ateatro 94.8
Semplicemente complicato (Parte I)
Un incontro con Luca Ronconi
di Oliviero Ponte di Pino
 

Questo testo è in corso di pubblicazione nel volume Luca Ronconi. Spettacoli per Torino, Umberto Allemandi Editore, Torino, 2005. La seconda parte in ateatro95.

Una trentina d’anni fa, commentando la sua messinscena dell’Anitra selvatica di Ibsen, Cesare Garboli scriveva: “Come sempre, la genialità di Ronconi è di natura semplice”. La recensione apparve sul “Corriere della Sera” il 10 dicembre 1977 (ora la si può leggere in Cesare Garboli, Un po’ prima del piombo, Sansoni, Milano, 1998, p. 328).
E’ un’osservazione curiosa, se applicata a un regista noto e discusso per la complessità dei suoi spettacoli e per l’inventiva imprevedibilità di certe scelte. Applicata, in particolare, a uno spettacolo dove l’uso della macchina fotografica da parte di un personaggio era diventato lo spunto intorno a cui costruire la regia: una articolata macchina spettacolare con paratie mobili sezionava la scena teatrale in inquadrature fotografiche, per suggerire una riflessione sul rapporto con il tempo tra un medium della continuità (il teatro) e un medium dell’istantaneità (la fotografia), oltre che naturalmente tra il flusso della vita e la fissità della morte.
L’elenco degli azzardi ronconiani è lungo. Comprende molti dei suoi spettacoli più belli e geniali, ma anche qualche fecondo fallimento – perché Ronconi ama rischiare, e la possibilità dell’errore fa parte del suo percorso di ricerca, da sempre.
Una piccola antologia di strabilianti invenzioni ronconiane può prendere le mosse dal Riccardo III di Shakespeare, protagonista nel 1968 Vittorio Gassman.

Riccardo III è stato uno dei pochissimi testi che ho fatto su commissione, perché l’ha scelto Gassman, la proposta me l’ha fatta lui, forse su consiglio della sua ex moglie Nora Ricci. Riuscì proprio bene: c’era un cast fantastico, ci fu anche lì della gente che s’infuriò. Ma se la gente s’arrabbia, va pure bene…

Dallo Stabile torinese, che gli affida l’incarico, arriva con quel Riccardo III la prima consacrazione per un regista emergente. Il suo talento era esploso nell’estate del 1966, con il clamoroso e sorprendente successo di un dimenticato testo elisabettiano, I lunatici di Middleton e Rowley: il pubblico era rimasto sconvolto ed entusiasta, la critica aveva subito citato il teatro della crudeltà di Artaud e il Marat-Sade di Brook.
Per quel Riccardo III torinese, Ronconi non chiama uno scenografo ma utilizza le sculture di ferro e legno di Mario Ceroli, creando una claustrofobica scatola scenica di primitiva potenza (il regista progetta anche ingombranti costumi “materici”, dal fascino primitivista, che non potranno però essere utilizzati dagli attori). Sulla scia di Jan Kott – anche se per Ronconi i classici non possono certo essere banalmente “nostri contemporanei” – in scena campeggia “la grande scala del potere”; alla fine il sovrano “muore non ucciso da nessuno, in una battaglia che non ha luogo, travolto dall’apparire di enormi manichini di legno senza spessore, simbolo del Grande Meccanismo della storia” (Franco Quadri, La politica del regista, Il Formichiere, Milano, 1980, pp. 450-451).

Se lo scenografo è un artista come Mario Ceroli, la cosa migliore è usare le sue opere e non costringerlo a concepire una scenografia, che non è il suo mestiere. Per esempio, nel caso di Riccardo III, Ceroli aveva già fatto quella scala e quelle sagome. Con gli architetti è più difficile perché l’architettura, già di per sé, tende a essere vincolante, condizionante. Faccio un esempio. Nei miei spettacoli spesso le scene si muovono. Il motivo non è perché è bello far muovere il palcoscenico ma perché, probabilmente, siamo condizionati dal cinema, ed è importante che nel campo visivo ci sia solo ciò che serve in quel momento e che vada via quando non serve più.

L’anno dopo, per una Fedra sorprendentemente minimalista, condanna gli interpreti all’immobilità, all’interno di una scenografia semplicissima che li imprigiona per tutta la durata dello spettacolo, a declamare le torrenziali e furibonde invettive di Seneca.
Passano pochi mesi e quasi come contrappunto Ronconi crea con l’Orlando furioso una delle messinscene più movimentate dell’intera storia del teatro. Il poema epico-cavalleresco di Ludovico Ariosto, condensato dal poeta Edoardo Sanguineti intorno ad alcuni personaggi e nuclei narrativi, si trasforma in uno spettacolo-festa che invade chiese e piazze e diventa uno dei simboli della rivoluzione teatrale di quegli anni. L’Orlando furioso, che debutta nell’estate del 1969 al Festival dei Due Mondi di Spoleto, aggredisce e sorprende il pubblico da due palcoscenici scomponibili e mobili posti alle due estremità dello spazio scenico, ma anche irrompendo con carrelli di legno spinti dagli attori nella zona centrale occupata dagli spettatori, che vengono dunque utilizzati come una sorta di “scenografia vivente” e costretti ad assecondare l’azione, che spesso si sviluppa simultaneamente in più luoghi. Lo spettatore, spiega Ronconi,

fondamentalmente si trova (…) davanti a due scelte: o partecipa al gioco che gli proponiamo, o si mette in disparte e sta a guardare. E in questo caso si annoierà, perché, ripeto, lo spettacolo va vissuto, non certo visto e giudicato. Se, al contrario, lo spettatore entra nel gioco potrà, immediatamente, essere parte viva, attiva di esso.
(Un teatro dell’ironia, colloquio di Edoardo Sanguineti con Luca Ronconi, “Sipario”, nn. 278-79, giugno-luglio 1969, p. 71, cit. in Franco Quadri, Il rito perduto.Saggio su Luca Ronconi, Einaudi, Torino, 1973, p. 91)

