reali.

Concetta D’Angeli
All’altezza di Genova 01 tu ti sei interamente distaccato dall’autobiografismo- ammesso che un teatro si possa mai definire autobiografico…

Fausto Paravidino
Può essere vagamente autobiografico: per esempio, può esserci un personaggio autobiografico, ma uno per volta, non più di uno, altrimenti si creerebbe un dibattito finto.

Concetta D’Angeli
Certo: sarebbe un dibattito tutto interno all’autore, per il quale si potrebbe parlare anche di psicosi, di schizofrenia. Però la tua capacità di rappresentare te stesso o quelli che in qualche modo intersecano la tua esperienza, i ragazzi della tua generazione, o quelli che fanno il tuo mestiere, gli attori cioè, e insomma tutti quelli che frequentano il tuo ambiente - ecco, questo è un fatto indiscutibile, e i critici lo registrano con gioia, soprattutto in un autore teatrale emergente ….

Fausto Paravidino
Loro sono tutti felici di inquadrare! I critici fanno i quadri...

Concetta D’Angeli
“Questo autore ci racconta in teatro la sua generazione!” Mi pare che a te questa etichetta dia fastidio.

Fausto Paravidino
Sì, un po’ sì.

Concetta D’Angeli
Ti infastidisce perché la ritieni falsa o in nome di una specificità che ti senti addosso e che non vuoi che sia confusa con le etichette?

Fausto Paravidino
La ritengo per lo meno un limite da sfidare. E’ normale che, quando ho iniziato a scrivere, mi fosse più facile scrivere di maschi ventenni che vivevano negli anni ’90; ma lo fai una volta, lo fai due, e poi ti dici “Non puoi mica essere sempre questo”. Adesso lascio da parte Trinciapollo, che infatti anche nel volume di Ubulibri è lasciato da parte.

Concetta D’Angeli
Trinciapollo è il primo testo che hai scritto. Stai dicendo che lo rinneghi?

Fausto Paravidino
No, non è che lo rinnego, ma gli mancava qualcosa che dopo c’è stato. Trinciapollo era una bella storia, la storia più bella che ho raccontato, però era "a protagonista": al centro c’è un protagonista con un carattere ben preciso, una psicologia molto interessante, e poi una caterva di personaggi che gli girano intorno, ma che sono un po’ sue funzioni, fatti per metterlo in situazioni dove lui possa venire fuori. E’ questo che non mi piace tanto. Gabriele e 2 Fratelli, che sono la seconda e la terza opera che ho scritto, hanno qualcosa di molto simile, sebbene la prima sia palesemente una commedia e la seconda sia palesemente una tragedia; ma li accomuna un denominatore forte, cioè la stessa collocazione in una cucina e lo stesso ambiente umano. Anzi, si potrebbe dire che i personaggi di 2 Fratelli sono un cocktail dei personaggi di Gabriele: di cinque, come erano in Gabriele, ne ho fatti due. Nel testo successivo, La malattia della famiglia M., mi sono dato due compiti in particolare: per prima cosa, uscire dalla cucina (ma in Gabriele e in 2 Fratelli avevo proprio voluto fare una sfida a me stesso), e per seconda cosa, riuscire a descrivere un personaggio anziano, ossia un personaggio di tutt’altra generazione che ovviamente si sarebbe portato dietro, a sua volta, un mondo. Si tratta di Luigi, il vecchio padre rimbambito. Ah, mi ero dato anche un altro compito: introdurre almeno due personaggi femminili e fare in modo che parlassero tra di loro, che cioè riuscissero (cosa difficilissima per me) a parlare tra di loro senza un testimone maschile.

Concetta D’Angeli
Questo mi incuriosisce: a te riesce difficile dare vita a un personaggio femminile perché trovi che ci sia una grande differenza tra il tuo modo di rapportarti a personaggi maschili e a personaggi femminili?

Fausto Paravidino
Più che differenza, c’è imbarazzo; i personaggi maschili possono parlare e ragionare tutti come ragionerei io, anche se con qualche piccolo scarto. Per una donna invece provo imbarazzo, non oso...

Concetta D’Angeli
Ti pare proprio un’alterità?

