ateatro 87.25
Il teatro è sogno (ma anche come metterlo in pratica)
La prefazione a Il teatro possibile di Mimma Gallina
di Oliviero Ponte di Pino
 

Quella che segue è la prefazione a Il teatro possibile. Linee organizzative e tendenze del teatro italiano di Mimma Gallina, FrancoAngeli, Milano, 2005, 380 pp., 28,00 euro, in libreria da settembre 2005.
Il volume verrà presentato a Milano, alla Civica Scuola d'Arte Drammatica, via Salasco, il 29 settembre alle ore 18. Accorrete numerosi...


A mio padre

Quanti possono essere oggi in Italia i professionisti fattivamente interessati alla fusione tra aziende in ambito teatrale, e dunque motivati ad acquistare un volume che affronti l’argomento nei suoi aspetti pratici? Se fosse questa la ragione per comprare Il teatro possibile, con ogni probabilità questo libro troverebbe una ventina di acquirenti o poco più, che oltretutto farebbero molto prima a chiamare direttamente l’autrice: nel mondo teatrale la conoscono tutti, recuperare il suo numero di telefono o la sua mail è fin troppo facile, e oltretutto con il passare degli anni lei si è fatta sempre più prodiga di informazioni e di aiuto.
Insomma, Il teatro possibile di Mimma Gallina non è e non può essere solo un manuale di organizzazione teatrale o di economia dello spettacolo, o un breviario per affrontare e risolvere qualche problema pratico nell’attività organizzativa, anche se distribuisce pagina dopo pagina indicazioni operative, notizie, dati, considerazioni, consigli. Se però guardiamo meglio al capitolo che questo libro dedica al misterioso e raro fenomeno delle “fusioni teatrali”, scopriamo che in realtà mentre parla di un problema di portata assai limitata (quante sono oggi le imprese teatrali che davvero potrebbero o dovrebbero praticare una fusione?), Mimma Gallina intreccia una serie di sguardi ricchissima e complessa.
C’è in primo luogo un aspetto storico, a sua volta declinato secondo scansioni diverse. Il richiamo folgorante alla “grande storia” del teatro, con il riferimento alle compagnie di Molière, ci ricorda acutamente che la pratica teatrale attuale può servire a illuminare la storia del teatro, e viceversa. Il racconto di due fusioni effettivamente realizzate nel recente passato, quella dei Teatri Uniti a Napoli e quella dei Teatridithalia a Milano, dunque due eventi che un qualche significato nella storia del nostro teatro l’hanno avuto (anche se nessuno ne aveva mai effettivamente valutato il peso con questa attenzione), intreccia elementi che riguardano l’economia aziendale e la poetica delle compagnie, nei loro rapporti reciproci, soppesando intenzioni e risultati. Una storia più piccola, contingente, ma per noi determinante, dà un ulteriore taglio interpretativo: è la successione delle circolari ministeriali che governano da sessant’anni il nostro teatro, o meglio la vivisezione di un loro comma fugace e in apparenza trascurabile.
Così, quando arriva ad affrontare l’attualità, lo scenario generale è ampiamente delineato. E nel censire le fusioni effettivamente concluse negli ultimi anni, può mettere in gioco anche fattori giuridico-amministrativi, economici, sociologici, di organizzazione aziendale e gestione del personale, di marketing, – sempre ricordando però la specificità e la prevalenza dell’aspetto artistico.

Questo approccio multidisciplinare discende dalla “prospettiva organizzativa” adottata da Mimma Gallina e già sistematizzata nel volume Organizzare teatro e può dare un’idea della ricchezza di contenuti e di problematiche di un libro che è più libri insieme, all’interno però di un forte disegno unitario, oltre che di una robusta impostazione e idealità.
