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Libri & altro: Teoria la voce del teatro
Antonio Attisani, L’invenzione del teatro. Fenomenologie e attori della ricerca
di Fernando Marchiori
 

L’affascinante e ambizioso delinearsi, negli studi di Antonio Attisani, di un discorso sul teatro come ramo di una storia naturale della conoscenza trova nelle pagine di L’invenzione del teatro. Fenomenologie e attori della ricerca (Bulzoni, Roma, 2003), un’apertura d’orizzonte teoretico che è raro incontrare nell’ambito delle discipline dello spettacolo.
Ponendo la questione epistemologica della natura di una scienza, "o meglio una euristica dei teatri", Attisani fissa in prima battuta un cardine metodologico del suo contributo alla definizione di una teatrologia che a noi appare come una possibile ecologia del teatro: il sottrarsi all’ostentazione del "minaccioso dover essere del teatro", la "rinuncia a legiferare, limitandosi a evidenziare le costanti generative dei molteplici processi osservati e tenendo ben presente quale sia il ruolo della teoria e della critica rispetto alla effettiva operatività della scena".
Ne consegue non la presunta oggettività di uno sguardo asettico sui fenomeni in esame, ma al contrario un mettersi in gioco con la consapevolezza ermeneutica dei propri pre-giudizi, dichiarando con onestà intellettuale il "luogo da cui si parla", e nel contempo un disporsi ad attraversare e a lasciarsi attraversare da sollecitazioni, differenze, interferenze che spostano e rimodellano costantemente il campo d’indagine e di confronto, senza che perciò venga meno la tensione a una visione d’insieme che alimenti il nostro prendere la parola.
Discorso vuol dire appunto questo: lo scorrere vivo di una voce che tracima dagli argini normativi della lingua, secondo la lezione di Meschonnic che qui forziamo a intendere il linguaggio disciplinato della cultura teatrale, canonizzata da una storiografia scientifica così spesso avulsa e feticista. Discorso che risponde all’oralità dell’accadimento scenico, che ne interroga l’entropia.
Si direbbe che, accogliendo l’invito wittgensteiniano, Attisani abbia gettato la scala sulla quale è pazientemente salito, quella della critica e della storiografia, per provare a guardare su un piano diverso le questioni fondamentali del teatro, campionando elementi di una critica della critica e di una controstoria, o meglio antistoria – discontinua, plurale, che parta dal presente e ponga al suo centro l’organicità e l’autonomia creativa – della scena. Se della critica rifiuta la vocazione al giudizio, l’impronta ideologica, alla storiografia corrente rimprovera la separatezza, effetto e causa insieme dell’emarginazione secolare del teatro quale espressione e intelligenza del mondo: «il teatro è sottratto alla storia proprio attraverso la creazione di una storia del teatro intesa come materia a parte, definita da un proprio lessico».
Così per esempio, nel capitolo dedicato a Mejerchol’d, la forma grottesco viene inserita e fatta reagire all’interno di una teoria culturale che, mentre si ancora saldamente alla disamina dei caratteri e delle funzioni dello "straniare la realtà", ne trascende il dato tecnico e i confini spazio-temporali, illuminando una filosofia d’artista, formatasi sul terreno delle pratiche, come controcanto "allo schematismo utopico e realistico del potere". Un’invenzione, un Canto storicamente determinato ma universale, e perciò in dialogo non solo con le voci coeve (Stanislavskij, Craig, Pirandello, Salvini, la Duse e la tradizione grandattorale italiana idealizzata dal maestro russo, ecc.) e con chi del grottesco e di quelle voci si è occupato (Ripellino, Picon-Vallin, Beltrame, ecc.) ma anche con la testimonianza di Benjamin e con le corrispondenze dalla Russia di Cardarelli, con Brecht e con Poe, con il pensiero mistico di Simone Weil e con la poesia di Bernard Noël.
Questo procedere – giova sottolinearlo – è il contrario dell’eclettismo quanto dell’esercizio erudito. Da una parte, infatti, Attisani si inoltra con rigore filologico in questioni ancora poco frequentate negli studi su Mejerchol’d, come il milieu culturale più mitteleuropeo che russo, l’influenza reciproca con Marinetti, la prefigurazione di uno spettacolo senza teatro. Dall’altra emerge sempre l’umiltà intellettuale e la generosità pedagogica di chi cerca di confrontarsi "con la vicenda teatrale intesa non come cumulo di nozioni ma come inappagabile ricerca di senso, tanto dell’arte scenica quanto della vita". Non a caso, l’eredità mejercholdiana che lo studioso indica alle generazioni future è "non soltanto un paradiso delle forme e una continua festa di invenzioni", ma anche un patrimonio di "riferimenti essenziali concernenti l’etica e la ricerca spirituale del creatore teatrale".