Fausto Paravidino
Sì, in un certo senso, mi sento troppo esterno. Sai, molte attrici vorrebbero che scrivessi personaggi femminili, c’è molta richiesta in questo senso, e dunque mi immagino che ci sarebbe anche molta indulgenza se io facessi degli errori; però prima non me la sentivo di mettermi a questa prova. Ho finalmente rotto questo muro con la madre di Natura morta in un fosso, ma mi sono dovuto fare violenza per permettermi di scrivere battute del tipo (quando la madre sa che la figlia è morta): "Sento qualcosa rompersi di botto dentro di me, come se improvvisamente mi stessero venendo le mestruazioni”. Su questa battuta la mia fidanzata, quando ha letto la commedia, si è messa a ridere e mi ha detto: “Ma cosa ne sai, tu, di che stai parlando?” Però funziona; mentre facevamo le prove, l’attrice mi ha detto che veramente ha avuto quella sensazione lì, quando è morto suo fratello, o sua madre. Insomma, ho rotto un muretto...

Concetta D’Angeli
Credo che non sia per niente facile dare voce a una madre nel momento in cui apprende la morte della figlia. Sottolineo come un segno di sensibilità gli scrupoli e le difficoltà che tu hai avuto nel farlo, perché in genere invece è consueta la presunzione maschile di esprimere la alterità femminile, senza porsi nessun problema, anzi senza sospettare nemmeno che ci possa essere un problema. Almeno la consapevolezza che un problema ci sia mi sembra altamente significativa, se non altro, di sensibilità e attenzione.

Fausto Paravidino
Io questo problema l’ho anche sofferto in prima persona: ho beccato parecchie accuse di misoginia, per un lungo periodo.

Concetta D’Angeli
Per il fatto che non davi spazio ai personaggi femminili?

Fausto Paravidino
No, per come erano fatti i personaggi femminili di Gabriele e soprattutto di 2 Fratelli.

Concetta D’Angeli
In effetti la ragazza di 2 Fratelli è un po’ cattiva...

Fausto Paravidino
Be’, lei, Erica, li divide, i due fratelli, e li fa diventare matti; e loro non trovano altra soluzione che accopparla. Però la colpa di questa soluzione è la loro, non è la mia! E poi Erica è un personaggio reale: dei tre personaggi di 2 Fratelli solo lei è reale, referenziale, perché, per scrivere una donna, dovevo riferirmi a un personaggio vero. Lei, la Enrica reale, la conosco bene e, grazie a Dio, non l’ho accoppata, anzi l’ho scritta perché le volevo bene. Altro che misoginia!

Concetta D’Angeli
Poco fa tu hai detto che tendi a mettere tra parentesi la dimensione psichica; ma poi i tuoi testi, per esempio 2 Fratelli, configurano delle storie psicologicamente molto definite. In questo caso si tratta di una vicenda di grande sofferenza psichica: due fratelli chiusi dentro un mondo solo loro, che si rispecchiano l’un l’altro...

Fausto Paravidino
In 2 Fratelli, se vogliamo essere schematici, sono presentati tre malati, che hanno malattie diverse, ma sono comunque tre malati.

Concetta D’Angeli
Ieri, durante l’incontro con gli studenti, hai accennato a un discorso che adesso mi piacerebbe riprendere: la vicinanza o la possibilità di integrazione tra il linguaggio teatrale e quello cinematografico. Il discorso mi pare tanto più interessante in quanto tu fai anche cinema e televisione e quindi usi tutti questi linguaggi. Hai voglia di parlarmene un po’ meglio?

Fausto Paravidino
Rispetto al teatro, il cinema ha bisogno di meno parole, perché con le immagini si può raccontare molto. In teatro invece credo che servano parecchie parole in più: al cinema il montaggio integra molto il dialogo, che invece in teatro si manifesta nella sua forma pura.

Concetta D’Angeli
Però anche in teatro puoi fare uno spettacolo senza parole, un teatro d’azioni...