Per quanto riguarda la struttura, Il teatro possibile è un libro composito. La prima parte è un viaggio nelle capitali teatrali italiane, quella decina di città dove si concentra buona parte dell’attività produttiva e del mercato. In Italia un teatro nazionale non è mai riuscito a nascere, anche per questa fortunata sovrabbondanza di articolazioni e di tradizioni. Tuttavia l’analisi non è rivolta alle glorie del passato, da Pulcinella e Arlecchino ai teatri stabili, quanto piuttosto allo snodo di questi anni e al prossimo futuro: è la fotografia di una situazione in rapido movimento, di cui non è facile prevedere gli sviluppi. Con questa vera e proprio inchiesta, Mimma Gallina si allontana dagli schemi consolidati: insomma, non vuole certo ratificare il “sistema teatrale italiano” così come si era andato configurando in questi decenni e di cui lei stessa è stata protagonista. Va piuttosto a cercare i segnali di trasformazione e novità: ed è uno sforzo notevole, perché è molto più facile continuare a ragionare all’interno di schemi collaudati – e magari sanciti da un quadro legislativo-burocratico consolidato nei decenni – piuttosto che arrischiare sul nuovo.
Il secondo “libro nel libro”, dopo questa significativa aperture sulla realtà, riguarda l’analisi – un commento filologico - delle “ultime edizioni” della circolare annuale (o dei decreti pseudotriennali) che regolano il nostro teatro. Al di là delle conclusioni cui giunge questa puntigliosa radiografia, è chiaro che all’autrice sta a cuore soprattutto, ancora una volta, il metodo di analisi. Per gli addetti ai lavori questa circolare e le assegnazioni del FUS ministeriale sono ovviamente un elemento determinante, l’architrave dell’intera attività della stagione. Dunque quello che monopolizza l’attenzione dei teatranti è ovviamente il proprio particulare: le opportunità offerte dalla normativa e le sue richieste, la somma di sovvenzioni di cui disporre, e magari il confronto con le realtà più vicine (e perciò quelle direttamente concorrenti nella lotta per la sopravvivenza, in un ambiente dove le risorse sono cronicamente scarse e per di più in ulteriore drastica riduzione). Questa lettura in soggettiva è per gli operatori una tentazione fortissima, inevitabile. Oltretutto in un sistema regolato in sostanza da un autogoverno corporativo (attraverso le diverse categorie rappresentate nell’AGIS) e poi corretto da vari meccanismi clientelari e di sottogoverno (o peggio), diventa spesso difficile cogliere un disegno generale, un progetto politico esplicito o implicito. Invece, al di là della apparente casualità di scelte contingenti e di un procedere burocratico e in apparenza neutro, una lettura informata (e magari a tratti maliziosa) fa emergere una linea precisa, perseguìta con maggiore o minore consapevolezza dai politici e dagli alti burocrati, con la complicità di esperti e di addetti ai lavori, ma che determina l’evoluzione dell’intero sistema con sorprendente coerenza (persino nelle apparenti incoerenze). Non è un caso che questo meccanismo di controllo tenda a nascondersi dietro un velo impenetrabile: nel chiuso di uffici e commissioni, vengono prese decisioni politiche che hanno effetti ampi e profondi, ma di fatto senza alcun reale dibattito, solo contrattazione tra alcuni maggiorenti. La fitta cortina che nasconde questa procedura rende di fatto impossibile ogni discussione e verifica, fino alla scandalosa decisione di non divulgare le assegnazione del FUS per il 2004, in nome di una malintesa difesa della privacy. Senza trasparenza, la democrazia perde significato: comprendere i meccanismi del potere e i suoi effetti è il primo necessario passo verso una autentica procedura democratica.
Altri capitoli di questo libro potrebbero costituire ricerche autonome, dal reportage sull’attività spettacolare dei centri sociali di Roma e Milano (ma accoppiato a una radiografia dei loro conti economici) al censimento dei circuiti regionali, che chiude un po’ il cerchio e il viaggio iniziato dalle aree metropolitane: perché i circuiti portano il teatro nei centri medi e piccoli, le centinaia di piazze da “una replica e via” che danno al teatro italiano la sua peculiarità.
