ateatro 97.11
Speciale Torino 2006: su Ascanio Celestini, Luca Ronconi e non solo
Una lettera aperta a Oliviero Ponte di Pino (e a ateatro)
di Nevio Gambula
 

Caro Oliviero,
io parlo ormai una lingua minoritaria; ogni mia frase, anche la più diplomatica, palesa il mio distacco dai discorsi comuni. Conversare, in queste condizioni, è frustante; espone a una miriade di malintesi, per chiarire i quali bisognerebbe scrivere almeno dieci libri. Da sempre dico che il teatro di narrazione è il nuovo conservatorismo, o che Ascanio Celestini è penoso (teatralmente parlando). Tutti mi guardano sgranando gli occhi, come se venissi da un altro mondo. E non conta quanto io sia in grado di articolare su ciò un discorso ampio e con riferimenti precisi alle tecniche e alla storia del teatro; conta di più il fatto che, dicendo quello, intacco un equilibrio. Ciò mi rende inquieto. È come se, svelandomi, io mi esponga alla lapidazione. La voce può essere tranquilla e cordiale (e la mia solitamente lo è), ma è come se stessi delirando. Io, poi, ci metto del mio, coltivando una certa testardaggine: mentre tutti trovano sensate le ragioni di Israele al pari di quelle della Palestina, io insisto nel dire che solo i palestinesi hanno ragione. Tant’è che le mie posizioni sono spesso considerate aride, banali, persino irrispettose, abitate da utopie di altri tempi, già fatte naufragare dalla storia. Ma tutto sommato, al di là del tormento momentaneo, faccio finta di niente; in fondo, la mia inattualità è voluta. Certo che, quando si vive con questa consapevolezza, si diventa insofferenti a tutti i compromessi, si diventa arroganti, inconciliabili, sgradevoli; si diventa ancora più soli. E si corre il rischio di esagerare. Ma, davvero, non avendo io terre promesse da indicare, né, tanto meno, posizioni da difendere o da conquistare, resto felice nel mio estremismo, considerandolo plausibile oltre ogni castigo. In ciò che dico c’è una oggettività che trascende il mio velleitarismo: c’è una verità (una verità faziosa, magari, ma certa, o comunque verificabile). Chi la riconosce potrà trovarmi disposto alla conversazione, per gli altri solo sputi. Non mi importa delle ricadute, anche in termini di ostracismo, per quello che dico apertamente; non mi è mai importato, né mi importa ora che sono fuori da ogni possibile salvazione. Continuerò apertamente a dire che il teatro di Ascanio Celestini è vergognosamente e scandalosamente reazionario; se mi verrà dato modo di articolare un discorso compiuto, lo farò con cognizione di causa, altrimenti lo farò lo stesso.

Ho scritto, nel forum, diverse cose legate all’affaire Ronconi, le più delle quali fraintese. Non ho mai pensato che l’artista debba stare fuori dal mercato; né che non debba avere a che fare col denaro. Non l’ho mai pensato anche perché, molto semplicemente, non può, essendo la nostra società “una immane raccolta di merci” e basata sulla “mediazione del denaro”. Credo invece che l’artista debba disporsi per non subire il mercato. Ma di ciò ho già scritto in diversi post, cui rimando. Sulle virtù del mercato (e delle “istituzioni”), probabilmente la pensiamo in maniera diversa. Immagino che le tue posizioni non siano molto diverse da quelle che Andrea Porcheddu esprime nella sua risposta al sottoscritto. Per lui “mercato” vuol dire “produrre economie”, e quindi anche opportunità; per me vuol dire prima di tutto produrre esclusione. Chi ha ragione? Probabilmente entrambi; la differenza dipende solo dal punto di osservazione che adottiamo. Intanto alcune precisazioni. Per prima cosa, con “mercato” intendo nient’altro che il meccanismo complesso che regge la produzione e la distribuzione di spettacoli, compresi gli aspetti di scambio “politico”; nel mercato teatrale la “libera contrattazione” convive con il sostegno statale, la ricerca di sponsor con il supporto di istituzioni locali, l’arte di arrangiarsi con la fortuna di disporre dei canali “giusti”. Inoltre, com’è risaputo, si tratta di un mercato bloccato, essendo “scambi” almeno i ¾ dei movimenti, molti dei quali avvengono tra i fortunati che hanno accesso ai finanziamenti ministeriali; gli altri si giocano quel che resta. È ovvio, quindi, che il mercato non può accogliere tutto ciò che viene prodotto. Su 100 spettacoli diciamo che ne accoglie 20, pertanto altri 80 restano tagliati fuori. Non è, allora, il mercato, anche questo gioco al massacro tra esclusione e inclusione? E gli inclusi sono davvero i “migliori”? Quali criteri stabiliscono chi è dentro o chi è fuori? Chi