Fausto Paravidino
Puoi fare, sì, un teatro d’azioni, però io non riesco a sottrarmi all’idea di un teatro mimetico, né d’altra parte all’idea di un cinema mimetico. Per me il gioco è rappresentare com’è reale la realtà e non inventarne un’altra; inventarne un’altra non mi interessa, mi piace fare le foto con la miglior messa a fuoco possibile, lavoro su questo. In un certo senso, sono pseudo-documentarista: la priorità è documentaristica, poi il gioco consiste nel montaggio, sia a teatro sia al cinema, consiste nella ricerca mimetica. Il teatro si esprime soprattutto tramite il dialogo. Pensa un po’: quanto può reggere, in teatro, un personaggio solo, che non parla, perché quando siamo soli in genere non parliamo, quanto a lungo può tenere la scena? A un certo punto nessun pubblico resisterebbe più, perché a teatro ci deve essere un dibattito tra le persone per permettere di comunicare qualcosa anche al pubblico; al cinema invece un personaggio può stare in solitudine e in silenzio per un sacco di tempo. Un’altra differenza è che in teatro non basta usare il dialogo, ma gli si deve dare una sfumatura: per esempio, se un personaggio è stato leggermente ferito, in teatro il modo più sintetico per raccontarlo è una battuta che non sia esplicitamente: “Sono ferito” ma, per esempio: “Vado a comprare il latte”, che nello stesso tempo denunci il ferimento. Al cinema il modo più sintetico per raccontare questo fatto è un primo piano.

Concetta D’Angeli
Quindi la differenza consiste in una preferenza per l’immagine, che il cinema consente e il teatro molto meno.

Fausto Paravidino
Diciamo che l’immagine è più espressiva. Però per me si tratta di semplici sfumature: io non trovo enormemente diversi i due linguaggi.

Concetta D’Angeli
Scusa la domanda stupida: perché allora scrivi per il teatro e non per il cinema? Non è economicamente più vantaggioso scrivere per il cinema?

Fausto Paravidino
No, nel complesso scrivere per il cinema è più svantaggioso: se tu scrivi una commedia, il mese dopo cerchi quattro amici e la porti in scena; se scrivi un film, quando ti riesce di realizzarlo?

Concetta D’Angeli
Tu ti pensi sempre anche come colui che, prima o poi, realizzerà le cose che scrive?

Fausto Paravidino
Io nasco come attore e, quando ho cominciato a scrivere commedie, sono stato spinto dalla speranza di poterle mettere in scena insieme ai miei amici: anche perché la ricerca sulla scrittura si accompagna a una ricerca sul linguaggio teatrale in senso più lato. Questo aspetto del mio lavoro non lo voglio perdere: a volte fanno degli allestimenti delle mie commedie che non mi piacciono per niente. D’altra parte, io ho un interesse per un certo tipo di forme che voglio sperimentare su tutti i fronti e in tutti i tipi di possibilità. Comunque ho appena scritto un film.

Concetta D’Angeli
E lo realizzerai, anche?

Fausto Paravidino
Sì, lo faccio, l’anno prossimo.

Concetta D’Angeli
Ed è?

Fausto Paravidino
È un colossal. Il tipo di macchinario che ti offre il cinema è molto utile per partire dalla location e raccontare molto bene un posto, che è, come ti ho detto, il consueto punto di partenza per me. Questo film è appunto il tentativo di raccontare un luogo, che poi è la stessa pseudo-campagna di La malattia della famiglia M. Volevo arricchire l’ambiente che ho descritto nella commedia, mostrarlo insomma, oltre che farci parlare dentro dei personaggi. Così ho un po’ espanso quel concetto, mettendo a fuoco diverse locations significative di quel posto, e quaranta personaggi parlanti.

Concetta D’Angeli
Tantissime storie!

Fausto Paravidino
Il cinema è un contenitore che accetta più elementi rispetto al teatro, non ha lo stesso bisogno di unità d’azione. L’unità d’azione al cinema può essere anche la fotografia, o lo stile di ripresa…

Concetta D’Angeli
E non ha bisogno di tutta la sintesi di cui ha bisogno il teatro.

Fausto Paravidino
Verissimo, non ha bisogno di quella sintesi.

Concetta D’Angeli
Vorrei restare un po’ su questo punto della scrittura. Tu scrivi sempre da solo, a parte l’esperienza di Gabriele?