Si potrebbero portare molti altri esempi: lo sforzo di chiarezza semantica e concettuale intorno ai "millenari equivoci" sulle origini del teatro, con un’arcata che sbalza subito il lettore dallo sciamanesimo e dalla ritualità agli elementi suggestivi di una riflessione cross-cultural pienamente in atto; l’intenso corpo a corpo con "il presente di Grotowski" che serve allo studioso anche come messa a fuoco del proprio metodo critico; la definizione di un teatro poetico attraverso le eccezioni della Duse e di Carmelo Bene, attori-autori la cui arte è comparabile per la carica autopoietica ed emergenziale, per l’importanza data allo sviluppo delle tecniche del corpo, per la tensione verso un "pensare incarnato". Anche in quest’ultima partita teorica, Attisani non esita a far entrare in gioco una pluralità di punti di vista, in particolare quelli di Artaud e Mejerchol’d. En passant notiamo il rilievo dato nel libro, proprio per i casi di Bene e della Duse, all’analisi della scrittura scenica attraverso il suo precipitato filmico: Cenere e Nostra Signora dei Turchi. Dalle ombre del teatro che le pellicole ci restituiscono – e da questa sorta di sguardo del teatro su se stesso – muove un’analisi delle teknai attorali e delle partiture mimico-gestuali, ma anche una potente ipotesi che abbraccia le poetiche dei due più grandi attori della scena italiana del XX secolo: "che la declinazione beniana della crudeltà, in quanto altro estremo del medesimo sentire, si ricongiunge alla compassione dusiana".
E ancora, la caparbietà con la quale torna a interrogare la figura di Francesco d’Assisi "dal punto di vista del comportamento performativo", conduce Attisani a un tentativo di definizione della "teatralità francescana" che ne ribadisce la cesura rispetto alla tradizione europea rinascimentale e post-risorgimentale, e al suo sistema di rappresentazione, e lo indica, dopo un serrato confronto con le fonti meno manipolate dai commentatori e dalla vulgata agiografica, quale esempio di una performatività in cui attore artifex e attore pontifex non sono ancora divaricati. "Teatralità come un’attività filosofica e cognitiva, come gioco e insegnamento nel quale ciò che conta non sono le forme come risultato, ma un’azione che trasforma il corpo-mente di attori e spettatori".
In questo senso, la figura del "folle di dio" viene ricollocata dall’autore laddove la storiografia non lo ha mai riconosciuto: alle radici dell’albero teatrale occidentale. Non modello da imitare (la sua essendo una rivoluzione inimitabile) ma riferimento propulsivo, esempio della possibilità di essere le due cose insieme: attore ma anche autore e protagonista della (propria) esistenza"
Come il mitico fondatore del teatro tibetano, Thaangtong Gyalpo, anche Francesco mette in secondo piano la forma scritta, convinto che "l’essenziale si potesse trasmettere soltanto nella relazione individuale".
Come si vede, l’alternativa alla separatezza storiografica non è una storia spuria delle arti sceniche, quanto il riconoscimento dell’esistenza di un teatro pensante e di un pensiero teatrante che già da sempre si confrontano dando vita a un theatrum philosophicum nel quale gli specialisti della storia del teatro mettono piede tanto raramente quanto nei luoghi fisici della ricerca in atto. La forza dell’approccio di Attisani non risiede perciò nel recupero di un più ampio contesto storico e nell’analisi incrociata delle connessioni sincroniche e degli sviluppi diacronici dei fatti teatrali – ciò che lo condannerebbe allo storicismo – ma nel mediare un incontro e instaurare un fecondo dialogo tra i maestri e i protagonisti della scena, soprattutto novecentesca, e anche gli storici, i poeti, il pensiero orientale (il buddhismo e il taoismo, in particolare tibetano, di cui l’autore è profondo conoscitore), la ricerca scientifica e la filosofia, privilegiando autori indisciplinati come Benjamin, Derrida, Varela, Nancy, Deleuze-Guattari.
Il metodo è dunque transculturale, transdisciplinare e comparativo, la forma quella dell’essai. L’obiettivo: andare "oltre il teatro con il teatro". Dove con il teatro significa attraverso il pensiero del teatro – la costante verifica delle coordinate culturali che s’incrociano nel teatro sia come territorio delle forme, sia come esperienza di verità e processo di trasformazione – ma anche attraverso la concreta creazione teatrale in quanto allegoria, ovvero, nell’accezione benjaminiana, strutturazione possibile di "qualcosa di non detto né dicibile" altrimenti.
Qui infatti la teoresi aderisce intrinsecamente, stabilendo rapporti di interdipendenza reciproca, al suo presunto contrario, la prassi scenica, in un percorso che ha da tempo assunto una decisione, uno spostamento d’asse teorico che vuol essere fondativo senza mai perdere di vista la materialità di quelle forme e di quei corpi-mente in trasformazione, ossia le fenomenologie e gli attori che il sottotitolo del volume precisa essere i protagonisti dell’invenzione del teatro.