stabilisce i criteri? Ormai tutti i teatri fanno a gara per ospitare Ascanio Celestini … Perché nessuno (o quasi) vuole ospitare Danio Manfredini? Insomma, se è illusorio scagliarsi contro il mercato tout court, è altrettanto illusorio non sottolinearne l’assoluta incapacità di fare emergere quel teatro di cui oggi avremmo bisogno. È una contraddizione interna all’idea stessa di mercato, il quale non può che influenzare spietatamente le merci che lo abitano, chiedendo ai produttori (pena il crescere dell’invenduto) di adeguarsi alla sua lingua principale, che è una lingua consolante, gradevole, riconoscibile, non inquietante, svuotata di ogni critica e di ogni ferocia linguistica. Non ti nascondo che trovo questo atteggiamento remissivo (questo adeguarsi alla lingua del mercato) il problema più grosso del teatro contemporaneo. Chi oggi produce spettacoli non rischia, mira al garantito (spettacoli sicuri da piazzare, nomi di richiamo, testi classici, stile para-televisivo, musical), adeguando i modi di essere della scena (la sua “lingua” specifica) alle richieste poste dalla necessità di essere presenti sul mercato. La crisi del teatro, allora, è anche il logorio della sua lingua, incapace di andare oltre il semplice adagiarsi a ciò che prescrive la norma. Oggi tutti, in un modo o nell’altro, omaggiano questa lingua imposta, a partire dal privilegio dato al “testo” e alla “messa in scena” (anziché al corpo e all’evento), per non dire poi della recitazione (naturalistica, nella stragrande maggioranza dei casi, quando non disdicevole anche solo come livello tecnico) o dei principi della “coerenza narrativa” e dello “svolgimento lineare”, come se la nostra migliore “ricerca”, in parte già storicizzata (la tradizione del nuovo), non sia mai nemmeno esistita. Perché? Perché le codificazioni giunte sino a noi non sono verificate, ma accettate supinamente come se non esistesse alternativa? Perché il teatro contemporaneo non la smette di agitare il suo fastidioso “servilismo”, la sua “vocazione cortigiana”? Come dice Franco D’Ippolito nel suo intervento nel forum, il teatro è insieme “arte e impresa” … Io credo che i teatranti abbiano dato troppo peso al secondo termine, accantonando quasi del tutto le attenzioni riposte al primo (è più comodo, economicamente parlando, accettare la lingua media – quella che insegnano nelle scuole di teatro, per capirci – che sperimentare una lingua grezza, informe, ancora non codificata). Certo, una serie di concause hanno determinato questa situazione, a partire dall’irrisolta crisi economica. È facile constatare il dirottamento di ingenti risorse dall’ambito sociale (scuola, sanità, servizi, etc.) a quello industriale; ciò ha ridotto le disponibilità finanziarie per la cultura. E ha aperto una trasformazione, anche antropologica, negli abitanti di questo mondo particolare: ha fatto emergere la cultura dell’imprenditorialità diffusa. Metamorfosi dovuta quindi alla necessità di correre dietro le poche risorse messe a disposizione e alla necessità di arrivare prima di altri, visto che non sono sufficienti per tutti. Poteva, il teatro, restare immune da questa ideologia della competizione? Non poteva, e non potrà salvarsi neanche domani; anche perché, almeno nell’immediato, a questa ideologia non c’è scampo, e proprio perché è espressione di un meccanismo ben più profondo, che è prima di tutto economico, e che è diventato culturale senza che voci discordi si siano levate (quanta responsabilità ha su ciò la “sinistra”?). Oggi il teatro è questo fracasso … E il mercato è la causa prima di una situazione ormai insostenibile; è la causa reale della chiusura di spazi d’azione di un teatro “altro”; è il vero movente dell’attuale crisi … Credo veramente che la situazione odierna sia giunta ad un punto di non ritorno, dove ogni tentativo di “riformare” il teatro è destinato a fallire. O si avrà la forza di ripensare in termini radicali (oserei dire sovversivi) se stessi e il proprio stare al mondo, o si è destinati ad essere parte di un ingranaggio che è stritolante, che non può, per come è fatto, che riportare all’ordine ogni escrescenza (o lasciarla marcire ai margini). Viviamo insomma una situazione che vede il sistema-teatro svilire costantemente il prodotto teatrale a mero intrattenimento dopo-lavoristico, avanzando ai teatranti richieste “al ribasso”, dove ogni ripensamento delle tecniche e delle gerarchie dei codici è bandito. In questo contesto, c’è chi si adegua e c’è chi si rivolta. Ascanio Celestini per me si adegua; Ronconi?

