ateatro 82.18
Obbligati a dire, in teatro
Introduzione a César Brie-Teatro de los Andes, Dentro un sole giallo, cura e traduzione di Silvia Raccampo, Titivillus, 2005
di Silvia Raccampo e Fernando Marchiori
 



Capita anche a La Paz di intercettare il passaggio fugace di qualche comitiva di marziani bardati high-tec, appena approdati all’aeroporto di El Alto, diretti al loro hotel full-comfort, per acclimatarsi dovutamente prima di partire alla conquista della Cordillera Real. Ma la Bolivia non è (ancora) un paradiso turistico di massa. La sua bellezza aspra e imponente, già ferita da secoli di sfruttamento, resiste severa, almeno finché i sempre più spregiudicati mercanti di immaginari non decideranno di gettarla in pasto ai nostri sazi desideri di fuga verso un altrove anestetizzato. Per questo nemmeno una catastrofe cosiddetta “naturale” – la sola occasione ormai in cui il mondo di qua accende i suoi potenti riflettori sui mondi di là – ci fa volgere lo sguardo su quella terra. E forse è un bene, se puntualmente la breccia che squarcia la nostra globale indifferenza diventa il varco attraverso cui far sfilare la parata della solidarietà primomondista, la messa in scena del vergognoso spettacolo della mobilitazione umanitaria, avanguardia di una nuova, più sofisticata conquista. In gran fretta si richiude la crepa che si era aperta, si scacciano i dubbi che si erano insinuati, si addomestica il volto osceno della miseria. E mentre si crede di appianare il nostro secolare, inestinguibile debito con “loro”, nelle sue innumerevoli declinazioni (culturale, economico, ecologico, tanto per cominciare), si continua in realtà ad alimentarlo.
La Bolivia, però, nella sua ricca mescolanza di popoli e lingue millenarie, resta irriducibilmente altra e aperta, viva, uno straordinario laboratorio di biodiversità culturale. Forse il segreto di questa sua capacità di resistere e rinnovarsi è custodito in un’antica parola della lingua aymarà composta di 36 lettere: aruskipasipxañanakasakipunirakispawa, ovvero, in una traduzione approssimativa, siamo obbligati a comunicare (tra noi). Ci ricorda il poeta Jesús Urzagasti che questa parola, nonostante la sua aria misteriosa, ogni giorno compare sulle labbra del popolo che da tempo immemorabile abita gli altipiani andini.
E proprio per questo non stupisce che la Bolivia, il paese più povero del Sudamerica (dove il 75% dei suoi otto milioni di abitanti – in maggioranza indios – vive al di sotto della soglia di povertà, malgrado le riserve di gas boliviano siano le più grandi del continente), sia una terra capace anche di formulare risposte di grande fermezza e durezza di fronte ai tentativi dei potenti di ridurla al silenzio. È successo per ben tre volte negli ultimi anni: nel 2000, con la “guerra dell’acqua”, scoppiata a Cochabamba, quando la multinazionale californiana Bechtel tentò di imporre la privatizzazione di quella risorsa primaria, e per questo fu cacciata dal paese (quella stessa Bechtel, il cui fatturato è il doppio del Pil dell’intera Bolivia, che attualmente è capofila nella “ricostruzione” irachena); poi nel 2001 e 2002, quando le proteste del movimento contadino dei cocaleros, che difende una cultura millenaria, sconfissero le politiche antidroga imposte dal Fondo monetario internazionale; e infine nel 2003, nei giorni dell’“ottobre nero pazeño”, quando una gigantesca mobilitazione sociale, appoggiata anche dalla Chiesa, sventò il tentativo di rapinare i boliviani dell’ultima ricchezza ancora in loro possesso, il gas naturale. Le proteste della popolazione costrin-sero il presidente Sánchez de Lozada, responsabile della morte di 150 persone, uccise durante la repressione della rivolta, a fuggirsene via (a Washington, via Miami).