L’Orlando furioso è uno straordinario successo, anche internazionale. Lo stesso Ronconi ne trarrà una memorabile riduzione per la televisione, trasmessa dalla Rai in cinque puntate nel 1975.
Un successo internazionale – prodotto da una cooperativa autogestita, come l’Orlando furioso – è anche la successiva “monumentale” Orestea, sette ore di viaggio alle origini della tragedia.

Motivo essenziale della tragedia è proprio il progressivo trasformarsi del mito e del senso dei miti, sia all’interno dell’opera di Eschilo, che nella relazione tra questa e le diverse epoche.
(Luca Ronconi, in Franco Quadri, op. cit., p. 200)

Bloccata al debutto romano “per la pretesa insicurezza del complesso di ascensori incorporato”, l’Orestea trionfa al Bitef di Belgrado nell’estate del 1972, dove vince il primo premio ex aequo con il Torquato Tasso diretto da Peter Stein, superando Yerma di Victor García e il Sogno di una notte di mezza estate di Peter Brook: Ronconi è in prima fila tra gli artisti che in quegli anni stanno rivoluzionando la regia e l’idea stessa di teatro.

Come in tutti i miei precedenti lavori, invece di puntare su una visione univoca del testo, preferisco organizzare lo spettacolo (e del resto è la lettura del testo stesso a suggerirlo), sulla compresenza di diverse interpretazioni: l’opera di Eschilo non viene considerata un blocco monolitico, ma, secondo il principio di discontinuità, un insieme disuguale che dia luogo a uno spettacolo scrupolosissimo, rispettoso del testo stesso ma fatto di tanti prismi, di dissimili frammenti, destinati a ricostruirsi in un tutto alla fine nella mente dello spettatore.
(ivi, p. 199)

Questa attenzione puntuale al testo – o meglio, a ogni singola battuta e parola, contro una lettura ispirata a un senso unificante dell’intera opera – è da sempre una delle caratteristiche del suo approccio al teatro di interpretazione. Il regista non è più il garante della coerenza e dell’organicità dell’opera, un partito preso destinato inesorabilmente a risolversi in un allestimento in cui i diversi piani (recitazione, gesti, scena, costumi, luci, musiche, luci, eccetera) vengono più o meno forzosamente armonizzati in una cornice unitaria. Al contrario, il regista e i suoi attori amano lavorare sulle zone d’ombra, sulle contraddizioni interne, sulle linee di frattura del testo e della rappresentazione, cercando di mantenere viva e pulsante la molteplicità (contraddittoria, irrisolta) dei significati. Come spesso accade in Ronconi, una lettura di questo genere impone quasi immediatamente l’invenzione di uno spazio; o meglio, di una serie di spazi.

L’Agamennone è intuito in uno spazio ancora magmatico, una zona cosmica, pressoché siderale; nelle Coefore l’azione si restringe entro l’ambito delle mura di una casa; mentre le Eumenidi vanno a situarsi nelle vie di una ipotetica città, preistorica come futura.
(ivi, p. 208)