Per anni mi sono tenuto lontano dagli spettacoli di Ronconi. Ne ho visti tanti, non ne ricordo nessuno. Mi sono clamorosamente addormentato ad una replica di Strano interludio, sono uscito a metà dello spettacolo L’uomo difficile, ho trovato Gli ultimi giorni dell’umanità una estetizzazione qualunquistica dello splendido testo di Karl Kraus. Certamente il suo è un lavoro di alta perizia e qualità, ma ben oltre la mia sensibilità. Insomma, Ronconi non rientra nell’idea di teatro che mi sono fatto, e dunque non posso amarlo. E poi non mi basta più che uno spettacolo sia “bello” o di qualità eccelsa; non credo insomma che bastino spettacoli “di qualità” per mettere in crisi la società dello spettacolo; anzi: questi spettacoli, nel momento in cui si rivolgono ad un pubblico preciso (gli abbonati degli stabili, quel che resta della borghesia intellettualizzata, il ceto medio di centro-sinistra), e dunque sono parte di una data modalità produttiva e distributiva, non fanno che confermare, di fatto rafforzandolo, quello stesso sistema che vorrebbero trasformare. Accettare le regole del gioco senza aprire momenti di scarto (senza ribellione, direbbe Artaud) è fare il gioco di chi determina quelle stesse regole. Tutto ciò non mi interessa più. Lo trovo noioso e servile (e su ciò, per lo meno nel fondo, più che nello stile, condivido la posizione espressa da Fofi nell’ultimo numero de Lo straniero, apparsa anche nel forum). Ora, Ronconi è definito da Andrea Balzola (articolo sul Progetto Domani nel numero precedente) come “uno dei pochi resistenti”. Trovo questa definizione alquanto bizzarra. Mi chiedo: a cosa “resiste” Luca Ronconi? Da quanto mi è dato di sapere (e invero il vocabolario mi viene in aiuto), resistente è colui che, opponendosi ad una azione contraria, conserva le sue caratteristiche. C’è qualcuno o qualche istituzione che sta impedendo a Ronconi di fare il suo teatro? Sinceramente, non mi pare proprio; mi pare anzi che il regista Luca Ronconi goda di privilegi che nessun altro in Italia può vantare. Definirlo “resistente” è davvero esagerato. Resistenti sono semmai quei teatranti che quotidianamente fanno fronte allo scadimento di quest’arte senza neanche disporre dell’immenso potere (e scrivo proprio potere) di cui invece dispone Ronconi. È ormai diventato facile resistere al clima di inciviltà creato dal berlusconismo; lo fanno un po’ tutti, anche Montezemolo (e ho detto tutto). Ma come si fa – mi chiedo, sapendo di rivolgere una domanda probabilmente senza risposta – come si fa, dicevo, a rendere autonomo il momento della scena dal contesto organizzativo in cui sorge? È sensato – teoricamente, politicamente, eticamente – separare il momento della produzione da quello del prodotto realizzato? Se Ronconi, con il suo comportamento (e il comportamento, per un materialista come me, conta ben più di mille proclami), aderisce, approva, sottoscrive, esprime consonanza, si adatta, è conciliante con quel sistema organizzativo che è espressione del patto sociale che rende il teatro quello che è, mi chiedo: non siamo di fronte ad una grande ambiguità? Davvero è sufficiente che Ronconi affronti temi “di sinistra” per non renderlo parte dell’establishment? Il teatro non è soltanto “linguaggio”, è anche “sistema”; davvero si pensa che il momento dell’organizzazione, in casi come questi, sia neutro? E se non è neutro – e immagino che per te non lo sia – come si fa a sostenere una organizzazione che, nel mentre permette a Ronconi di realizzare i suoi progetti, ne costringe all’angolo altri cento? Lascio in sospeso queste domande, essendo mia intenzione dire a questo punto qualcosa in merito all’editoriale del numero 96 di ateatro, che ho trovato leggermente indigesto.