Fausto Paravidino
Gabriele non è l’unica eccezione. A questo proposito ti vorrei raccontare di una scrittura singolare e molto bella che mi è capitato di fare. Tempo fa ho guidato uno stage a Castrovillari: c’erano i lavoratori del paese, gente molto semplice, parecchi di loro erano proprio analfabeti e per questo erano sempre stati esclusi dai laboratori. Ma loro hanno detto “Quest’anno ci proviamo anche noi!” E’ stata per me un’esperienza molto importante.

Concetta D’Angeli
Avete scritto qualcosa insieme?

Fausto Paravidino
Sì: per motivare lo stanziamento finanziario del Comune bisognava, alla fine, anche fare un piccolo saggio di messinscena, e siamo riusciti persino a fare questo saggetto.

Concetta D’Angeli
E loro hanno anche recitato?

Fausto Paravidino
Sì, hanno scritto e recitato. Ecco, questa è stata una collaborazione di scrittura molto emozionante.

Concetta D’Angeli
Ci sono due punti della nostra conversazione che finora abbiamo toccato molto rapidamente e che mi piacerebbe approfondire: uno riguarda il linguaggio delle tue opere, che appare così naturale, così dinamico e fluido… E’ una caratteristica abbastanza singolare per l’italiano scritto, che è una lingua rigida e sostanzialmente artificiosa. E poi mi piacerebbe parlare del monologo, o meglio della tendenza di molta parte del teatro contemporaneo, almeno qui in Italia, a diventare monologo. Il monologo è una forma legittima e anzi molto interessante di scrittura teatrale, però mi sembra che adesso stia strozzando un po’ il teatro.

Fausto Paravidino
Sono d’accordo: lo sta ammazzando. Tu quali pensi che siano le ragioni?

Concetta D’Angeli
Quella economica mi sembra la più evidente ma credo che non sia la principale e nemmeno la più rilevante. E tu che ragioni trovi?

Fausto Paravidino
L’individualismo. Voglio dire: non solo il narcisismo degli attori, quello c’è sempre stato. Io parlo della cultura dominante, dell’organizzazione della società: è il nostro concetto di realizzazione che ormai è sempre più legato all’io. Oggi non esiste una realizzazione legata alla collettività: non esiste realizzazione nel fare del bene, per esempio, meno che mai nel trionfo politico di una qualche idea, e in genere nella comunità. E’ diventato imperativo essere fuori dal coro. Ma perché, dico io? Se il coro canta bene, stai dentro il coro! Oppure, se lo sai fare, insegna al coro a cantare meglio. Guarda che succede in teatro: se un attore comincia ad avere dei riconoscimenti personali, immediatamente si precipita a liberarsi della compagnia e mettersi da solo. Potrei fare molti esempi, ma non voglio parlar male di nessuno: il meccanismo però è sempre quello. Oggi a uno scrittore di teatro tutti chiedono monologhi...

Concetta D’Angeli
Alcuni monologhi però (pensa a Ascanio Celestini) sono delle storie...

Fausto Paravidino
E’ vero, ma non è un caso che Ascanio non venga dal teatro: lui non è un attore che un giorno ha deciso di mettersi in proprio. Lui è uno studioso che si è messo a raccontare quello che studiava, e così è arrivato al teatro. Per lui sì che sarebbe innaturale fare compagnia.

Concetta D’Angeli
Insomma vuoi dire che la linea epico-narrativa dei monologhi è un’altra cosa rispetto ai monologhi che si vanno affermando nel teatro contemporaneo, e dei quali tu parlavi... In effetti anch’io penso che esistano diversi tipi di monologo, che andrebbero distinti perché sono davvero molto diversi fra loro.

Fausto Paravidino
Be’, certo, bisognerebbe almeno distinguere fra monologo e racconto.

Concetta D’Angeli
Anche perché il monologo come racconto, il monologo narrativo diciamo così, ingloba una pluralità di voci, almeno in molti casi. Mentre il monologo contro il quale tu polemizzi ha l’aria di essere una voce spuria, che nasce sì all’interno del teatro ma poi ne contraffà i caratteri. E’ così?