Due anni dopo, a Parigi, per XX (La Roue) Ronconi occupa una palazzina con venti stanze. In ciascuno dei locali un gruppi di venticinque spettatori assiste ad alcuni frammenti del testo (scritto per l’occasione da Rodolfo Wilcock, avendo per tema un colpo di stato fascista), mentre nelle altre stanze si recitano in simultanea le altre diciannove scene. Poi la parete divisoria si apre e due stanze vengono unificate, e il meccanismo si ripete; alla fine tutte le pareti si alzano, in un’altra esplorazione della simultaneità delle azioni teatrali e del rapporto tra il testo, il personaggio e l’attore (in effetti, venti attori, metà italiani e metà francesi, che recitano nelle due lingue).
Nel 1971 Kätchen von Heilbronn di Heinrich von Kleist a Zurigo dovrebbe essere recitato su una piattaforma galleggiante sul lago, ma per motivi di sicurezza viene ricondotta in spazi più convenzionali. Passano gli anni e Ronconi non dimentica quel sogno acquatico: nel 1985, per Commedia della seduzione del prediletto Arthur Schnitzler, la scenografia di Margherita Palli utilizzerà “delle tavole scorrevoli, galleggianti sopra o intorno all’acqua” che invade il palcoscenico (Franco Quadri, “Panorama”, 31 marzo 1985).
Allestimento “impossibile” (e funestato dall’acqua) si rivela anche Utopia, meditazione sul tema del titolo a partire dalle commedie di Aristofane. Lo spazio scenico è una strada lunga cinquanta metri, tra le due gradinate su cui è sistemato il pubblico: la percorre una processione inesauribile di uomini, automobili e persino un aereo (tutti dipinti di ironico rosa…) in marcia verso un progresso forse illusorio. Lo spettacolo debutta nel 1975 alla Biennale Teatro di Venezia, che lo stesso Ronconi dirige per due vibranti edizioni, dal 1975 al 1977: in quegli anni passano in laguna con spettacoli e laboratori tra gli altri Jerzy Grotowski, il Living Theatre, Peter Brook, Robert Wilson, Meredith Monk…
Però poi la tournée che dovrebbe portare quella rosea Utopia nelle strade e nelle piazze (e nelle Feste dell’Unità) viene funestata da “traversie, contrattempi e disgrazie” causati soprattutto da “un cielo inclemente” (Cesare Garboli, op. cit., p. 144-45). Tanto è vero che dopo quell’esperienza Ronconi cercherà di evitare gli spettacoli all’aperto.
Negli anni successivi il regista è ideatore e artefice del Laboratorio di Progettazione Teatrale di Prato (con la complicità dell’architetto Gae Aulenti, anche in veste di scenografa). L’ambizione, più che auto-celebrativa, è auto-analitica. Si tratta di rifondare la grammatica scenica, a partire dai suoi elementi costitutivi: il tempo, lo spazio, il rapporto attore-personaggio e quello wittgensteiniano parola-pensiero, e – sullo sfondo – il rapporto del teatro con il pubblico e dunque con la città (anche se quest’ultimo aspetto resterà soprattutto a livello di intenzioni). L’impegno di Prato – la messa a punto di un metodo di lavoro destinato a riverberarsi negli anni successivi – si concretizza un memorabile trittico. La Torre di Hugo von Hoffmansthal (l’unico dei tre testi a essere rappresentato per intero) è ambientato in un ex stabilimento tessile, il Fabbricone, sul cui soffitto è stato riprodotto l’affresco che il Tiepolo ha dipinto nella reggia absburgica di Wurzburg: ne esce uno spettacolo-monstre che dura oltre dieci ore distribuite in due giornate, dove si esplorano tutti i possibili intrecci spaziali tra il pubblico e gli attori. Il Calderón di Pasolini unifica palcoscenico e platea del Teatro Metastasio come spazio destinato agli attori, costringendo gli spettatori nei palchi. Nelle Baccanti di Euripide – per 24 spettatori – tutti i ruoli vengono affidati a un’unica attrice, la straordinaria Marisa Fabbri, in una performance itinerante che attraversa ed esplora le stanze di un antico collegio.
Nel 1986 per Ignorabimus di Arno Holz, un altro testo interminabile (oltre 240 pagine), pressoché irrappresentabile e dimenticato d’inizio Novecento, sempre all’interno del Fabbricone, fa costruire dalla fida Margerita Palli una struttura scenografica in muratura, una sorta di facciata che si ribalta in un interno, con

materiali da costruzione come cemento, asfalto, brandelli di marmo, di stucco (…) per dare una scala che non è quella naturalistica, però l’impressione di più vero del vero.
(intervista di Gianfranco Capitta, “Westuff”, giugno-agosto 1986)

Questo spazio dentro-fuori, ambiguo, insieme vero ma non realistico, ospita una nuova maratona, più di undici ore filate (rispetto alle ventiquattro ore del 13 maggio 1912 che occuperebbe effettivamente l’azione della pièce). Ignorabimus si chiude con una trovata che avrebbe dato le vertigini all’inventore della teoria della relatività: minuto dopo minuto, accelerando o rallentando il moto delle lancette, gli orologi in scena adattano la loro velocità alla scansione dei tempi enunciata dal testo, che evidentemente non coincide con lo scorrere del tempo “reale”. A interpretare quello che è “il più naturalistico dei testi e insieme non lo è” sono quattro attrici (Marisa Fabbri, Edmonda Aldini, Franca Nuti e Anna Maria Gherardi) che si esibiscono in uno strepitoso tour de force, incarnando altrettanti anziani professori, ingoffite in abiti grigi e sfigurate da maschere e parrucche (con loro Delia Boccardo, cui tocca l’unico personaggio femminile). Peraltro Marisa Fabbri, generosa compagna di alcune tra le più spericolate avventure ronconiane, già nei Lunatici aveva interpretato un ruolo maschile, quello del governatore Vermandero.
Ronconi ricorre spesso allo scarto tra l’identità sessuale dell’attore e quella del personaggio, a esplicitare la convenzionalità del rapporto che li lega o per portare in primo piano certe ambiguità del testo. Nel 1996 fa interpretare il ruolo di Medea da un Franco Branciaroli vestito di una misera sottoveste nera. Nel 2003, al Teatro Farnese di Parma, porta in scena Peccato che fosse puttana di John Ford alternando due cast, uno di attori e attrici, l’altro di soli uomini.

Se faccio due versioni non è per farne una “come la facevano gli elisabettiani” con i ragazzi al posto delle donne ma perché, testo alla mano, mentre il rapporto tra Giovanni e Annabella [i due fratelli incestuosi protagonisti della tragedia, n.d.r.] è un rapporto chiaro, per niente ambiguo (si capisce benissimo cosa vogliono l’uno dall’altra, di che tipo di scambio o, meglio ancora, di non-necessità di scambio si tratti), i rapporti tra ciascuno di loro e i loro mentori – il Frate, la Governante – sono talmente ambigui che è difficilissimo capire se i personaggi maturi sono protettivi o se sotto le apparenze e i modi della protettività si nasconde invece la distruttività.
(intervista di Giovanni Raboni, dal programma di sala dello spettacolo)

In altre occasioni il casting crea uno scarto tra l’età anagrafica dell’attore e quella del personaggio, come nelle Tre sorelle, con attrici più mature rispetto all’età che Cechov aveva assegnato a Olga, Mascia e Irina.