Mimma Gallina traccia dunque un percorso che va dalle massime istituzioni teatrali ai borghi della provincia con i loro teatrini da poco restaurati, dai corridoi del Ministero ai disastrati capannoni che raccolgono ed esprimono il disagio giovanile. Il teatro possibile ci porta là dove si decide la politica dell’intero sistema e si distribuiscono le risorse, ma esplora anche l’area di una marginalità che vuole vivere di fatto al di fuori della legge e dei regolamenti burocratici. Segue questo itinerario senza una gerarchia precostituita: non parte dal vertice per arrivare alla base, dal centro per arrivare alle periferie (o viceversa, che sarebbe la stessa cosa), ma va a verificare di volta in volta i fronti del cambiamento ai diversi livelli. Perché il tema centrale, la grande domanda del libro, è la possibile evoluzione del teatro italiano: quali sono le sue potenzialità, e quali sono le capacità delle istituzioni di cogliere e valorizzare queste spinte innovative.

Il teatro possibile è molti libri insieme anche per altri motivi. Per esempio vi si stratificano le diverse fasi e i successivi saperi accumulati dall’organizzazione teatrale in Italia.
L’organizzatore teatrale è una figura insieme antichissima e moderna. Ovviamente impresari e organizzatori esistono da sempre, anche se le loro funzioni potevano essere diversamente distribuite all’interno di un teatro o di una compagnia, e non perfettamente definite da un mansionario. Per fermarsi a epoche recenti, capocomici come Eduardo o Dario Fo sono stati anche straordinari organizzatori: o meglio, sono stati artisti creativi anche a livello organizzativo. Basti pensare all’abilità con cui Eduardo - ai tempi del fascismo e dunque in una situazione culturale e politica per lui difficilissima – modulava nelle sue tournée il rapporto tra i testi in italiano e i testi in napoletano del suo repertorio; o alla creazione di un circuito autonomo da parte di Dario Fo e Franca Rame dopo la cacciata da Canzonissima e l’uscita dal circuito dei teatri “borghesi”. Quella dei capocomici era una competenza conquistata sul campo, oltre che il frutto di una tradizione e una sapienza secolari, che risalgono fino ai tempi dei Comici dell’Arte.
Con il dopoguerra, nel momento in cui l’intervento pubblico in teatro è diventato determinante, sia sul versante artistico sia su quello economico, la figura e il ruolo dell’organizzatore è cambiata. O meglio, è nata una diversa figura di organizzatore, che non risponde più solo alle necessità della propria impresa, ma che deve confrontarsi in maniera diversa con la “funzione pubblica” del teatro, nei due sensi del termine: sul versante della progettualità (e dunque sul senso del proprio fare teatro rivolto a una collettività) e nel rapporto con le istituzioni (e dunque con i funzionari che a vari livelli interagiscono con i teatranti). E’ la generazione di operatori che si è affermata sulla scia di Paolo Grassi e dell’esperienza del Piccolo Teatro, e di cui faceva parte anche Giorgio Guazzotti, che di Mimma è stato amico e maestro: anche questa generazione, che ha vissuto la meravigliosa necessità di inventare un teatro diverso e nuovo, si è sostanzialmente formata sul campo, forgiata da battaglie culturali e politiche interne ed esterne al palcoscenico. Proprio Giorgio Guazzotti ha sentito, a un certo punto del proprio percorso, la necessità di formare i quadri organizzativi in grado di gestire e plasmare questo sistema emergente, offrendo loro le competenze e le informazioni necessarie. E’ nato così – ancora negli anni Settanta – il primo corso per organizzatori teatrali italiano, in quella che all’epoca si chiamava ancora “Scuola del Piccolo Teatro” e che sarebbe poi diventata la “Civica Scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi”.
