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Dopo la Tragedia Endogonidia
Una conversazione con Romeo Castellucci
di Andrea Lanini
 

“La tragedia opera un inganno, per cui chi inganna è più giusto di chi non inganna e chi è ingannato è più sapiente di chi non è ingannato”, diceva il retore Gorgia. La grande invenzione del genere tragico, fondamento della cultura occidentale, è l’inganno: attraverso di esso, e per il fatto di rimanere un problema aperto, insuperabile ma anche imprescindibile, la tragedia ha chiuso le porte alla componente rituale e mitica che apparteneva alla sua stessa genesi, estromettendo la coscienza dell’Occidente dalla possibilità di parlare agli dei. Dopo quella cesura, il teatro ha cercato di ricreare la connessione tra la dimensione umana e quella divina attraverso delle partite truccate. Nonpertanto, come Sisifo o Tantalo, continuiamo a metterci alla prova e a rinnovare il nostro supplizio, e attraverso gli slanci dell’arte cerchiamo i tasselli mancanti di un mosaico che possa essere rivelatore.



Nelle dinamiche della tragedia niente è mai stato puro o mistico: purezza e misticismo sono stati sacrificati sull’altare di un’urgenza diversa e lontana i cui esiti estremi affluiscono inevitabilmente nella sconfitta di qualcosa o qualcuno. Il posto del mito è stato usurpato da una riflessione sul mito in cui la corruzione è sempre stata presente, una corruzione che ha permesso alla tragedia di guardare verso il basso e parlare all’uomo – a nome di tutti gli uomini – della irrimediabile sproporzione esistente tra la miseria dei suoi mezzi e la lontananza di quelle verità cui la sua volontà oserebbe anelare, annunciando e beffardamente motivando l’inevitabile insuccesso dell’impresa. Da qui il sorgere di un momento di crisi, il fondarsi di un ordinamento nuovo e straordinariamente fertile che a partire da Eschilo, Sofocle ed Euripide non ci permette di rinunciare a interrogare, a cercare di svelare il mistero della sua natura e del suo svolgersi: una ricerca salutifera anche se non salvifica, a patto che l’indagine venga compiuta senza la velleità di voler trovare una risposta universalmente valida, perché essa non esiste.



Il cammino che fu percorso dai drammaturghi e dai filosofi antichi continua oggi rimbalzando sulle stesse inquietudini. La Socìetas Raffaello Sanzio da sempre lascia orbitare intorno al teatro antico le fondamenta della propria creatività: il mollusco Amleto e la sua volontaria involuzione autistica che trasforma il teatro in prigione del linguaggio, Masoch e la sua esplosione anarchica fatta di aggressività viscerale e animalesca, Lucifero e la sua condanna al “poter solo ridire” diventano, attraverso l’arte della Socìetas, altrettante anarchie che in forme diverse riproducono e ripropongono il senso della tragedia e il segno della sua eterna modernità; baluardi instabili e allucinati intorno a cui si condensano le nebbie provenienti dall’indagine sul mito e dalla riflessione su ciò che rimane dopo la sua caduta.