Per accentuare il recupero di un tempo ormai svanito mi sembra legittima l’idea della non corrispondenza fisica delle tre protagoniste. Si tratta di un artificio drammaturgico, sulla scorta di parecchie indicazioni del testo. Il teatro di Cechov è pieno di ironia proprio perché lui mostra di saperne molto di più dei suoi personaggi: conosce in anticipo i loro tic, le loro manie, lo sviluppo del loro destino. Per mantenere queste sottigliezza ironica bisogna fare la stessa cosa con gli attori, informandoli un pochino di più sui personaggi, cosa che si può fare soltanto con una trasposizione, cioè leggendo il testo in modo da restituire quello che forse voleva comunicare ai suoi tempi.
(intervista di Donata Gianeri, “Stampa Sera”, 6 marzo 1989)

Nel 2002, quasi al culmine di questa sfaccettata esplorazione del tempo e dello spazio, Ronconi porta addirittura in scena l’infinito. L’idea di partenza è quella di mettere teatralmente a confronto – per innescare una feconda ibridazione – teatro e scienza, rifiutando le strutture drammaturgiche consuete (a cominciare dai testi che hanno gli scienziati come protagonisti), che riconducono la scienza entro i codici della rappresentazione; ma anche evitando le forme abituali della presentazione scientifica, come la conferenza.

Negli ultimi decenni, la drammaturgia ha dimostrato altre possibilità di fare teatro, per esempio attraverso lo spazio e la dilatazione (o la contrazione) del tempo che sono diventati delle figure teatrali, delle strutture drammaturgiche da usare, esattamente come il dialogo o il personaggio, che sono stati usati per secoli. Ne consegue la possibilità che un argomento, diciamo scientifico – ma potrei dire anche biologico, di alta finanza, economico -, può entrare in teatro non mascherato come il teatro tende sempre a fare, ma per quello che è, con le proprie asperità e difficoltà. Proprio da questo è nato il proposito di cercare di vedere se ci può essere un punto d’incontro a metà strada fra teatro e scienza che non sia tutto dalla parte del teatro o tutto dalla parte della scienza, o tutto formale tra virgolette e tutto divulgativo fra virgolette.
(intervista di Maria Grazia Gregori, dal programma di sala dello spettacolo)

Nasce così in un’altra vecchia fabbrica, alla Bovisa, nella periferia nord di Milano, Infinities, a partire da cinque testi saggistici dello scienziato John Barrow.

Volendo dare una struttura “infinita” allo spettacolo è stato indispensabile, necessario, trovare una soluzione spaziale e temporale che la riflettesse. Qui la situazione temporale è offerta dalla simultaneità, la spaziale invece della moltiplicazione degli spazi, da cui deriva non un teorema, ma semplicemente il fatto che all’interno dello spettacolo c’erano tanti spazi quante erano le sequenze. Ovviamente ciascuna di queste rimandava alle altre. E se, poniamo, come succedeva nella terza sequenza, il tema era quello della replicazione infinita, questa infinita replicazione era presente anche nello spettacolo dove le sequenze si ripetono per ben dieci volte. Ma siccome nel testo si parla anche di una possibilità di discontinuità e di “salti” della natura, le sequenze si ripetevano e il testo era ripetuto, ma in modi spesso differenti. Il movimento è la metafora del tempo e la rappresentazione del movimento è una delle metafore per rappresentare il tempo. In Infnities la sfida si è concentrata nella rappresentazione possibile dei rapporti fra tempo e spazio.
(ivi)

A volte le invenzioni ronconiane possono ricordare il gesto di un artista visivo. E’ quasi una installazione quella che realizza nell’estate del 2002, quando si misura per la seconda volta (dopo aver utilizzato il testo per un saggio per gli allievi dell’Accademia d’Arte Drammatica di Roma nel 1987) con Amor nello specchio di Giovan Battista Andreini. Con lo scenografo Marco Rossi lastrica corso Ercole d’Este, che corre davanti al Palazzo dei Diamanti, con una superficie – per l’appunto – specchiante, creando un colpo d’occhio abbagliante e vertiginoso. Perché al regista non interessa certo l’effetto-verità che si può ottenere ambientando lo spettacolo in uno spazio della quotidianità.

La commedia di Andreini, secondo me, soffrirebbe a essere rappresentata in una ambientazione “veristica”, in una “vera” strada o in una “vera” piazza. Sono altre le sue particolarità: se ne rispecchia meglio il carattere ponendola in un luogo più astratto: meglio le piazze italiane di De Chirico che non l’ambientazione realistico/popolaresca di tanto teatro italiano del rinascimento, e anche del Seicento.
(intervista di Gianfranco Capitta, dal programma di sala dello spettacolo)

Tutti questi exploit impallidiscono però di fronte a quello che finora resta il super-kolossal ronconiano, Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, allestito nella ex Sala Presse del Lingotto, il più famoso degli stabilimenti della Fiat (attualmente quello spazio fa parte del complesso fieristico torinese). E’ un momento chiave della storia di Torino: la scelta di allestire uno spettacolo in quel luogo crea un evento simbolico che segna la riconversione di una città industriale, automobilistica, al terziario.
Gli ultimi giorni dell’umanità è sì un testo teatrale ma pressoché irrappresentabile nelle sue duecentonove scene: per allestirlo, secondo lo stesso Kraus, sarebbe stato necessario “un teatro di Marte” e centocinquantasei ore distribuite in una decina di giorni.