Fausto Paravidino
Certo. Pensa a quello che è successo, nel tempo, quando si è trattato di adattare un romanzo al teatro, per esempio. Mezzo secolo fa si sarebbe fatta una commedia o un dramma in vari atti, con i personaggi principali e “alcune guardie e alabardieri”; una trentina di anni fa si sarebbero cercate scene del romanzo particolarmente forti da rappresentare ad opera di una grande compagnia. Adesso vengono recitati i brani celebri, affidati a un solo attore, e si tende all’accorpamento dei diversi punti di vista... Succede addirittura che, se viene messa in scena una tragedia greca, il coro viene interpretato da un solo attore, una singola voce! Genova 01, che è un testo senza personaggi, vorrei che fosse recitato da migliaia di persone; e invece tutte le compagnie che lo mettono in scena pretenderebbero di ridurlo a un monologo. Ma allora diventa un comizio!...

Concetta D’Angeli
Invece è vero che in Genova 01 c’è, oltre al ritmo, un ricco movimento di piani: c’è una prospettiva, una pluralità di voci e di punti di vista, e una profondità che nel monologo si perdono. E è vero che, se ne affidi la recitazione a una singola voce, il dinamismo si perde. D’altra parte, non è facile conservarlo. Però non è facile nemmeno conservare la profondità che c’era nel coro della tragedia greca: come rappresentare oggi il coro, se si vuole mettere in scena una tragedia classica, è un rompicapo per moltissimi registi.

Fausto Paravidino
Chi erano ‘sti matti che parlavano tutti insieme? E’ questo, no?, il problema; e è difficile da capire e da risolvere. Ma sono convinto che varrebbe la pena di studiarlo anziché ridurlo alla semplificazione della singola voce recitante. Già Shakespeare aveva fatto l’operazione di ridurre il coro a un singolo interlocutore, ma non è un caso che in Shakespeare venga fatto esprimere come singolo personaggio. Certo, il coro greco è anche, in certi casi, interlocutore, ma parla a nome di, rappresenta una società, non ha sentimenti personali, a parte alcune concezioni religiose e etiche, che sono ampiamente condivise dalla comunità e poi sono diventate anche fede individuale. In ogni caso, il coro greco non è individualista: parla a nome di un popolo e esprime le idee della collettività di cui fa parte e in cui ogni singolo si identifica, mai un punto di vista personale.

Concetta D’Angeli
Insomma, a te pare che oggi il teatro rispecchi con evidenza una condizione di isolamento individualistico che è molto forte nella realtà.

Fausto Paravidino
Sì, rispecchia la trasformazione della cultura in una zona di individualismo spietato. Negli anni ’60-’70, se tu non eri parte di un collettivo, non eri nessuno: dovevi aderire a un collettivo per avere senso come artista. C’erano solo il Living Theatre e gli imitatori; la personalità non esisteva, esisteva il gruppo, e l’espressione del gruppo costituiva anche la personalità individuale. Adesso tutti hanno bisogno di auto-affermarsi. Come ti ho già detto, a me chiedono spessissimo, adesso che sono famoso, gli attori di scrivere per loro dei monologhi, e gli operatori teatrali di andare a recitare monologhi. Ma io non ho nessun monologo da fare! Ti assicuro che mi offrono un sacco di soldi per andare a fare dei recitals, ma quello non è il mio lavoro. Potrei farli, certo, li farei bene o male, non lo so; ma non mi piace, mi annoia, non è un tipo di ricerca che mi interessi. A me piace fare compagnia.

Concetta D’Angeli
Forse nella tendenza individualista che tu individui nel monologo drammatico si manifesta non solo l’individualismo concorrenziale che caratterizza la società, ma anche una tendenza, se non proprio esibizionistica, almeno autobiografica dell’autore. Che ne dici?

Fausto Paravidino
Penso che gli scrittori di teatro ci vadano a nozze con i monologhi. Parlo però dei drammaturghi di basso profilo, perché quelli di alto profilo non se lo pongono neppure il problema se fare un monologo o un testo più articolato: fanno un monologo solo se gli viene. Ma dico che in linea di massima col monologo gli scrittori ci vanno a nozze perché, anche se un monologo è in genere brutto da vedere sul palcoscenico, è però anche la cosa più facile da scrivere. Se scrivi un monologo, in sostanza tu scrivi le tue opinioni, scrivi come pensi e come senti, non hai la seccatura di doverti inventare un personaggio che può darsi anche che si metta a darti contro, con lo scopo di tirarti fuori le idee, in maniera maieutica, oppure di contrastare le tue idee.