Mimma Gallina è stata una delle prime allieve di questi nuovi corsi (io, che sono arrivato poco dopo, oltre che di Guazzotti sono stato anche uno dei primi studenti di Mimma, che aveva subito conquistato il grado di docente). Appartiene dunque a una generazione per la quale l’organizzazione non è solo un sapere di cui appropriarsi attraverso l’esperienza diretta e i consigli dei più esperti, quanto una professionalità che si acquisisce attraverso un preciso percorso formativo e un curriculum di studi: non si tratta più di un accumulo empirico di problemi e soluzioni, ma di un insieme di competenze multidisciplinare e di un metodo di lavoro. Parallelamente al definirsi e al moltiplicarsi di corsi di questo genere (che ora hanno invaso università e master), hanno iniziato ad approfondirsi (in Italia con qualche ritardo rispetto al mondo anglosassone e alla Francia) tutta una serie di studi e ricerche che riguardano l’economia e la sociologia della cultura. Gli strumenti di analisi e le metodologie di lavoro sono andate affinandosi e sistematizzandosi, quasi aspirando a una scientificità in precedenza impensabile. Di questo corpus ancora un po’ sgangherato, Mimma è andata appropriandosi in questi decenni, inseguendo una curiosità attenta e onnivora, ampliando e definendo i confini della disciplina e cercando di darle un po’ d’ordine: non è un caso, va notato, che il suo lavoro si sia concentrato sul teatro, tenendo ben presenti le sue specificità e peculiarità, mentre in genere altri studi privilegiavano un più generico approccio all’economia e all’organizzazione dello spettacolo dal vivo (comprendendo dunque anche forme come il teatro lirico e i concerti, con tradizioni e problematiche molto diverse).
In questo libro, queste tre età – se vogliamo chiamarle così - dell’organizzazione teatrale si compenetrano e si completano. In primo luogo c’è una profonda padronanza dei modi di funzionamento del teatro, una conoscenza di prima mano, affinata in anni di lavoro, prima con le responsabilità ai vertici del Gruppo della Rocca e poi con la direzione – prima donna in Italia – di un teatro stabile, quello del Friuli-Venezia Giulia, poi con la creazione di un prestigioso festival internazionale come il Mittelfest, e ancora come mille collaborazioni e consulenze a compagnie, teatri e rassegne. Annotazioni come quelle sui differenti cachet degli spettacoli nelle piccole e nelle grandi piazze possono essere il frutto solo di una conoscenza di prima mano dei rapporti tra teatri (e/o circuiti) e compagnie (e/o agenzie).
Emerge poi tutta la competenza maturata in decenni di rapporti con le istituzioni ai diversi livelli dell’amministrazione, l’abilità di destreggiarsi nei meandri della burocrazia ministeriale, regionale, comunale, assessorile, eccetera eccetera, unita alla capacità di cogliere il segno e l’effetto politico di ogni decisione, e dunque di interpretare e valutare – per esempio – leggi, circolari e regolamenti in perenne evoluzione. E c’è soprattutto, ancorata nelle effervescenti stagioni dell’immediato dopoguerra e degli anni Settanta, quella spinta ideale al rinnovamento, quella tensione alla dignità e alla diffusione di un teatro d’arte che sia anche un teatro civile, e la consapevolezza della necessità di disegnare, attraverso il proprio lavoro e le proprie scelte, un diverso sistema teatrale. A ispirare Il teatro possibile non sono solo i criteri di una corretta gestione economico-finanziaria, un uso razionale e magari creativo delle (scarse) risorse, una razionalizzazione del sistema, insomma l’adeguamento ai presunti diktat del mercato, quando prima di tutto l’idea di un teatro di qualità – nel suo valore estetico e nel suo rapporto con il pubblico - che va difesa e diffusa.
Si sviluppa infine l’uso di competenze che lo studio dell’economia della cultura di questi anni ha progressivamente affinato e che lei stessa ha collaudato in decenni di insegnamento. Un approccio insomma meno casuale, più sistematico, ai problemi del teatro. E, va sottolineato ancora una volta, multidisciplinare: non è un caso che molte parti di questo libro siano il frutto di collaborazioni e di incontri, sia sul versante pratico sia su quello teorico.