Quando ho visto la sale presse del Lingotto mi è preso un colpo, con tutti quei pilastri… Mi sono detto: “Pazienza, non si può fare…”. Ma io Gli ultimi giorni dell’umanità volevo proprio farlo, da anni, anche se davvero non sapevo come. Una notte, viaggiavo in treno nel vagone letto Roma Termini-Milano, e mi dicevo: “Devo trovare qualcosa, qualcosa per cui venga naturale il movimento. Con tutti quei pilastri, bisogna fare uno spettacolo che si muova, altrimenti… Bisogna che ci sia un movimento continuo, per cui il movimento in qualche modo non sia ostacolato, qualcosa per cui quello non sia più un pilastro”. Avevo due alternative. Fare uno spettacolo mettendo il pubblico a sedere, ma non avrebbe funzionato. Ma se il pubblico fosse stato in piedi, ogni spettatore avrebbe visto tutti gli altri spettatori. Bisognava che il pubblico avesse un significato, che fosse un personaggio. E abbiamo adottato lo schema con il pubblico in mezzo, circondato da una specie di corona di macchine tipografiche. Oltre le macchine tipografiche, il campo di battaglia: il fronte ovest, il fronte sud, il fronte nord, il fronte est. Una mappa. Ho bisogno di immaginare una mappa, di generare una mappa dello spazio. Specialmente in uno spettacolo non frontale, dove non è possibile il dialogo. Come potevo farlo? La mattina mi sono svegliato con l’idea: se avessimo usato dei vagoni ferroviari, non sono nati per trasportare? E, se ci sono vagoni, ci sono binari.

Cosi le Ferrovie dello Stato posano un chilometro di strada ferrata, che collega di nuovo il Lingotto alla rete nazionale. I vagoni possono scorrere sui tre lati della sala, tutto intorno al pubblico, nel corso di quattro ore di strabilianti “effetti speciali teatrali”.

L’uso del pubblico come personaggio è un elemento imbarazzante, se dichiarato ostentatamente. Non lo è solo se fa parte di un processo naturale. Il pubblico deve sempre rimanere pubblico. D’altra parte, penso che il pubblico sia un personaggio anche quando è seduto in poltrona. Chi assiste allo spettacolo, lo condiziona esattamente, o quasi, quanto gli attori. Se qualcuno guarda uno spettacolo in mezzo a una platea distratta, è difficilissimo che resti concentrato. Se tutti si divertono, è probabile che le sue reazioni siano condizionate dalle risate altrui. O si uniforma o se ne distacca, ma non sarà più in un rapporto oggettivo con ciò che succede sul palcoscenico. Faccio un esempio. Guardavo il filmato degli Ultimi giorni dell’umanità in televisione e c’era una scena impressionante, un funerale. Non dico che le persone del pubblico dovessero rappresentare i parenti delle vittime, ma erano vicino a un feretro e sembrava che recitassero.


Per lo spettatore la serata al Lingotto non deve essere un normale spettacolo, ma un vero e proprio avvenimento.

Assistere a questo spettacolo vuol dire provare al massimo grado il gusto del teatro. Qui non si guarda una rappresentazione: la si visita, o meglio, la si attraversa. Come un evento, come una processione, una manifestazione di piazza, una mostra d’arte.
(intervista di Fiona Diwan, “Grazia”, 29 novembre 1990)

Quando Ronconi allestisce Gli ultimi giorni dell’umanità, nell’inverno 1990-91, sta per scoppiare la Prima guerra del Golfo (e forse inizia quella che in futuro chiameranno Terza guerra mondiale). La gioiosa festa popolare dell’Orlando furioso si ribalta in una inquietante denuncia dell’euforia bellicista, la stessa che ha portato all’“insensata strage” della Grande guerra e che ora spinge a nuovi conflitti. Oltretutto il Lingotto è un luogo della memoria, fino a poco prima teatro di lavoro, di fatica e di lotte operaie.

Quelli della Fiat ci hanno addirittura dato un camion, quello su cui entrava in scena Anna Maria Guarnieri. Era stato fatto lì, in quello stesso luogo. Anche i brani della musica dello spettacolo erano stati realizzati là dentro. Non c’era neanche bisogno di sentirla, c’era.

Un camion FIAT, modello 18BL, era stato ampiamente utilizzato nel corso della Prima guerra mondiale e nel 1934 a Firenze era diventato il protagonista di un altro spettacolo-kolossal, intitolato appunto 18BL, la velleitaria risposta del regime fascista al “teatro delle masse” della Russia sovietica (vedi Jeffrey Schnapp, 18BL. Mussolini e l’opera d’arte totale, Garzanti, Milano, 1996). A sottolineare il corto circuito tra attualità e memoria – mentre proprio in quei mesi la CNN si afferma grazie ai suoi servizi da Baghdad – è la riflessione sul ruolo e sul potere dell’informazione che Kraus aveva lucidamente (e profeticamente) individuato e che Ronconi rilancia con angosciante efficacia. Inutile aggiungere che come e più che in altre occasioni si scatena una feroce polemica, a cominciare dai costi dell’operazione, inconsueti per il teatro italiano.