Concetta D’Angeli
Tu scrivi per il teatro, scrivi per il cinema… All’inizio accennavi anche a un testo scritto per la radio…

Fausto Paravidino
E’ l’ultima cosa che scritto: un radiodramma che si intitola Messaggi.

Concetta D’Angeli
Nella scrittura che differenza c’è quando si scrive un radiodramma?

Fausto Paravidino
Avrei potuto non fare nessuna differenza e fare quello che si fa di solito, cioè lavorare coi tagli: portare a un’ora una commedia preesistente, per poi registrarla (e mi sarei anche risparmiato del lavoro). Però a me interessava soprattutto giocare con la radio, che, per certi aspetti, ha un sacco di possibilità in meno rispetto al teatro, ma anche tante possibilità in più. Mi sono divertito molto a confondere i piani: per esempio, rispetto al teatro, puoi fare benissimo una confusione tra le soggettive e le oggettive. Gli a-parte in radio, infatti, non comportano problema: un personaggio può parlare con gli altri personaggi e poi mettersi a parlare con gli spettatori, senza stacchi. Anche per quanto riguarda gli ambienti, in radio puoi fare tutto quello che si fa al cinema, soltanto che lo fai in dieci minuti e senza nessun costo aggiunto. Io trasformavo spesso un ambiente in un altro ambiente, in soggettiva; potevo seguire i personaggi e farli spostare di qua e di là, come per magia; mi era possibile inserire tantissimi flashes-back e passare dalla situazione in diretta al flash-back soltanto cambiando l’ambiente, modificando il sottofondo musicale ecc. Anche per gli attori è comodissimo perché recitano il flash-back in diretta, ma rimanendo legati. Per esempio, in un dialogo un personaggio dice: “E poi quella volta è successo che…”, e continua a parlare mentre al microfono si aggiungono gli attori del flash-back. Così si riesce a tenere insieme tutti i piani che si vogliono far interferire: questo al cinema (in teatro poi non ne parliamo!) si realizza con molta fatica, dal momento che c’è continuità di narrazione anche quando ci si riferisce al passato. In radio invece basta che ti limiti a cambiare il sonoro, e il flash-back si fa riconoscere con tutta evidenza - anche se, dal punto di vista tecnico, lo hai fatto in diretta. In genere mi sono divertito molto a trovare le trappolette sonore, anche se è stato un po’ difficile il lavoro con i tecnici, che sono abituati a quella che, in qualche modo, hanno fatto propria come la loro tradizione: io continuavo a chiedere un sacco di cose che per loro erano errori: “No, questo è un errore, non si può fare!”. Ad esempio quella che io chiamavo “dissolvenza in nero” (l’espressione vale per le immagini, in radio equivale ad andare a silenzio) è vietatissima; ma proprio perché sono vietati, i silenzi in radio sono una cosa molto forte ed è perciò che li volevo utilizzare e mi servivano moltissimo. I tecnici però erano terrorizzati e cercavano di riempire i silenzi in tutti i modi: “Magari mettiamo una musichetta”… Ma allora non sarebbe stato più silenzio!

Concetta D’Angeli
Mi dici qualcosa di più delle trappolette tecniche di cui parlavi?

Fausto Paravidino
Mah, cose molto semplici: mettere il silenzio, trasformare un ambiente, passare dal racconto al raccontato in un tempo e in una collocazione che è dichiaratamente poco probabile…Durante la registrazione tutti gli attori avevano una zona dove giocavano, con la consapevolezza di essere attori contemporaneamente e personaggi chiamati a parlare in radio. Questo era molto divertente. Ad esempio c’era uno che insultava i suoi genitori e diceva: “Vorrei chiarire, una volta per tutte, che io con la mia famiglia non ho niente a che fare; l’ho rinnegata e non ne provo nessuna vergogna, anzi approfitto dell’occasione e in particolare approfitto della terza emittente radiofonica di Stato per sottolineare la mia estraneità alla mia famiglia”. Mi divertiva molto l’outing del personaggio.