Nel 2002 la Raffaello Sanzio ha dato vita ad un’avventura grandiosa, la Tragedia Endogonidia: 11 Episodi (rappresentati con successo in tutta Europa) che racchiudono altrettanti “luoghi della mente” in cui, come nella tragedia, il genere umano si interroga sulle proprie patologie con la speranza di trovarvi la cura. Un lavoro “che si genera dal proprio interno” per far scaturire una riflessione sul significato dell’incertezza dell’esistenza, e che rappresenta un momento fondamentale dell’evoluzione del nostro teatro.
Il ciclo della Tragedia Endogonidia è stato un imponente laboratorio teatrale che per più di 3 anni ha portato la Raffaello Sanzio di paese in paese, una fucina in perenne fermento e autoalimentata dai suoi stessi stimoli in cui le esperienze passate – come gli esperimenti nati sull’idea di sviluppare una scena capace di riproporre la violenza e gli strappi emotivi che nello scorso secolo sconvolsero le arti visive – sono state convogliate all’interno di un unico tragitto, e che ha visto sorgere dalle tappe del suo percorso una quantità enorme di materiali – immagini, figure, corpi, luci – che spesso hanno finito per pretendere una propria autonomia, un’evoluzione parallela e indipendente. Nel Ciclo, alcune cose del passato sono state abbandonate, altre sono tornate in forme nuove, altre ancora si sono avviluppate intorno alle zone di contatto tra mezzi espressivi diversi, alimentandosi del loro stesso attrito. Il ciclo filmico della Tragedia Endogonidia, le Crescite e il concerto The Cryonic Chants rappresentano tre nuclei che, come propaggini ormai troppo vitali per continuare a essere dipendenti dalla loro origine, hanno dirottato la loro orbita, fino ad adagiare su processi creativi “altri” la testimonianza di ciò che continua a legarli al Ciclo maggiore: i nodi che accomunano qualsiasi esperienza umana, il porsi delle domande senza risposta e il non poter rinunciare a interrogare la vita sui perché di una tragedia in cui ognuno è costretto a confrontarsi con il suo ruolo. La Socìetas Raffaello Sanzio ha presentato questi tre lavori durante il suo appena concluso passaggio in Toscana: il ciclo filmico, realizzato da Romeo Castellucci grazie alle memorie video di Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti, è arrivato al Santandrea Teatro di Pisa il 9 marzo, la V Crescita è stata ospitata dalla palestra del Liceo Scientifico U. Dini di Pisa il 10 e l’11 marzo, il concerto è andato in scena a La Città del Teatro di Cascina il 26 marzo. Prima dello presentazione del ciclo filmico a Pisa abbiamo chiesto a Romeo Castellucci di raccontarci la nascita di questo progetto e di quelli che il gruppo avrebbe presentato nei giorni seguenti.


Il ciclo filmico nasce non come documentario, ma come una “memoria” che utilizza il linguaggio del video e che è stata ricomposta da Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti, due artisti il cui lavoro ci è molto vicino. Tra di noi si è creata un’affinità rara che a volte capita tra gli artisti. Un’altra rarità, ma ancora più importante, è quella del rapporto che si è creato con Scott Gibbons. Sono intese difficili da spiegare. Abbiamo affidato allo sguardo di Cristiano e Stefano questa ricostruzione che poi, ben presto, ha finito per diventare autonoma. Oggi per noi il ciclo filmico ha una dignità completa, anche se il materiale di partenza rimane assolutamente legato alla Tragedia e agli spettacoli teatrali. Esso può essere visto autonomamente, senza provare nessuna nostalgia e senza sentire il bisogno di riferirsi all’archetipo originario.

Il primo Episodio della Tragedia Endogonidia, a Cesena, è stato filmato direttamente da te…

Sì, l’Episodio I di Cesena l’ho documentato io, con l’idea di riprendere i primi passi della Tragedia. Poi, in base a questa esperienza, ci siamo accorti che poteva nascere un lavoro interessante. Dall’Episodio II in poi Cristiano e Stefano hanno continuato a riprendere gli spettacoli.

Che cosa hai pensato osservando i video che mano a mano nascevano dalla Tragedia?