L’editoriale fa chiaro riferimento alla discussione che “divampa” nel forum in merito al “Ronconi olimpico”; si rivolge ai partecipanti con toni tutt’altro che teneri, al limite dell’irrisione: “sfoghi” e non “veri contributi”, “vuoto moralismo”, “squittii da verginelle” … Ora, non ti nascondo la perplessità per questo modo di impostare la cosa, senza per altro “entrare nel merito”, non dicendo cioè apertamente a chi vi riferite. È automatico, per il lettore del forum, individuare il bersaglio polemico principalmente nel sottoscritto, non foss’altro perché sono colui che si è esposto più di chiunque – e col proprio nome – nella critica del progetto ronconiano. Del resto, se così non fosse vi sareste presi la briga di distinguere ciò che è solo insoddisfazione esibita, peraltro legittima, da ciò che è invece chiara posizione politica (e la differenza, nel forum, è ben riconoscibile). Un indizio chiarificatore di questo sottinteso è là dove dite che non si è trattato di spettacoli “all’insegna dell’arte per l’arte”, che è guarda caso una delle critiche rivolte a Ronconi nella mia lettera aperta, pubblicata nel forum. Ma tant’è; mi tengo il sentimento di insofferenza e vado avanti lo stesso, sottolineando, anche qui, quella difficoltà di comprendersi di cui dicevo all’inizio. La questione Ronconi è una questione, per quanto mi riguarda, di politica culturale; il teatro c’entra perché è l’oggetto materiale con cui questa politica si è evidenziata, ma solo per questo. Nel primo punto dell’editoriale difendete la scelta fatta dallo Stabile di Torino di assegnare la direzione dell’impresa teatral-olimpica a Ronconi; chi meglio di lui (“il miglior regista attualmente in attività”) potrebbe assumersi questo compito? In pratica, dite che nel momento in cui questo evento è dato, e non ha potuto prendere una piega diversa, magari come quella da te proposta nella famosa lettera firmata con Mimma Gallina, tanto vale sostenerlo, non sia mai che qualcosa di decisivo per il teatro contemporaneo finalmente sorga. È un atteggiamento che non mi convince. Mi ricorda molto quei distinguo allucinanti di chi, opponendosi a parole alla guerra contro la ex Jugoslavia, continuava a partecipare al governo per immettere germi di pacifismo (e nel mentre i “nostri” aerei bombardavano città e treni e hanno smesso di farlo soltanto quando la NATO ha ritenuto opportuno farlo). Se l’evento è criticabile nelle sue premesse, perché accettarlo quando ha luogo o è terminato? Sono cambiate le premesse? Gli esiti prevedibili erano tali da aprire una speranza per risolvere la crisi del teatro italiano? Nessuno potrà mai smentire adeguatamente il fatto che l’evento-olimpiadi ha avuto come centro fondante non lo sport o la competizione tra pari, ma il profitto. Attenzione: io dico “profitto” perché provengo da una cultura ben precisa, ma possiamo definirla, se preferisci, “esagerata presenza dei marchi economici”, come ha fatto un telecronista durante la finale del pattinaggio artistico. Sono solo due modi diversi di dire la stessa cosa; di dire cioè che lo sport è solo la maschera con cui si nasconde una essenza ben diversa. In questo contesto, nel contesto di una olimpiade che è diventata nient’altro che una occasione di business, qual è stato il ruolo delle “olimpiadi della cultura”? Vedi, Oliviero, queste domande così generali sono valide anche “a bocce ferme”; anche perché potrebbero, se se ne discutesse realmente, permetterci di evitare di cadere nelle stesse trappole domani, quando altri eventi di questo tipo verranno proposti. Io mi sento in diritto, anche oggi, ex post, di criticare l’impianto ideologico che regge quella operazione, così come mi sento in diritto di criticare la Bossi-Fini nel suo impianto di base senza dover per questo entrare nel merito dei risultati (che è un lavoro certamente da fare, ma non capisco perché stabilire una gerarchia così netta e escludente tra i due momenti). Ti dirò anzi che mi preme di più affrontare questa questione in termini politici che non “entrare nel merito” degli spettacoli ronconiani (d’altra parte, rifiutandone le premesse, e non piacendomi affatto i suoi spettacoli, trovo davvero poco interessante discuterne). Insomma, per quanto mi riguarda, più che confermare Ronconi come “il candidato numero uno”, sarebbe stato più opportuno scegliere di astenersi: nessun candidato sarà mai il nostro candidato. Questa posizione è uno “squittio da verginella”? E anche se fosse? Che cos’hanno di così deprecabile le vergini? Pentesilea lo era, e strepitava con la voce anche a costo di mettere in crisi il suo stesso popolo; ciò non toglie che era ugualmente regina e grande amante … In sintesi, chiamali squittii, chiamalo se vuoi facile estremismo, chiamalo come credi; per me è solo il nucleo di una posizione che reputa eticamente più rilevante, in questi che sono tempi di decadenza generalizzata, non partecipare al gioco dei compromessi con l’imbarazzante società dello spettacolo.

Un salutone,
Nevio Gàmbula


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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