Concetta D’Angeli
Prima di concludere, vorrei chiederti qualcosa a proposito di un punto che finora abbiamo trascurato ma sul quale, come ti dicevo prima, mi piacerebbe sapere il tuo parere: sto parlando del linguaggio dei tuoi testi. La critica dice che tu rappresenti i giovani, e quindi anche il loro linguaggio. Questa etichetta, come hai già dichiarato, ti dà fastidio; però è vero che, quando nei tuoi testi i personaggi parlano, in genere parlano il linguaggio dei giovani. Veramente, se devo dire come pare a me che stiano le cose, io non trovo che i tuoi personaggi teatrali usino il linguaggio mimetico, naturalistico e spontaneo che sembrerebbe ad un primo ascolto...

Fausto Paravidino
In effetti è un linguaggio più letterario di quello che sembra: non ci sono modi di dire desunti dalla televisione, che è quello che rende il linguaggio parlato dai giovani troppo deperibile, esposto a un invecchiamento troppo rapido e troppo soggetto alle mode... Se si scrive attenendosi troppo alle mode, dopo un anno le commedie che scrivi non le capisce più nessuno... Già togliendo la patina televisiva, il linguaggio si scarnifica, perde il suo barocchismo, che è una componente molto forte nel parlato quotidiano, ma è una specie di automatismo linguistico acritico, al quale il linguaggio dei giovani soggiace parecchio. Allora, se io voglio comunque scrivere in modo barocco, bisogna che vada a cercarmi il barocchismo in un’altra dimensione o me lo costruisca in un altro modo. Spesso poi io utilizzo battute di teatro o di cinema che hanno scritto altri e le intreccio con le mie: in Gabriele, per esempio, ci sono parecchie battute di Beckett, “a tradimento”. Oppure cerco di far diventare lessico nazionale un modo di esprimersi nato come lessico ristretto di una compagnia di tre o quattro amici. Se poi quei tre o quattro amici che mi hanno ispirato nella scrittura siamo noi stessi che recitiamo il testo, è più facile che il lessico privato diventi di dominio collettivo; se invece recitano il testo altre compagnie, alcune battute sono per loro indecifrabili, perché sono davvero legate alle nostre vite, sono private...

Concetta D’Angeli
Nel tuo linguaggio io notavo anche un ritmo musicale, che lo struttura: questo è particolarmente avvertibile in Genova 01.

Fausto Paravidino
Io credo molto nella musica, sono convinto di scrivere in versi sciolti. Genova 01 volevo scriverlo tutto in endecasillabi: non l’ho fatto perché non avevo abbastanza tempo, ma comunque ho seguito un ritmo, ho finito per assecondare la musica che sentivo in quel momento. Penso anch’io che, soprattutto in quel testo, il ritmo sia molto percepibile.

Concetta D’Angeli
Sì, è molto percepibile; e anche questo differenzia il tuo linguaggio dal parlato, che non obbedisce di solito alle ragioni musicali del linguaggio.

Fausto Paravidino
Certo! Io invece questa attenzione alla musicalità ce l’ho fortissima, anche come attore. Seguo in questo le indicazioni di Carlo Cecchi, uso anch’io il metronomo... La musicalità è molto evidente anche in Natura morta, e in genere là dove il dialogo interferisce meno, perché succede in genere (ma non necessariamente) che il dialogo tenda a spezzare la musicalità. L’attenzione alla musicalità è presente per me sia quando scrivo sia quando recito; ma devo precisare che io non scrivo mai recitando a voce alta quello che scrivo mentre lo scrivo. Scrivo in silenzio perché, se mi mettessi a dire a voce alta le battute, rischierei di assecondare i miei limiti di attore, di farmi un testo su misura per me. Se una battuta non mi viene, a me come attore voglio dire, rischio di eliminarla nella scrittura; ma la verità non è che quella battuta non è giusta drammaturgicamente ma che cozza contro un mio limite di attore.

Concetta D’Angeli
Un’ultima domanda, stavolta è proprio l’ultima: l’influenza del teatro inglese la consideri molto importante per la tua scrittura?

Fausto Paravidino
Sicuramente, è un’influenza davvero fondamentale. A dire la verità, non so se è direttamente il teatro inglese oppure il cinema americano; ma quest’ultimo, a sua volta, è influenzato dal teatro inglese, perciò non so esattamente quale sia il giro che ha fatto. Comunque l’influenza del mondo anglosassone è indiscutibile e, credo, molto riconoscibile.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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