Io sono un moralista. E allora dirò prima di tutto che mi scandalizzo se un teatro pubblico paga un attore due milioni a recita. Non se fa un’operazione culturale. Aggiungerò poi che di quei cinque miliardi [di lire, n.d.r.] soltanto una parte (un po’ più di due e mezzo) è spesa dallo Stabile [il teatro pubblico torinese che produce lo spettacolo, n.d.r.]: il resto arriva dagli sponsor, che per la prima volta sono intervenuti in modo davvero massiccio in un’operazione teatrale: con denaro o con materiali. (…) Una quantità davvero impressionante di enti pubblici e privati è intervenuta in modi diversi. Vuol dire che hanno creduto in quello che stavamo facendo. E allora era necessario dare una risposta grande. Non potevamo ricambiare la città, che ha investito molto in questa operazione, con uno spettacolo tradizionale, magari ben fatto, ma normale. Qui ci voleva l’evento. Che potrà non piacere, ma che sarà evento in ogni caso. Uno spettacolo di qualità non ci bastava, volevamo di più, il non-teatro.
(“Hystrio”, anno IV, n. 1; in generale sulla vicenda vedi Gli ottimisti e i criticoni. Le polemiche intorno agli “Ultimi giorni dell’umanità”, a cura di Oliviero Ponte di Pino, Il Patalogo 14, pp. 273-283)

L’elenco delle incursioni ronconiane nel “non-teatro” si potrebbe facilmente ampliare, magari sconfinando nel teatro musicale, dove da decenni lavora con continuità (e dove naturalmente si è misurato con una intelligente rivisitazione del ciclo del Ring wagneriano, tra Milano e Firenze, dal 1974 e il 1981). Tra tutte le invenzioni di Ronconi nel teatro lirico, basti un delizioso esempio che può dare l’idea del suo impatto eversivo su una tradizione piuttosto ingessata, Il viaggio a Reims di Rossini (1984), che narra l’attesa dell’incoronazione di Carlo X di Francia. Mentre sul palcoscenico si svolge lo spettacolo, con i diversi personaggi rossiniani che si ritrovano in un albergo dell’antica capitale francese per prepararsi alla cerimonia, all’esterno – nelle strade e nelle piazze intorno al teatro – inizia a muoversi il corteo reale, che gli spettatori possono seguire attraverso un collegamento video. Finché, dopo un breve percorso attraverso la città, il re e il suo seguito non fanno il loro ingresso dal fondo della platea, in carne e ossa.

Di fronte a questa autentica Wunderkammer registica, parlare di “natura semplice” può sembrare quanto meno azzardato. Ronconi pare piuttosto un artista in grado di creare e di governare la complessità, nell’approccio ai testi come nell’uso sapiente e anticonvenzionale dello spazio e del tempo; e di conseguenza nella gestione di macchine sceniche articolate e spesso in costante movimento, destinate – tra gli effetti collaterali – a creare nello spettatore una barocca meraviglia. Ma di fronte alle perplessità suscitate da certe sue scelte – perché sceglie testi dimenticati o eccentrici, perché ama invadere spazi non teatrali, perché raccoglie cast bizzarri, perché i suoi spettacoli sono spesso lunghissimi – la riposta è, appunto, di disarmante chiarezza.

Mi si chiederà perché non scelgo di fare dei testi diversi. Ma rispondo: perché la durata dev’essere il criterio determinante di uno spettacolo? Vogliamo vietarci di fare il secondo Faust o l’Orestea perché durano troppo? (…) Anche l’idea dello “spettatore medio” è una generalizzazione impropria: esso si forma sullo spettacolo medio. Personalmente non sono interessato a questo tipo di spettacolo.
(intervista di Renzo Tian, “Il Messaggero”, 5 marzo 1985)

Tramontata definitivamente l’epoca del teatro come rito culturale borghese così come quella dell’acculturazione nazional-popolare, c’è in Ronconi la consapevolezza che assistere a uno spettacolo teatrale debba essere in qualche mondo un evento, uno scarto rispetto alla quotidianità, ma anche e soprattutto un’esperienza diversa rispetto alla comunicazione dei mass media (di cui in ogni caso chi fa teatro deve tener conto). Che queste provocazioni vengano poi riprese e amplificate dalla stampa, è una conseguenza inevitabile. Ma l’importante è che l’esperienza dello spettacolo incida nella sensibilità e nella consapevolezza dello spettatore.

Al teatro che esiste oggi manca il carattere di avvenimento. Andando a teatro vediamo solo ciò che sta avvenendo sul palcoscenico. A me non basta.
(“Tuttolibri”, 1° dicembre 1990)