Mi è venuto fatto di riflettere sull’azione deformante della memoria. Per paradosso, tra il ciclo filmico e l’esperienza dello spettatore durante gli spettacoli c’è una sostanziale vicinanza. Nel senso che attraverso la deformazione dello scorrere degli eventi, attraverso le differenze che il montaggio crea tra l’ordine delle scene nello spettacolo e quello del video, grazie al filmato si arriva a ricostruire la sensazione dell’essere spettatore. Dallo stravolgimento del modello originario si arriva a un’esperienza visiva che permette di ricongiungersi alla disposizione mentale assunta dallo spettatore durante l’evento live. Anche a teatro il pubblico compie delle zoomate, dei campi lunghi, dei primi piani. Il cervello del pubblico è estremamente selettivo…

Ci sono sempre dei “colpi di attenzione” che decidono di finire da una parte anziché da un’altra…

E’inevitabile, l’occhio seleziona molto: una selezione analoga Cristiano e Stefano l’hanno fatta attraverso un mezzo meccanico. E c’è un potere, una forza magnetica in questo: sono riusciti a restituire il magnetismo del teatro che è fatto anche di pause, di dilatazioni del tempo. Sono stati veramente bravi nell’interpretare il tempo come materia.

E’sempre difficile raccontare il teatro attraverso un filmato….

Molto difficile. Perché non basta essere dei semplici ripetitori, occorre avere un’invenzione da proporre. Bisogna reinventare un rapporto. Anche per questo il ciclo filmico riesce ad avere una sua autonomia, a disporsi su una complementarità che rafforza entrambi.

Parliamo di quell’impegno immane che è stato la Tragedia Endogonidia: qualcosa del vostro percorso è tornata a farsi sentire, qualcosa si è perduto, molte caratteristiche del vostro linguaggio vivono in uno sforzo potente di reinvenzione…

E’vero, alcune cose del passato sono state raccolte, e sono servite per costruirne altre. La Tragedia si trova in un punto mediano tra riconsiderazione del linguaggio e riscoperta. Qualcosa delle passate esperienze è stato bruciato, qualcos’altro trasformato in nuova energia. E’stato un tour de force in tutti i sensi, un ciclo che ha forzato l’approccio creativo, che quasi mai ha concesso tempo per una riflessione o per un progetto, e che si è realizzato in una continua, spasmodica spinta nervosa. La Tragedia è un processo che, una volta iniziato, ha continuato ad avanzare per una spinta propria, endocrina; una volta avviato, è lui che ci ha trascinato, ed ha continuato a farlo fino alla fine. La Compagnia, una volta messo in moto il meccanismo, ha seguito la propria inerzia come un corpo lanciato nello spazio.

Che cosa ha significato per la Compagnia questo banco di prova?

Ha significato una sollecitazione forsennata di tutta la struttura. E non solo dal punto di vista organizzativo, ma anche da quello produttivo… praticamente con la Tragedia è cambiato tutto. Abbiamo avuto a che fare con grandi realtà all’estero, con grandi festival: abbiamo dialogato con loro, aprendoci al mondo. Loro si sono fidati, e hanno creduto ad un viaggio di cui si conosceva l’inizio ma non come sarebbe proseguito.

Prima parlavi di “cose bruciate e trasformate”: nell’evoluzione artistica della Socìetas sono tanti i riferimenti che denotano una riflessione sul teatro antico, riferimenti che nella Tragedia hanno trovato un approdo naturale…

E’vero, nel nostro lavoro c’è sempre stato un riferimento al teatro antico, abbiamo sempre avuto questo pensiero rivolto alla dimensione tragica in cui la corruzione è costantemente presente. Il teatro è una lingua corrotta, la tragedia un inganno. Nella Tragedia Endogonidia vive questo pensiero.

Gorgia parlava di inganni e di savi che scelgono di lasciarsi ingannare: il suo paradosso sulla tragedia è sempre valido…

Non solo è sempre valido, ma anche insuperabile. E può essere applicato non solo alla tragedia, ma al teatro occidentale tout court. La tragedia pone fine al rituale, pone fine al mito: essa, che è il perno della cultura occidentale, rappresenta un momento di crisi e contemporaneamente la nascita di qualcosa di nuovo. La creazione della tragedia è per noi un passaggio fondamentale, ed essa è e resta un argomento invincibile. E’un problema aperto, e non un fatto archeologico come spesso vogliono farci credere a teatro. Essa rappresenta da sempre lo scoramento dell’uomo, il suo essere solo su questa terra, il suo confrontarsi con un silenzio immenso che gli sta intorno. Questo è un tema universale, e per chi lavora nel teatro resta una disciplina imprescindibile. Anche là dove c’è una commedia, da qualche parte deve esserci una tragedia.