Così, per esempio, nell’intento apparente di applicare all’indagine teatrologica il concetto di allegoria, e destreggiandosi strada facendo con le implicazioni della più controversa tra le figure retoriche, non solo Attisani affronta di petto uno dei luoghi più ostici dell’opera di Benjamin, il saggio sul Trauespiel, ma ne ricostruisce criticamente la ricezione, specie in Italia, e non solo negli studi teatrali (Solmi, Cases, Schiavoni, Masini, Desideri, Calasso...), per poi giungere al confronto con l’esperienza del Théâtre du Radeau. Sono pagine intense e di grande finezza esegetica, che affinano lo sguardo su una realtà, quella del gruppo francese, cui Attisani da tempo rivolge una particolare attenzione. Ma, ciò che più importa, Attisani non "applica" semplicemente il concetto preso in esame all’oggetto del suo studio, non cede alla pigrizia intellettuale – alla violenza intellettiva – di una estensione del tropo all’analisi della produzione del Radeau, ma perviene, al contrario, proprio attraverso il dialogo con l’arte di Tanguy e compagni, a una prossimità insondata con "l’essenza interiore dell’allegoria", una "allegoria distesa nel tempo, che svanisce mentre si fa", che risveglia la percezione e la mente, perché non tramette un’idea, ma mette "in contatto un mondo con una sua immagine, all’interno della quale, e a partire dalla quale, si svolge un’azione".
Come la grandezza – l’autenticità – di autori consacrati come Eleonora Duse, Antonin Artaud, Jerzy Grotowski, Tadeusz Kantor o Carmelo Bene, viene riconsiderata alla luce della categoria interpretativa "aperta" dell’invenzione del teatro ("La loro attività non consiste nella creazione di spettacoli, ma nella invenzione del teatro"; "Ognuno dei loro spettacoli anziché appartenere a un genere sembra fondarne uno"), così lo studioso è chiamato al superamento dei limiti tanto dell’assolutismo quanto del relativismo critico "usando il metodo della prima persona" e cioè facendosi terreno di confronto ma anche, diremmo, di invenzione della critica, stemperando l’inevitabile giudizio in una "danza tra idee diverse". E l’immagine – parafrasi della danza degli opposti che l’antropologia teatrale pone a fondamento dell’equilibrio instabile del corpo-in-forma dell’attore – rende bene sia l’idea della libertà della critica (ma anche del suo intrecciarsi in rapporti sempre nuovi con i segmenti vivi nel corpus della tradizione e del sapere), sia della concezione dello studio del teatro come dialogo con i fenomeni scenici che giunge ad avere in comune concetti e metafore (quasi che questa opera di invenzione possa rivelarsi infine, pur nella distinzione dei ruoli, come il portato di un "lavoro d’arte comune" – per estendere un’espressione cara all’autore).
Se il teatro è sempre inteso da Attisani, grotowskianamente, quale mezzo di ricerca e superamento di sé, cammino di conoscenza e trasformazione (il paradigma dell’invenzione farebbe cadere la distinzione tra arte come presentazione e arte come veicolo), anche lo sforzo teorico-critico risulta un affinamento, progressivo e sempre radicato nell’ethos, del linguaggio interpretativo. Lo studioso stesso viene inteso come "luogo di transito e di trasformazione" di un lessico e di una mappa concettuale raggiunte precariamente "attraverso una doppia verifica, da una parte identificando le fonti del linguaggio artistico e dall’altra mettendole in prospettiva insieme ad altre". Può valere anche per un autore misterioso come Grotowski, se si riesce a "orientare il timone in base alle medesime domande che si poneva lui". Accertamento della matrice lessicale e attenzione alle motivazioni fondamentali – ma si direbbe anche una compassione, un intonarsi al quel canto che scompare affinché i suoi echi possano continuare a risuonare altrove, sia pure in tonalità e composizioni diverse e magari lontane.
Come il teatro, anche il discorso sul teatro può farsi cioè luogo di un’inquietudine, di una creazione di differenza rispetto alle superfici della realtà, di una "trascendenza dell’immanenza" (ethos di trascendimento, dice anche Attisani citando De Martino). Il fuoco di paglia che è il teatro ("Ogni teatro che tocca il cuore e fa pensare, inventa il teatro e muore con esso", dichiara l’incipit del libro), si spegne solo un po’ più lentamente, ma inesorabilmente, nelle descrizioni degli spettacoli. Resta cenere nelle urne eleganti dell’aridità filologica. Ma il suo riflesso può continuare a brillare nel cuore e nei pensieri – talvolta perfino nella scrittura – di chi ne è rimasto toccato.


 
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