Oltre che i diversi saperi dell’organizzazione teatrale, questo libro ne intreccia anche le diverse funzioni. Parte con l’analisi dei problemi specifici, con una molteplicità di strumenti e tecniche. In secondo luogo fa appello alla capacità di inserirli nel loro contesto culturale, politico, normativo e di mercato. Terzo, una volta individuate le possibili soluzioni, affina gli strumenti organizzativi, di marketing, economici e giuridici necessari per raggiungere gli obiettivi prefissi. Infine, e soprattutto, fa appello a una “immaginazione organizzativa” che inventi soluzioni innovative e creative. Perché è inutile ricordare che molte grandi invenzioni teatrali sono anche, insieme, indissolubilmente, soluzioni organizzative inedite (e in questo libro ce ne sono diverse, alcune ricordate altre magari suggerite). Perché a questo punto è inutile ricordare che anche quello dell’organizzatore (dal direttore organizzativo all’ultimo dei suoi collaboratori) dev’essere un ruolo creativo.
Affiora anche, in questo Teatro possibile, una ulteriore ambizione, che trascende i tradizionali obiettivi di un bravo organizzatore. Pur affrontando e analizzando una serie di situazioni e problemi precisi, non nasconde mai il suo vero obiettivo. Perché l’oggetto del libro è il sistema teatrale italiano nel suo complesso, e l’ambizione inconfessata di Mimma Gallina è quella di contribuire in maniera costruttiva alla sua riforma. Il teatro italiano sta attraversando uno dei ricorrenti momenti di crisi: insufficiente ricambio generazionale e di linguaggi, risorse sempre più scarse, incapacità dei poteri politici di offrire finalmente un quadro di riferimento normativo e legislativo credibile. Ma in questa crisi è possibile anche cogliere una serie di opportunità. L’incontro milanese delle Buone Pratiche, nel novembre 2004 (a cui Il teatro possibile dedica un denso capitolo), è stato un tentativo di mappare alcune di queste opportunità, al di fuori di pregiudizi e luoghi comuni. Al di là dei singoli esempi di Buone Pratiche – tutti ovviamente discutibili – c’è forse una lezione che si può trarre da quella esperienza e da questo libro: in questo scenario non possono esistere certezze, né da parti di chi il teatro lo fa né da parte di chi il teatro lo organizza, lo osserva e lo regola. O meglio, di chi il teatro lo vuole e deve regolare, considerato l’attuale passaggio di consegne tra Stato e Regioni, qui peraltro ampiamente discusso.
Mimma Gallina ci dimostra che è diventato impossibile accostarsi ai problemi attuali della scena partendo da partiti presi ideologici o estetici, oppure dall’attuale quadro normativo-legislativo (o, peggio ancora, da quelle rendite di posizione che ingessano i nostri palcoscenici). Dunque è necessario mettersi davvero a guardare quello che sta succedendo, al centro e ancora di più nelle mille periferie, per capire quali possano essere le strade del rinnovamento. Forse, va aggiunto, al momento non è immaginabile una soluzione di sistema, che possa ricondurre a un quadro unitario tutte queste spinte. Perciò qualunque progetto normativo o legislativo deve essere aperto e flessibile. Irrigidire la molteplicità e la ricchezza di realtà ed esperienze che emerge da questo viaggio nel teatro italiano all’interno di categorie codificate, significa togliergli l’ossigeno: rischiamo di amputargli quella costante capacità di reinventarsi, di proiettarsi ogni volta verso un teatro che ancora non esiste. Quel teatro che qualche ingenuo visionario può solo immaginare e sognare e poi – con ostinata disperazione, con feroce necessità – far vivere e crescere.

Milano, 1°-14 aprile 2005


 
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