ateatro 85.9
Che succede nel teatro italiano?
Una riflessione sui dati della stagione 2004-2005
di Franco D’Ippolito
 

I dati della Borsa Teatro del “Giornale dello Spettacolo” dell’Agis non possono considerarsi attendibili, in termini statistici, rispetto all’intero panorama teatrale della produzione e della distribuzione teatrale. Sono troppo parziali (si riferiscono soltanto alle recite per cui le compagnie ed i teatri comunicano presenze ed incassi) e sono spesso raggruppati secondo criteri assai discutibili.
Fatta questa doverosa premessa, leggendo le classifiche della stagione teatrale 2004/05 degli spettacoli per generi (“Giornale dello Spettacolo” n. 16 del 13 maggio 2005) balza agli occhi un dato, sicuramente non scientifico, ma pur sempre importante per la evidenza dei numeri. Se pure parziale, se pure del tutto casuale, da quelle due classifiche ricaviamo una fotografia della produzione teatrale italiana molto preoccupante, scandalosamente taciuta dalle analisi e assente dai dibattiti.
Su uno spaccato di 419 spettacoli che hanno totalizzato oltre 1.900 spettatori nella stagione 2004/05, solo 8 (appena l’1,9%) ha superato le cento repliche, mentre addirittura 243 (ben il 57,8%) non ha raggiunto le trenta repliche.
Proviamo a tradurre in giornate lavorative questi dati? Ne ricaveremo che i lavoratori (artisti, tecnici e organizzatori) italiani dello spettacolo, per oltre la metà degli spettacoli prodotti, hanno percepito meno di 30 giornate di paga, riposi compresi (quando il loro contratto prevede il pagamento delle giornate di riposo!). Virtuale per virtuale, azzardiamo una proiezione sull’intero sistema della produzione teatrale italiana nella stagione 2004/05. E’ plausibile, con tutti i benefici d’inventario che vogliamo, che si siano prodotti mettiamo 1.200 spettacoli che utilizzano mediamente 10 persone, fra artisti, tecnici e organizzatori. Magari! ma vogliamo essere ottimisti. Applicando le percentuali di cui sopra, dei circa 12.000 lavoratori impiegati, meno di 230 hanno lavorato per oltre 100 giornate recitative (che significano mediamente 130 giornate, più o meno 4 mesi di paga) e quasi 7.000 per meno di 30 (più o meno un mese di paga).
Il dato non è affatto nuovo, sebbene continui colpevolmente a essere sottaciuto. Nel 1999 i dati Enpals, elaborati nel Rapporto sull’economia della cultura in Italia 1990-2000 (a cura di Carla Bodo e Celestino Spada, Il Mulino, 2004, pag. 376), riportavano per gli oltre 17.000 lavoratori del teatro un’occupazione media di 79 giornate contributive (3 mesi di paga) con una diminuzione nel decennio 1990-1999 del 10,3% (pag. 377). Evidentemente il trend negativo ha continuato ad operare.
Può definirsi il sistema dello spettacolo teatrale un sistema produttivo? E può, con questi numeri, continuare a rivendicare attenzione, sovvenzioni e priorità? Sicuramente sì, proprio perché non sono questi numeri a determinare la crisi, ma l’abbandono di sane politiche della cultura a mortificare tutti, lavoratori e pubblico. A chi giova, se non alla politica che mira al consenso giornaliero, strombazzare successi di pubblico che, come fuochi d’artificio, destano grandi oh! di stupore ed ammirazione per poi spegnersi a terra dopo pochi secondi? Come si fa a continuare a riferirsi ai fenomeni del botteghino (peraltro dimostrate eccezioni nell’intero sistema) e a pensare che siano quei 7, 8 spettacoli in una stagione che motivano e giustificano l’intervento pubblico nel settore? A chi possono rivolgersi le migliaia di lavoratori che non riescono a sopravvivere economicamente facendo teatro per non abbandonarlo o frequentandolo sempre più occasionalmente (dopo essersi garantiti la sussistenza per altre vie)?
Stiamo sprecando talenti di ogni età perché non sappiamo ( o non vogliamo) guardare al sistema teatro come a un complesso di produttori/lavoratori/distributori articolato, plurale, in cui non ci sono né vinti né vincitori, né intoccabili né superflui. Gli spettacoli debbono poter aver vita fintanto che esiste un pubblico che vuole assistervi, senza doverli tirare avanti per raggiungere i minimi ministeriali o chiuderli per fare le nuove produzioni richieste dal Ministero o dal mercato di scambio delle tournée.
Allora, la fiscalità generale (attraverso i contributi e le sovvenzioni pubbliche) deve intervenire a sostegno degli artisti oppure deve promuovere condizioni di accessibilità agli spettacoli per i cittadini-contribuenti, con l'obiettivo non solo di far consumare teatro, ma di farlo conoscere?
Temiamo che finché non ci riapproprieremo di un “pensiero” sul produrre e distribuire spettacoli, anche la sopravvivenza striminzita di oggi potrebbe essere messa in discussione.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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