Bambini nel sisma
Due anni prima che scoppiasse la “guerra dell’acqua”, proprio la regione di Cochabamba, nel cuore dell’America Latina, fu devastata da un violento terremoto. Un terremoto annunciato. Sappiamo, lo abbiamo riscoperto in tempi di tsunami, che terremoti e calamità naturali, con le loro premesse e conseguenze, le loro vittime, non sono tutti uguali. Che una sciagura nello Sri Lanka o in Bolivia non è uguale alla stessa sciagura in Giappone o in Florida. Sappiamo anche, nello stesso tempo, che una catastrofe lontana può toccarci, commuoverci, scuoterci in virtù della sua ascrivibilità a un paradigma tragico universalmente condiviso, capace di traghettare in angoli lontani del Pianeta un identico, radicale smarrimento di fronte al male inspiegabile. E tuttavia in questa tragedia che ci arriva ora dalla terra dove “non si può non comunicare” – che ci arriva nelle figure che il Teatro de los Andes ha scelto per comunicare – resta qualcosa che il dolore non scioglie e la pietà non ricompone. Ed è la presenza ossessiva, fastidiosa, a tratti pervasiva dei bambini. Lo strazio delle piccole vittime che non hanno voce, che restano mute, confinate nel loro silenzio. Ma se appena le nomini, arrivano a frotte, si accalcano debordanti e testarde, e riempiono, fino alla saturazione, lo spazio, vuoto per noi, dell’infanzia. Sono i bambini uccisi nel sonno la notte del terremoto, quelli morti in grembo alle madri ancora prima di nascere, quelli che si ostinano a venire al mondo proprio quella notte, e poi dopo, incessantemente, per rinfoltire le schiere dei loro fratelli scomparsi. Nessuna “piccola Irma” tra i bambini boliviani (per chi non lo ricordasse, Irma era la bambina bosniaca portata in Italia per essere sottoposta a cure specialistiche la cui vicenda fu assurta dai media a simbolo dell’efficienza e del buon cuore della solidarietà internazionale; cfr. Luca Rastello, La guerra in casa, Einaudi, Torino 1998). Impossibile usare con loro i dispositivi di neutralizzazione dell’infanzia che il mondo di qua ha escogitato per non guardare, per non vedersi.
Onnipresenti nel testo di Brie, i bambini sono resi in scena con dei pupazzi che giocano un ruolo non secondario nella definizione dello spazio del dolore e della sua rappresentazione – della sua rappresentabilità. In scene delicatissime, ad essi si conformano gli attori, le loro posture, le cere dei volti, componendo gruppi e motivi, modellando una materia cromatica e iconografica coerente con il paesaggio naturale e simbolico del mondo andino.



Senza rinunciare al teatro
Prima di etichettare lo spettacolo – “civile”, “politico” – sarà bene soffermarsi su altri aspetti compositivi, per metterne in luce un carattere essenziale che lo distingue dalle produzioni correntemente aggettivate in quel modo. Il limite artistico del fenomeno del cosiddetto teatro civi-le, almeno per come si è andato delineando e imponendo in Italia quale genere a sé fin dai primi anni Novanta – ovvero come racconto di attori monologanti –, è il sacrificio, se non l’assenza tout court, di un linguaggio propriamente teatrale che superi il piano della più o meno elaborata narrazione e si confronti con la tradizione e la ricerca per esprimere potenzialità del corpo-voce in movimento in uno spazio scenico. Le motivazioni contingenti di questa “rinuncia al teatro”, della quale un narratore di solida formazione attorale come Marco Paolini ha rivelato una inquieta consapevolezza, vanno dalle urgenze e priorità spesso extrateatrali alla sfiducia nei confronti delle possibilità espressive di una messinscena “impegnata”, ai rischi di un naturalismo di ritorno. Il Sole giallo del Teatro de los Andes ci porta invece un esempio di teatro civile che non rinuncia a elaborare, insieme a una fitta partitura verbale, anche le differenti partiture del corpo, degli oggetti, del movimento, che lavora con le luci e le musiche, che si interroga sulla presenza dell’attore in scena. Che non rinuncia al teatro, insomma. Fin da quello squarcio iniziale, autentico sisma scenografico, che trasforma di colpo il quadro dei sopravvissuti, restii a lasciarsi ancora una volta intervistare, in una potente rete di equivalenti fenomenologici del terremoto: tutti gli elementi della scena (tavolo, sedia, porta, cornice, perfino i vestiti dell’attore che parla) vengono tirati via e volano in alto, dando luogo al doloroso flashback. Strappare invece che travolgere, denudare invece che coprire di macerie, appendere per aria invece che radere al suolo. Gli effetti del terremoto misurati su scala teatrale. E tuttavia, per chi conosca i precedenti lavori del gruppo andino – da Colón a Ubu in Bolivia, dai Sandali del tempo all’Iliade (cfr. F. Marchiori (a cura di), César Brie e il Teatro de los Andes, Ubulibri, Milano 2003) – risulterà evidente che, nonostante sia come quelli tanto radicato nella realtà in cui è nato quanto universale nelle forme in cui si è distillato, il nuovo spettacolo è più decisamente condizionato da una preoccupazione documentaria. Stretti da una duplice necessità, l’obbligo morale di dire (che è un altro senso del “non si può non comunicare”) e la fedeltà a un linguaggio artistico che crea la scena non come riflesso della vita, ma come un fatto reale, potente quanto la vita, César Brie e i suoi attori hanno scelto di intonare le loro voci alla disperazione – prima che raccontare i fatti con quelle voci; hanno scelto di informare i loro corpi alla sciagura – prima che fare informazione attraverso quei corpi.