Insomma, l’eccezionalità ronconiana nasce da una insoddisfazione assai diffusa e immediata.
L’osservazione sfuggita a Garboli, finissimo critico letterario ma soprattutto straordinario rabdomante della personalità degli artisti, diventa ancor meno incongrua per chi ha avuto la fortuna di incontrare Luca Ronconi. Appena incrinato il muro della sua proverbiale timidezza (un po’ meno granitica, per la verità, negli ultimi anni) si viene subito contagiati dal suo entusiasmo per il lavoro teatrale, dalla gioia quasi infantile di poter inventare nello spazio scenico. E magari si scopre che le invenzioni più azzardate possono avere motivazioni semplicissime, o nascere da curiosità elementari, da quelle domande che non abbiamo più il coraggio di farci. Domande sul teatro, sulle parole che diciamo, sullo spazio in cui ci muoviamo, sulla nostra identità di persone e di personaggi, sulla realtà in cui viviamo, sulla nostra tradizione culturale… Domande che mettono in questione il nostro modo di essere e comunicare, le forme del linguaggio e quelle della rappresentazione.
Allora val forse la pena di scalare la “complicata semplicità” di Ronconi da un altro sentiero, più personale e meno legato ad aspetti esteriori, quasi esibizionistici. Per cominciare c’è la tranquilla naturalezza del suo rapporto con il palcoscenico, che affonda le radici nell’infanzia. Nato a Susa, in Tunisia, l’8 marzo 1933, torna quasi subito a Roma con la madre, che fa l’insegnante. Vanno molto spesso a teatro e la prima esperienza - volendo – è già rivelatrice.

Come spettatore sono stato precocissimo. La prima volta che sono stato a teatro avevo quattro anni, quattro anni e mezzo, l’ho già raccontato un sacco di volte. Mia madre mi ha detto “Andiamo a teatro” e mi ha portato a vedere una commedia. Me lo ricordo ancora perfettamente, anche se poi ovviamente non so se me lo ricordo davvero o perché me l’hanno raccontato, come accade nei ricordi infantili. Ritengo che la testimonianza sia un po’ romanzata, ma fondamentalmente attendibile. Non mi ricordo il titolo dello spettacolo, credo fosse una commedia di Gilberto Govi, però sono sicuro che ci fosse una gallina, che parlassero di una gallina. Mi hanno portato via prima della fine perché strepitavo: mia madre mi aveva promesso che la scena sarebbe cambiata, io invece durante l’intervallo avevo capito che non sarebbe cambiata perché c’era un pezzo di tappeto che sbucava là sotto il sipario e non si muoveva. Così ho detto: “Vedi, non la cambiano, la scena, perché il tappeto resta lì”. E ho iniziato a strepitare, finché non mi hanno portato via perché facevo troppo chiasso.
Quella è stata la prima volta che sono andato a teatro, poi ci sono tornato spessissimo, e ho continuato. E da sempre, anche da ragazzino, sapevo che sarei andato a finire in teatro. Non sapevo come avrei potuto farlo, se come attore o come regista, anche se all’epoca il regista non era una figura così definita. Avrei potuto fare lo scenografo, il costumista, il macchinista, non so, ma sapevo che quella era la mia calamita. Non ho mai avuto il minimo dubbio. La stessa cosa mi è successa per tutte le scelte fondamentali. Non ho mai avuto problemi di scelta, non mi sono mai chiesto: “Che cosa faccio?”. Sulle due o tre decisioni fondamentali – che rapporti avrò con la gente, quale sarà il mio lavoro, quale sarà la mia vita affettiva – non ho mai avuto dubbi. Certo, in questo modo perdi tantissimo, perché perdi tutto quello che escludi, però eviti tanti conflitti con te stesso. Non ho trovato la mia identità attraverso la difficoltà della scelta, ma attraverso una determinazione: “Andiamo lì, e poi vediamo”.

Insomma, la vocazione è ineludibile, favorita oltretutto dall’ambiente familiare.

Avevo tantissimi amici e parenti. Mia madre aveva sette tra fratelli e sorelle, e tantissimi avevano interessi letterari o teatrali. Quella di cui proprio ero pazzo era una mia cugina, Maria Teresa, più grande di me di una quindicina d’anni, che faceva l’attrice. Mi piaceva moltissimo perché subito dopo la guerra si era iscritta a questa cosa nuova, l’Accademia d’Arte Drammatica. Ci volevamo bene, e attraverso di lei, quando ancora facevo il liceo, ho cominciato a conoscere i suoi compagni di corso, per esempio Nino Manfredi l’ho conosciuto quand’ero ragazzino. In quell’ambiente mi sono subito trovato a mio agio. Non sono entrato nel mondo del teatro grazie ai miei genitori – mia madre era professoressa di liceo – ma non l’ho mai visto come un mondo estraneo, mitico: era una cosa che si poteva fare, invece di fare l’università avrei potuto fare l’Accademia. Così appena finito il liceo Maria Teresa mi ha fatto la spalla all’esame d’ammissione e sono entrato in Accademia.
Fino al mese prima ero un adolescente musone, buio. Non mi ricordo quasi niente di quel periodo, ma tutto sommato non sono stato un adolescente sereno, avevo grossi problemi che non conoscevo. Quasi da un giorno all’altro, entrando in Accademia sono diventato allegro, mi sono sentito veramente bene e ho cominciato ad avere memoria. In genere ho pochissima memoria, se devo ricordare qualunque cosa faccio sempre confusione, non mi ricordo niente esattamente. All’improvviso era come se avessi trovato il mio posto.

Il giovane allievo attore non ha ancora finito l’Accademia (si diplomerà qualche mese dopo), quando nel 1953 Luigi Squarzina lo lancia come protagonista della sua commedia Tre quarti di luna (una versione dell’incontro tra l’attor giovane e il regista si può trovare in Luigi Squarzina, Il romanzo della regia. Duecento anni di trionfi e sconfitte, Pacini, Ospedaletto (Pisa), 2005, ma diverge in alcuni particolari dalla memoria dell’altro protagonista). Malgrado il successo in quello spettacolo e nei successivi, quella d’attore non è la sua vera vocazione: quando si tratta di andare in scena avverte un crescente disagio.