Parliamo delle Crescite, anch’esse fortemente legate alla Tragedia Endogonidia ma allo stesso tempo libere da ogni vincolo…

Le Crescite sono dei brevi momenti di carattere circolare, azioni che si caratterizzano per una forte concentrazione spazio-temporale e che finiscono per essere come chiuse in un anello di ferro. Prendono vita dalla sovrabbondanza di personaggi e segni della Tragedia, come spore che cadono ai margini di un cammino. Dalla pletora di contenuti derivanti dalla Tragedia nascono questi nuclei che si possono concepire come forme autonome. La V Crescita riguarda in particolare la materia “tempo”, il suo scorrere circolare, il fatto che nessuno può sottrarsi al suo meccanismo: essa è caratterizzata da una forte densità che deriva dalla stratificazione dei caratteri portanti della Tragedia, dal loro auto-organizzarsi e dal loro desiderio di esprimersi drammaturgicamente in modo molto conciso”.


Il “Concerto” invece raccoglie la ricchezza del lavoro fatto sulla Tragedia Endogonidia a proposito del suono…

Sì. Il lavoro che Chiara Guidi e Scott Gibbons hanno fatto sul suono era talmente grande che il Concerto ha potuto usarne solo una minima parte. Un po’ come è successo con le Crescite, anche qui, come una sorta di ameba, il concerto si è staccato da tutto il resto per creare un corpo autonomo. Tra l’altro si tratta di una creatura in continuo movimento… di volta in volta aumenta, si modifica. La musica è una forma plastica, e per questo la struttura del concerto è particolarmente mobile”.

Parliamo del futuro della Socìetas e di come la Tragedia Endogonidia lo influenzerà… dopo questa esperienza, come immagini la prosecuzione del vostro percorso?

Devo risponderti per via negativa, sottraendo ciò che probabilmente di quel percorso non potrà far parte. Credo che dopo la Tragedia sia impossibile per noi riproporre un rapporto retorico rispetto al teatro. Per molti anni abbiamo lavorato moltissimo sulla retorica (sul programma di sala del Giulio Cesare, spettacolo del 1997, la Socìetas scriveva: “Il teatro inizia dove inizia la retorica, forse. Il fatto è che non solo il teatro prosegue sul piano formale il discorso della retorica (o viceversa), ma la retorica è sostanzialmente un modo concreto e completo di considerare e di manipolare la materia teatrale. La retorica accetta e vela la corruzione del teatro: guarda il teatro in modo impietoso, scabroso: ne esalta la vera faccia, che è, appunto, quella della finzione, della corruzione” Ndr) intesa come disciplina e tecnologia applicata allo spirito e alla coscienza: una tecnica che contiene anche una certa malvagità… Tutto questo penso che non sarà più possibile nei prossimi lavori, e trovo che probabilmente la prossima produzione dovrà essere una produzione povera, anzi, “povera povera”, per citare Grotowski (anche se la citazione è solo d’effetto, visto che i nostri ambiti sono molto distanti).

In qualche modo quindi la Tragedia Endogonidia ha fatto “tabula rasa” di una serie di declinazioni del vostro precedente percorso… che tipo di povertà è quella a cui ti riferisci?

E’ una povertà fatta di cenere, di cenere compressa. Non è la povertà mistica di chi è o si ritiene puro, o la povertà di chi sente di dover cercare la verità. Nel nostro lavoro non abbiamo mai cercato la verità, ma anzi abbiamo sempre cercato l’inganno, l’unica chiave eternamente valida per il teatro. Proprio come diceva Gorgia.


 
© copyright ateatro 2001, 2010

 
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