Esistiamo solo nelle vostre testimonianze
Certo non era il solo modo possibile. Anche una catastrofe naturale e le sue cicatrici possono essere sublimate e divenire occasione e materia di invenzione, segnavia di un percorso nell’immaginario personale e collettivo, reagente per accostamenti e ribaltamenti, ellissi e traslati. Si pensi al Silenzio di Pippo Delbono, che parte proprio dalla memoria di un terremoto, quello che devastò Gibellina nel 1968, “non tanto per raccontare un fatto storico, ma per soffermarsi su quell’attimo – eterno – che racchiude il silenzio della morte e il silenzio della vita”. Se in quello spettacolo afferriamo la fragilità dell’essere umano, il suo stare in bilico tra la morte e la vita, il suo rinascere, è perché il silenzio del terremoto si fa presente nel silenzio di Bobò. Ma l’intento del Teatro de los Andes era diverso. Qui le parole servono perché quel che si vuole è proprio ricostruire un fatto storico, ristabilire una verità, e sono i racconti delle vittime – o i loro equivalenti verbali e non verbali – a venirci incontro da una realtà tra le più saccheggiate del Pianeta, dove le bugie dei politici e il cinismo dei giornalisti hanno lasciato un deserto doloroso quanto quello causato dal sisma. “Siamo stanchi di parlare”, dicono i terremotati agli attori che vanno a racco-gliere le loro storie, ma anche: “Noi esistiamo solo nelle vostre testimonianze. Non mentite anche voi. Dite la verità, non mentite”. Ne è uscito un lavoro che non nasconde il suo voler essere anche cronaca e denuncia, ma che mette l’aneddotico al servizio delle azioni sceniche e queste in tensione con la forma “dramma didattico”; che ancora una volta cerca la semplicità della trasparenza, quella del rigore e dell’immaginazione che suppliscono alla povertà, come ama ricordare Brie citando Brecht. Un “brechtianesimo” ben consapevole della particolare eredità delle ceneri di Brecht sparse per decenni sulle scene sudameri-cane e ben temperato da una declinazione personale della poetica del grottesco, che il regista argentino va sottoponendo a verifiche sempre nuove (si confrontino gli esiti del recente lavoro di Brie in Italia con il Teatro Setaccio, Il cielo degli altri; cfr. F. Marchiori (a cura di), Verso il cielo degli altri, Titivillus, Corazzano 2005). Alla fine dello spettacolo, la polvere che esce invece delle parole dalle bocche dei terremotati non lascia illusioni. Ai dannati della Terra ac-cade ciò che sempre è accaduto. E Lupe Cajías, membro di quella Delegazione presidenziale anticorruzione che ha trovato nello spettacolo un formidabile volano sociale, riconosce in questa spoliazione l’infuocata matrice, cinquecento anni dopo ancora bruciante, della violenza dei conquistadores. Eppure, non è per dire la rassegnata accettazione della banalità del male che il Teatro de los Andes ha girato il Sudamerica con il Sole giallo e ora attraversa l’oceano. Come quando ha affrontato il tema dei desaparecidos – in Argentina, in Bolivia – il senso che Brie dà al nuovo lavoro è semmai quello della testimonianza, del “meditate che questo è stato”, del pathos che scuota le coscienze e ricordi – al disilluso pubblico sudamericano come a quello più cinico delle platee europee – la necessità del teatro.


 
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