Come attore ho cominciato molto bene, e poi ho via via perso quota, sia professionalmente sia personalmente. Sentivo che molte delle caratteristiche necessarie a un attore, a me proprio mancavano. Per esempio a un certo punto mi è cascato un dente, e tutti mi dicevano: “Ma guarda, Luca, che così non puoi fare l’attore!” La rappresentazione del sé che è indispensabile per un attore, io non l’ho mai avuta. Probabilmente avrei potuto fare l’attore in un altro tipo di teatro, diverso da quello in cui sono venuto fuori, un teatro in cui il rapporto con il pubblico che è lo stesso che ho adesso, un rapporto di disponibilità reciproca e di libertà. Quando facevo l’attore, ho sempre pensato che l’interferenza della mia identità con il personaggio fosse un problema. Al contrario, una delle cose che mi piace nel lavoro del regista è che posso distribuire la mia identità in tante figure.

Questa conoscenza profonda, anche pratica, dall’interno, del lavoro dell’attore è uno dei suoi atout di regista. Ma anche qui curiosamente emerge una frattura, una discrasia, il conflitto tra due prospettive.

In Accademia la figura di riferimento era Orazio Costa Giovangigli, che mi ha seguito fin dall’inizio con molta attenzione. E’ stato anche un grandissimo maestro di recitazione, ma più di tecnica che di procedimenti interpretativi. Ecco, questa è una cosa che mi è rimasta, non perché Orazio Costa la insegnasse, ma la si ricavava dal suo modo di procedere: riuscire a distinguere tra l’iter interpretativo e la restituzione nell’esecuzione. Sia da parte dell’attore sia da parte del regista, c’è un’invenzione che può essere legittima o arbitraria, innovativa o convenzionale, e questo è un processo interpretativo. E’ un momento che accomuna la figura dell’attore e quella del regista, anche se poi quest’ultimo deve estenderlo a tutta una rete di rapporti e di sguardi, mentre l’attore si limita a definire il proprio percorso.
Ma una perfetta esecuzione – nel senso di prestazione – può anche mascherare una pessima interpretazione, e viceversa. E’ possibile mascherare gli errori di interpretazione con un maquillage anche perfetto, attraverso il virtuosismo oppure la personalità dell’interprete, insomma, qualcosa che appartiene esclusivamente all’attore. Ma può accadere il contrario: una mirabile lucidità interpretativa può essere danneggiata dall’esecuzione, da una tecnica inadeguata. Di questo mi sono reso conto più avanti, quando ho cominciato a dover fare i conti anch’io con questi problemi. Ma se tu sai questo, ti aiuta nel lavoro perché sai che si tratta di mettere in equilibrio due cose di cui una tende a divorare l’altra. Come regista puoi barare, come attore un po’ meno. Persino come spettatore puoi barare, ossia puoi decidere di farti piacere una cosa, mettiamo l’interpretazione, ed essere meno esigente sull’altra, l’esecuzione, o viceversa. Insomma, si apre una rete di possibilità in cui è divertente muoversi.

Ecco, il divertimento: quella di Luca Ronconi sul palcoscenico è autentica felicità creativa. E’ curiosità, è scoperta, è anche gioco – ma un gioco da prendere drammaticamente sul serio, come testimoniano la sua ossessione per il lavoro, la sua dedizione totale, quasi maniacale, e anche le sue memorabili sfuriate durante le prove.
Allora è opportuno accantonare l’elenco delle “eroiche e teatrali imprese” ronconiane. Anche perché nel corso della sua carriera ha firmato numerosi spettacoli meno avventurosi, più ancorati alle abituali forme teatrali – insomma più “normali”. Ha inventato persino allestimenti di ascetica essenzialità: esemplare La serva amorosa di Carlo Goldoni (1986), protagonista Annamaria Guarnieri, dove la scenografia è ridotta a un cumulo di vecchi mobili che, mossi virtuosisticamente sul palcoscenico, forniscono la cornice a una recitazione crudamente realistica.
Va anche notato che quella di Ronconi è una carriera straordinariamente produttiva, condotta a ritmo incalzante, con allestimenti di grande impegno e sempre ad altissimo livello, che conta dal 1963 al 2005 una novantina di regie teatrali, e dal 1967 al 2005 circa settanta regie liriche. E’ anche a causa di questa prolificità che diventa arduo esplorare, storicizzare e studiare un percorso fin troppo ricco e complesso. Senza dimenticare che, per rendere più difficile l’impresa, Ronconi non ama parlare di sé e dei propri spettacoli.

Onestamente non ricordo niente dei lavori già fatti. Ciò che succede dopo la prova generale non mi appartiene più, non è più roba mia. Posso solo raccontare ciò che è venuto fuori durante le prove.

Tuttavia, proprio a partire da questa super-produzione, è possibile tracciare una mappa dei territori prediletti da Ronconi, e individuare così alcuni dei filoni su cui esercita la sua “semplicità”. La ricognizione più immediata riguarda le scelte di repertorio. Anche in una teatrografia così vasta e variegata, è possibile cogliere affinità e idiosincrasie.

La seconda parte di questo testo in ateatro95.


 
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